Archivio mensile:ottobre 2006

Testimoni in loco

«Bush troppo lontano da Gesù»: gli evangelici statunitensi hanno perso la fede nel Presidente: più di sessanta milioni di voti a rischio alle elezioni di medio termine.
Bush, stando ai sondaggi, non ha confermato le premesse (e le promesse): tra le delusioni più cocenti l’assenza di una legge contro l’aborto, di un emendamento contro le nozze gay, lo scarso impegno per dare spazio alla preghiera nelle scuole.

Nonostante lo scontento, i repubblicani potrebbero farcela comunque: il problema per gli evangelici USA è l’assenza di un’alternativa politica convincente in chiave cristiana.

A favore di Bush va detto che, per quanto ostentata, la sua fede resta qualcosa di personale. Certo, il suo modo di porre le proprie convinzioni è stato fin troppo esplicito e appariscente rispetto a chi, di fronte a un impegno pubblico, ritiene di dover relegare la propria idea religiosa in una posizione più defilata; resta il fatto che chi sta nella stanza dei bottoni di una democrazia non può decidere a proprio piacimento, ma deve rispettare la posizione di chi non lo condivide, di chi la pensa diversamente, di chi non l’ha votato.

Ma non è solo questo. Forse non è il caso di Bush, che comunque ha un discreto potere nelle mani e può esprimere la sua fede in maniera serena e sincera anche nelle alte sfere in cui opera.
Il problema, in realtà, riguarda ognuno di noi. Sarà capitato anche a voi di incontrare persone credenti e coerenti nella loro fede, che desiderano “diventare famose” per poi parlare di Dio. Se solo guardassero i tanti esempi che abbiamo attorno, capirebbero che si tratta di una prospettiva falsata. Se si aspetta di “diventare famosi” per parlare della propria fede non ci si considererà mai “abbastanza famosi” per farlo. E soprattutto, per arrivarci, si accetteranno un numero di compromessi tale da stemperare in maniera marcata l’intenzione iniziale, se non addirittura a spegnerla.

Pur senza dimenticare le nostre aspirazioni, è importante cominciare a essere testimoni dove si è: la città, la cerchia di amici, l’ufficio. Sono le realtà che conosciamo meglio, e l’efficacia è assicurata.
La fama, più che un trampolino, rischia di diventare un limite.

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Giusto o sbagliato

Gli studenti inglesi sono ormai al di là del bene e del male, segnala la Stampa; nella nuova carta costituzionale della scuola di Sua Maestà, in nome della flessibilità culturale, gli insegnanti non dovranno più spiegare cosa è “giusto” e cosa è “sbagliato”: c’è solo l’invito a “basarsi su valori e convincimenti sicuri”.

Giusto o sbagliato, un dilemma eterno per l’essere umano. Ci troviamo a valutare, e venire valutati, dalla nascita alla dipartita, sempre in base a quel che viene considerato – da chi ci valuta – giusto o sbagliato.

Nei primi anni di vita ce lo spiegano (o ci sgridano): questo si fa, questo non si fa. Espressioni come “bravo” e “cattivo” si basano proprio su questi principi: l’esistenza di una scala di valori, di una morale capace di dare indicazioni sociali all’individuo, incoraggiandolo in una certa direzione con la lode della sua azione e scoraggiandolo in certi atti attraverso la riprovazione del comportamento. Non si scappa: è sempre stato così. Ma non è più così, da un po’, almeno a livello sociale: certo, ci sono le famiglie che si ostinano a formare brave persone e buoni cittadini, ma sembra che siano una stretta minoranza, a giudicare dal numero di ragazzotti che, con aria di superiorità, non cedono il posto, si vantano delle loro bravate (coperti da genitori che si sentono in colpa per mille motivi), non recepiscono il rimprovero e anzi guardano in cagnesco la persona (più anziana, e già solo per questo meritevole almeno di rispetto) che lo fa notare.

La direttiva impartita agli insegnanti della Gran Bretagna ha, in fondo, un merito: mette per iscritto un concetto che ormai è diffuso in tutta Europa, e probabilmente in tutto l’Occidente. A forza di chiedere “perché”, iniziativa peraltro opportuna e lodevole, si è finiti per non accettare più le risposte, in nome di una scientificità che dovrebbe permeare ogni affermazione. Ma la società non è un laboratorio. Non posso spiegare, in senso assoluto, perché la famiglia deve per forza essere la base del tessuto sociale. In effetti hanno provato in molti, e in molte occasioni, a cercare soluzioni alternative: dalle comuni sessantottesche ai matrimoni mono-genere, dalla convivenza al matrimonio a tempo. Non posso dimostrare la scientificità di una scelta che pare una delle tante possibili. Eppure, guardando a come il circolo della vita è strutturato, per quel suo svilupparsi grazie all’amore tra due persone (e non tre, quattro, dieci), per la necessità psicologica del nuovo venuto ad avere attorno a sé un contesto stabile, con ruoli definiti, con diritti e limiti, guardando tutto questo non posso non constatare, lontano da ogni evidenza scientifica ma con una notevole certezza concreta, che la soluzione ideale è proprio la famiglia, intesa in senso biblico, e non un’altra.

