Archivio mensile:giugno 2006

Media, quando l’appello non basta

L’Alleanza evangelica chiede al nuovo direttore generale della Rai uno spazio sui canali pubblici per le realtà evangeliche non rappresentate da Protestantesimo. Non ha torto: ormai gli evangelici che non si riconoscono nel protestantesimo storico (e liberale) sono la percentuale ampiamente maggioritaria degli evangelici; per questo sembra anomalo, e singolare, che una percentuale minoritaria abbia uno spazio (e lo usi, giustamente, come ritiene: non vogliamo entrare nel merito), mentre la restante maggioranza non abbia un programma, e non possa avvalersi nemmeno di qualche informazione corretta quando nei tg si parla dell’ambiente evangelico.

Forse l’AEI è stata un po’ troppo prima di chiedere qualcosa di ragionevole come uno spazio televisivo (e radiofonico, speriamo). Se ci muoviamo solo nel 2006, però, un motivo c’è, ed è il disinteresse degli evangelici per i media: convinti che evangelizzare si declini solo nei concetti di “culto con appello”, “volantinaggio”, “musica e testimonianze”, i più non colgono le potenzialità dei mezzi di comunicazione. Sono pochi i credenti, e ancor meno le chiese, che davvero comprendono e sanno fare televisione, radio, giornali, o che sanno usare i canali che esistono già. E, quando se ne avvalgono, nella maggior parte dei casi i programmi restano identici per decenni (mentre si sa, i media e la percezione degli spettatori cambiano gradualmente stagione dopo stagione).
In generale potremmo dire addirittura che pochi sono coloro che sanno comunicare tout court, e in queste condizioni non c’è niente di strano se nessuno ha chiesto nulla fino a oggi, salvo recriminare sporadicamente sull’assenza degli evangelici da ogni spazio mediatico. Bene, quindi, l’appello dell’AEI; ora però sarebbe forse il caso per l’Alleanza di creare un minimo di coscienza collettiva sul piano mediatico: anche perché, se ottenessimo lo spazio, dovremmo anche essere in grado di gestirlo.

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Analisi, commenti e riflessioni sui temi del momento nel programma musica&parole: dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 11 sulle frequenze di crc.fm.

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Media, quando l'appello non basta

L’Alleanza evangelica chiede al nuovo direttore generale della Rai uno spazio sui canali pubblici per le realtà evangeliche non rappresentate da Protestantesimo. Non ha torto: ormai gli evangelici che non si riconoscono nel protestantesimo storico (e liberale) sono la percentuale ampiamente maggioritaria degli evangelici; per questo sembra anomalo, e singolare, che una percentuale minoritaria abbia uno spazio (e lo usi, giustamente, come ritiene: non vogliamo entrare nel merito), mentre la restante maggioranza non abbia un programma, e non possa avvalersi nemmeno di qualche informazione corretta quando nei tg si parla dell’ambiente evangelico.

Forse l’AEI è stata un po’ troppo prima di chiedere qualcosa di ragionevole come uno spazio televisivo (e radiofonico, speriamo). Se ci muoviamo solo nel 2006, però, un motivo c’è, ed è il disinteresse degli evangelici per i media: convinti che evangelizzare si declini solo nei concetti di “culto con appello”, “volantinaggio”, “musica e testimonianze”, i più non colgono le potenzialità dei mezzi di comunicazione. Sono pochi i credenti, e ancor meno le chiese, che davvero comprendono e sanno fare televisione, radio, giornali, o che sanno usare i canali che esistono già. E, quando se ne avvalgono, nella maggior parte dei casi i programmi restano identici per decenni (mentre si sa, i media e la percezione degli spettatori cambiano gradualmente stagione dopo stagione).
In generale potremmo dire addirittura che pochi sono coloro che sanno comunicare tout court, e in queste condizioni non c’è niente di strano se nessuno ha chiesto nulla fino a oggi, salvo recriminare sporadicamente sull’assenza degli evangelici da ogni spazio mediatico. Bene, quindi, l’appello dell’AEI; ora però sarebbe forse il caso per l’Alleanza di creare un minimo di coscienza collettiva sul piano mediatico: anche perché, se ottenessimo lo spazio, dovremmo anche essere in grado di gestirlo.

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Tra progresso e dipendenza

Sono messi male gli studenti sudcoreani: da una recente ricerca il cellulare è considerato dalla maggioranza come indispensabile e ineliminabile dalla propria vita.

Quando la comunicazione diventa dipendenza, il progresso diventa un disagio. O meglio: progresso ed elettronica, come qualsiasi altro aspetto della vita e della società, sono fattori neutri, che vestiamo di utilità o di problematiche attraverso il nostro approccio. Forse qualcuno ancora ricorda la vita ai tempi del gettone telefonico: affascinante, a vederla oggi, ma scomoda sotto molti punti di vista. Prendere un appuntamento e aspettare, senza poter sapere se la persona arriverà perché, da quando si esce di casa, si è irreperibili.
Difficile farsi raggiungere, e in certi momenti la cosa diventava davvero critica: ma non c’era alternativa, né immaginavamo ci potesse essere.

Oggi è il contrario: nemmeno si suona più al campanello, si dà uno squillo al cellulare, che a sua volta suona come un’orchestra. Messaggi, chiamate, squilli infestano l’audio delle nostre giornate, e catturano la nostra attenzione: se ci sono, perché ci impegnano; se non ci sono per troppo tempo, perché ci preoccupiamo che il cellulare non funzioni o non prenda.
Rischiamo la dipendenza, a quanto pare. E qui l’essere umano dotato di raziocinio dovrebbe mettere in campo l’uso dell’intelligenza. Fino a che punto dire di sì? Il cellulare è comodo quando serve, ma rischia di non permetterci più un periodo ragionevole di concentrazione. Se suona, disturba; se non suona, ci distraiamo comunque preoccupati per l’inusitato silenzio. Stiamo diventando sempre più superficiali, e – in fondo – non sappiamo più dire di no, nemmeno a una macchina, con tutte le conseguenze del caso. Allora forse è il caso di chiedersi se è ancora il cellulare a servire noi, oppure viceversa. E agire di conseguenza.

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Doppia sfida

La diffusione della Bibbia e del Nuovo Testamento sono in grande crescita, ma allo stesso tempo persiste il fenomeno di una cultura religiosa debole. Sono questi i risultati di una indagine commissionata dall’Alleanza Biblica Universale (ABU) e condotta dal professor Luca Diotallevi, dell’Università di “Roma TRE”.
L’indagine ha abbracciato un arco di tre anni ed ha riguardato la Francia, la Spagna e l’Italia. Il sondaggio, condotto da Eurisko su un campione di 650 persone dei tre Paesi.
Il Pastore Miller Milloy, Segretario mondiale dell’Alleanza Biblica Universale, ha spiegato che (…) “la ricerca mostra chiaramente che per molti la Bibbia è un libro chiuso, nel senso che benché tra il 42% ed il 55% dei cattolici intervistati legge la Bibbia, i numeri scendono quando si comincia a considerare la frequenza della lettura”.
Il Segretario dell’ABU ha concluso ribadendo che “questa ricerca dimostra che molto è stato fatto e anche molto resta da fare nell’aprire la parola di Dio al suo popolo”. (…)
La ricerca ha evidenziato che la diffusione e conoscenza del testo biblico avviene soprattutto attraverso la messa domenicale. La frequenza al precetto festivo vede primeggiare la Spagna con il 49% dei credenti. Segue l’Italia con il 29% e la Francia con il 26%.
Dalla ricerca emerge che di questi praticanti leggono la Bibbia il 55% dei francesi, il 52% degli spagnoli ed il 42% degli italiani. Fra coloro che partecipano alle letture di gruppo il 21% sono francesi, il 17% italiani ed il 12% spagnoli. Secondo gli intervistati, l’omelia è lo strumento più diffuso per far conoscere la Bibbia.
La conoscenza dei fatti biblici rimane comunque molto parziale. Nel corso delle interviste sono state poste domande trabocchetto in cui si chiedeva di indicare quali tra i santi sono autori di un Vangelo. Il 32% ha indicato san Pietro ed il 49% san Paolo, evidenziando la confusione tra evangelista, apostolo e autore di epistole. (…)
“Dall’indagine – ha sottolineato Diotallevi – emerge una conoscenza religiosa debole o nulla”, nelle percentuali del 56% in Spagna, 47% in Italia e 44% Francia; ed una alfabetizzazione biblica bassa: 30% Italia, 22% Spagna e 21% Francia.
(da zenit.org)

Spesso parliamo della sfida che consiste nel diffondere la Bibbia. In realtà non basta: dobbiamo anche essere in grado di comunicare il desiderio di farne un libro personale, vissuto, da aprire a ogni occasione per trovare ispirazione (come ci diceva, in un’intervista, il simpatico attore Gioele Dix). Oggi il possesso materiale perde valore: si regala di tutto, e un libro non è più raro e prezioso come un tempo. Dirtribuire davanti alle scuole copie del Nuovo Testamento ha un senso se il volumetto è accompagnato, per esempio, da un messaggio di sfida adatto alle persone che si vuole raggiungere: altrimenti, purtroppo, si tratta spesso di carta sprecata, in un mondo sempre più veloce e disattento.

Cambiano i tempi, i modi, i sistemi di comunicazione. Trent’anni fa il volantino era uno strumento prezioso; oggi lo è in forma molto marginale, mentre le tecniche per raggiungere le persone con un messaggio (informazione, pubblicità) si sono affinate e hanno sviluppato teorie e regole preziose per capire il modo migliore in cui muoversi. Vale per il commercio, ma vale anche per noi: se non ne teniamo conto è solo a nostro svantaggio.

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Un dono per capire IL dono

Prima Bill Gates, ora Warren Buffett: i due uomini più ricchi del mondo decidono di dedicarsi alla beneficenza, il primo lasciando del tutto la sua azienda per seguire in prima persona la fondazione cui ha assegnato cifre di rilievo; il secondo donando l’85% del suo patrimonio alla stessa fondazione. Tra i motivi, il desiderio di non trasformare i suoi figli in “nababbi pigri”, ma anche quello di avere meno pesi sulla coscienza sul piano spirituale: «Ci sono parecchi modi di andare in Paradiso: questo è uno dei migliori».

Ammirevole l’impegno di questi miliardari, che oltre ad aver avuto dalla vita una buona fortuna, hanno avuto anche la coscienza di capire come usarla, e quanto male possa fare. D’altronde chi non ha faticato per guadagnarsi un patrimonio non avrà il senso della ricchezza, e rischierà di dilapidarlo: è una legge sociale che purtroppo si ripete con frequenza.

Ma non solo: piace questa idea di fare del bene, e di seguire attivamente, come decide di fare Bill Gates, l’impegno umanitario che ha finanziato: dovrebbe essere una regola anche per noi cristiani avere cura di ciò che ci è stato affidato, evitando quindi di affidare a caso la nostra beneficenza senza poi seguire con attenzione gli sviluppi del nostro impegno economico, per quanto esiguo possa essere. Donare significa essere partecipi, ed essere partecipi richiede più di un dono: richiede preghiera, impegno, comunicazione con le opere interessate dal nostro dono, in caso anche collaborazione.

Interessante, in conclusione, l’aspetto “spirituale” della decisione di Buffett: certo, contrariamente a quanto ha affermato (forse ironicamente) distribuire i propri beni non porta in Paradiso; ma se ha capito che “è più difficile per un cammello passare per la cruna di un ago piuttosto che per un ricco andare in paradiso”, concetto molto difficile per chi ha un bel gruzzolo da parte (basti vedere, nel vangelo, la reazione del giovane ricco), allora può capire anche molte altre cose, compreso il senso più profondo del dono di Dio.

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Tra lusso e sobrietà

Ventimila euro per un matrimonio: questo il costo – con cento invitati – fatto dal Codacons su quanto costi oggi sposarsi.
Non sarà, forse, il motivo principale per il calo dei matrimoni, ma tutto sommato bisogna prenderlo in considerazione. I costi per un matrimonio approvato socialmente sono sempre più alti. E allora bisognerebbe, forse, chiedersi perché. Il lusso diventa sempre più necessario, l’effimero diventa esigenza, e ci si trova a spendere sempre di più, anche perché “ci si sposa solo una volta”. Il fatto che sia un momento unico non giustifica: anche la conversione lo è, eppure nemmeno ce ne ricordiamo la data.
È importante saper essere moderati: esistono costi inevitabili, ed è anche giusto dare onore a un giorno importante, ma senza esagerare. Tra il necessario e lo sfarzo ci sono vari gradi: come cristiani siamo chiamati a non dare cattiva testimonianza, e spendere decine di migliaia di euro oltre il necessario non dà un’immagine da buon amministratore di ciò che Dio ci ha dato.

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Numeri e speranze

Un po’ di curiosità, e una certa ilarità, hanno sollevato le intercettazioni telefoniche. No, non quelle famose: non quelle del calcio, e nemmeno quelle della politica. No, sono intercettazioni molto più benevole, o meglio sono dialoghi intercorsi tra una telefonista professionista e gli utenti che l’hanno contattata. Questa ragazza ha avuto occasione di lavorare per un certo periodo, pensate un po’, a uno di quei numeri telefonici cui rispondono cartomanti e sensitivi. In realtà lei era una telefonista normale, a contratto, e di sensitivo aveva poco; molti di coloro che sono assunti per rispondere a quei numeri sono persone normali, cui viene insegnata principalmente la regola base del lavoro: che non è predire il futuro, ma far stare il più possibile la gente al telefono, in modo che spenda di più.

Tra le tante telefonate che giungono ogni giorno, questa ragazza ha voluto selezionare le chiamate più curiose, e ce n’è da divertirsi: da quella che chiama per dire “mi avete detto che lui avrebbe chiamato, sto aspettando da tre anni” alla signora che, ricevuta una previsione da una zingara a sedici anni, si preoccupava perché le era stato detto vivrai fino a 80 anni, e ora ne ha 78.

Tutto questo, ovviamente, può far sorridere, ma fa anche pensare. Sono migliaia le persone che chiamano ogni giorno questi numeri per un “consulto”. Non sono persone che credono nell’occulto, non necessariamente. E’ gente che ha bisogno di aiuto, di conforto, o spesso solo di venir ascoltata. Allora la domanda nasce spontanea: quando loro chiamano quei numeri, si svenano, rischiano cattive strade (perché sulla strada dell’occulto ci si può incamminare scherzando, ma non si sa dove si va a finire), noi dove siamo? Dove sono quei cristiani che sono chiamati a dare – gratuitamente – aiuto, amore, speranza? Dove sono tutti quei cristiani che vediamo, alla domenica mattina, andare in chiesa?

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Citazioni e pratica

Il Magazine del Corriere della Sera riporta la domanda posta dalla giornalista Barbara Palombelli a una serie di personaggi più o meno celebri: “Dimmi la frase nella quale ti identifichi”.

Tra le risposte, spiccano interessanti citazioni, come quella di Fausto Bertinotti che ricorda l’apostolo Paolo (“Siamo uomini in questo mondo, non di questo mondo”, almeno nella versione riportata dal settimanale), la giornalista Ritanna Armeni con una versione spuria di una frase di Gesù (“Guadagna la propria vita chi la butta via”); c’è anche qualche riferimento non biblico ma comunque cristiano (“A cosa serve che le mie mani siano pulite se le ho sempre tenute in tasca”, proposta da Dario Franceschini e attribuita a Don Primo Mazzolari), passando per Ignazio di Loyola (“Dobbiamo lavorare molto come se tutto dipendesse da noi e pregare di più perché tutto dipende da Dio”, ricordata da Pier Ferdinanto Casini), per concludere con il critico cinematografico Anselma Dell’Olio, che torna alla Bibbia (o quasi) con “Posso fare tutto, con Colui che mi dà forza”. Che però, in questa versione, viene attribuita (non sappiamo se dalla giornalista o dal giornale) a suor Francesca Cabrini.

Senza contare, in altre occasioni, le citazioni bibliche di calciatori (“Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica”), o di personaggi del mondo dello spettacolo (Claudia Koll, in questo, è sempre in prima linea).

Certo, la citazione non fa la differenza: citare la Bibbia non è che un indizio, che va avvalorato da altre prove. Però, a quanto pare, la Bibbia è più vicina di quanto si pensi; se poi la precisione nella conoscenza dei testi e dei contesti è molto meno efficace, è un altro discorso.

Una cosa che stupisce, invece, è quanto poco i cristiani siano vicini alla Bibbia: da un rapido giro di domande durante la diretta, abbiamo visto come sia difficile trovare un versetto caratterizzante per la nostra vita, il nostro operato quotidiano, i nostri progetti, le nostre aspirazioni. Non sarà che noi, popolo del libro (per citare la definizione ebraica), consideriamo il libro una realtà troppo teorica, da citare solo avvolta nell’evangelichese incomprensibile ai più, e poco adatta invece alla pratica quotidiana?

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Esami, la storia infinita

Chi non ricorda il proprio esame di maturità? Sarà che chiude un ciclo di studi che attraversa cinque anni fondamentali nella vita: dai 14 ai 18 anni si gioca molto nella formazione non solo culturale, ma anche umana, psicologica, spirituale. Sarà che è il primo esame vero: anche se, di fronte ai miei timori, in redazione un mio collega un po’ più maturo diceva che “non è niente, in confronto agli esami universitari” (grazie per l’incoraggiamento…). Per la prima volta si viene davvero valutati: commissari che non ci conoscono, e non professori spesso comprensivi, sono chiamati a valutare quel che siamo e sappiamo davvero su un numero di materie così ampio che solo a 18 anni si può ricordare con precisione.

Comprendiamo quindi i timori del mezzo milione di ragazzi impegnati, in queste ore, sulla prima prova scritta (a proposito: nel tema si parla di Ungaretti e Mazzini). Come se nn bastasse, le altre due prove quest’anno vengono a ruota, senza pause, e questo non aiuta. E poi gli orali.

Lo so che in questo momento non è facile pensare agli esami in maniera positiva, eppure – lo capirete tra qualche anno – sono momenti di crescita. Confrontarsi con se stessi, sfidare quel che si può fare, comprendere i propri limiti sono aspetti importanti per quel che verrà dopo, che si tratti di un futuro accademico o della vita.

Possiamo dare qualche consiglio? Difficile. Ma proviamoci insieme.

Primo: per quanto possibile, prenderla con serenità. La tensione peggiora la situazione. Un caro fratello mi consigliava, in periodo di esami di maturità – anche se preso dagli studi – di leggere ogni giorno un salmo. Un consiglio che volentieri giro a voi.

Secondo: serietà. In pochi giorni non si può coprire un intero anno di conoscenza, per cui la speranza è che abbiate preparato per tempo l’esame. Altrimenti, concentratevi sui sommi capi: avere uno sguardo panoramico sulla materia di solito è apprezzato più che la conoscenza specifica ma sconnessa. Se poi sapete anche rispondere alla domanda “mi parli di un argomento a scelta”, meglio ancora.

Terzo: non barate. Esistono molti modi per copiare, ma non è onesto. Serve a poco e si rischia grosso.

Quarto: ricordatevi chi siete. Non il vostro nome (a proposito, non dimenticate la carta d’identità), ma la luce che siete chiamati a portare ovunque, in ogni occasione, anche nelle difficoltà. Non concentratevi solo su di voi, sul vostro problema, sulla vostra (legittima) paura, sul vostro esame. Pensare agli altri sarà un incoraggiamento per loro, ma sarà anche un modo per non cadere nel vortice della nostra angoscia: facendo del bene riceviamo del bene.
E poi, pensate che ci sono molti altri attorno a voi, e che aspettano da voi una prova pratica di quella fede di cui avete parlato per anni. Chissà che domani qualche compagno, nel vedervi diversi, non capisca quel che voi avete in più.

Questo possiamo dire. Per il resto, buon esame. Che Dio vi benedica.

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Genitori a tutto campo

In un’indagine della Stampa sulle baby gang di Genova emerge un dato preoccupante: le bande operavano con “inaudita violenza” – «anziani aggrediti alle spalle, gettati a terra e picchiati per pochi soldi di bottino» – per autofinanziarsi e dimostrare il dominio territoriale; sono arrivate all’omicidio di un giovane, tre anni fa.

«Eppure – rileva l’articolo – in contrasto con tanta violenza, i picchiatorisono molto religiosi, di fede battista: durante le perquisizioni a tutti sono stati trovati in casa Bibbia e testi sacri».

A volte si pensa che i figli sono “bravi ragazzi” solo perché continuano a seguire le nostre direttive: vengono “in chiesa”, vanno agli incontri dei giovani, magari d’estate anche ai “campeggi”. Purtroppo spesso ci limitiamo all’apparenza, e l’apparenza dà conto della religiosità più che della fede. Eppure, se è vero che l’apparenza inganna, dovrebbe essere chiaro a tutti, tantopiù a un genitore: per capire i figli non basta guardarli.

Certo, è più semplice trascinarli agli incontri, inculcare qualche precetto religioso, o appiccicare qua e là nel discorso qualche frase biblica, piuttosto che seguire costantemente e seriamente la crescita spirituale (e non religiosa) dei propri figli, intercettandone le tendenze, i talenti, le aspirazioni. Molto più semplice dire “leggi la Bibbia”, “devi convertirti”, “confida in Gesù”, “e tu saresti un vero credente?” piuttosto che mettersi a leggere con loro, a pregare, stimolarli con domande mirate (magari quelle che i nostri colleghi fanno a noi: “che fine farà il mondo?”; “ti pare giusto tutto questo?”; “cosa vuole Dio da noi?”) che possano attivare una riflessione e una posizione su argomenti essenziali.

È più semplice prendersela con la chiesa, che lascia l’attualità e i problemi fuori dalla porta (e non solo durante i culti, momento in cui effettivamente lo sguardo andrebbe alzato al Cielo), proponendo qualche versetto e qualche frase fatta come soluzione ai mali dell’animo adolescenziale. La chiesa ha spesso le sue responsabilità quando eccelle nella teoria e trascura la pratica, quasi che la spiritualità non andasse vissuto anche nel quotidiano. Non deve essere però una scusa, perché la prima chiesa è la famiglia: la chiesa non potrà mai percepire i problemi quanto un genitore. E, a ben guardare, è al genitore che Dio ha affidato i figli, non alla chiesa.

Difficile essere padri spirituali, oltre che naturali: richiede impegno, preparazione, attenzione. Non permette di sedersi davanti alla tv a sorbirsi i telegiornali, a volte non permette nemmeno di dormire quanto si vorrebbe. Richiede lunghe ore di chiacchierate, confronti e a volte scontri, perché anche gli scontri rendono un rapporto davvero “vissuto”.

Come tutte le cose, essere padri e madri è difficile, specie se lo si vuole fare bene. Però, come poche altre occupazioni, sa essere produttiva. Come la vita cristiana stessa, essere genitori richiede fatica, impegno e preparazione; maturità e complicità; solidità e flessibilità. Ma, come investimento per il futuro, è impareggiabile.

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