La dinamica sociale non ha certezze scientifiche, ma allo stesso tempo non deve piegarsi a rigurgiti reazionari: se i “perché” a un certo punto si devono fermare di fronte a un mistero più grande di noi, i “perché sì” non vanno per forza accettati supinamente. Chiedere è giusto e doveroso. E magari anche cambiare ciò che è solo un dettaglio, un particolare, un’abitudine, per non trincerarsi dietro al “si è sempre fatto così”.
Questione di ragionevolezza, la stessa che ci impone di considerare intangibili alcuni principi.

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Mondi nuovi già vecchi

È arrivato il neoilluminista a spiegarci la vita. «La fede religiosa minaccia la nostra esistenza», attacca Sam Harris in un saggio politicamente scorretto (così lo definisce il Corriere) pubblicato in Italia da una casa editrice sufficientemente complottista per accogliere un pamphlet diretto e senza remore.

Il concetto di base è che la fede – sia essa cristiana, musulmana, ebraica – non serva, e anzi sia un pericolo per l’umanità. Dopo vent’anni di studi comparati sulle religioni, Harris si è fatto l’idea che ogni religione è a rischio-estremismo, e che il terrorismo sia dietro la porta di ogni credo. Non solo l’islamismo, quindi, ma anche il cristianesimo (che in passato non ha vissuto momenti troppo tolleranti) e l’ebraismo, con quella sua autovocazione a popolo eletto.

«Dovremmo deciderci a riconoscere che tutti gli uomini e le donne ragionevoli hanno un comune nemico: la fede stessa». L’alternativa è la guerra globale.

E non è una soluzione nemmeno la tolleranza, o la moderazione, che sono solo «il frutto di molte mazzate della modernità, che hanno messo in dubbio i dogmi della fede».

La soluzione? Secondo Harris, etica e spiritualità devono avere un’applicazione, ma in campo laico: costruire un mondo di comunità solidali e fondate sul bene comune.

Harris viene definito un neoilluminista. Ma di nuovo, nel suo pensiero, c’è davvero poco. Non è nuova l’avversione alla fede: partendo dai tempi di Noè, in ogni epoca e in ogni luogo del mondo c’è stata una componente – minoritaria o maggioritaria – che ha contrastato o irriso l’idea di un dio, di una fede, di una fratellanza spirituale.
E d’altronde ha diritto d’asilo chi si oppone a questi concetti: la fede infatti non è un obbligo, ma un privilegio dato a chi lo desidera, non certo a chi ritiene di poter fare da sé.

Non è nuova nemmeno l’accusa di violenza, sferrata dallo scrittore alle religioni: ogni religione si è fatta il suo curriculum di guerre, drammi, ingiustizie. Perché la religione non è la fede: è un insieme di regole codificate che influenza la società, e quando perde di vista la sua componente spirituale diventa una ideologia qualsiasi, con tutti i difetti di ogni proposta politica.

Sul fatto che la tolleranza sia solamente un “voglio ma non posso” delle fedi (sono tollerante perché non sono maggioranza e quindi non posso imporre il mio estremismo), o come frutto di una frustrazione data dal modernismo, l’argomento è interessante ma non esauriente: la tolleranza come risultato di una fede ponderata esiste, se come archetipo e paradigma di “homo religiosus” non prendiamo solamente i fondamentalisti. Se non esistesse la tolleranza, la fine dell’umanità vaticinata da Harris sarebbe arrivata molto tempo prima che l’autore avesse avuto la possibilità di esprimere la sua teoria.

Niente di nuovo, invece, nemmeno in merito alla soluzione proposta: costruire un mondo nuovo è stato il manifesto e l’utopia di tutte le dottrine, religiose e laiche. Lo voleva – per restare solo ai tempi più recenti – anche il nazismo, e lo voleva soprattutto il comunismo, che usava (sorpresa!) proprio gli stessi concetti e quasi le stesse parole di Harris: una serie di comunità solidali e fondate sul bene comune senza le moleste e perniciose infiltrazioni di qualsivoglia tipo di fede.
Il risultato è stato paradossale. L’idea stessa di benessere comune si è fatta prima fede, poi si è cristallizzata nella religione: una religione “sorda, cieca, muta e assurda”, proprio come dice Harris. E ogni obiezione a questa fede veniva bloccata dall’estremismo religioso delle “guardie della rivoluzione”, zelanti nel fermare ogni dissidenza: proprio come i farisei di ogni confessione religiosa.

Con un’aggravante: Stalin, Pol Pot, Kim Yong Il lo facevano (o lo fanno) in nome della ragione.

La “nuova società” che era stata prospettata e che si era voluta creare, insomma, è finita per somigliare troppo a quella vecchia. Una religione politica ha sostituito la religione spirituale. Con quali vantaggi, è sotto gli occhi di tutti. Altro che mondo nuovo.

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Paura del vuoto

«Il tempo libero come lo conoscevamo non esiste più», titola il Giornale, che in un ampio servizio dà l’addio alla “vecchia domenica”, quella del riposo, degli affetti e della famiglia. Ormai il tempo libero è visto in chiave utilitaristica, e va “sfruttato, massimizzato, reso produttivo per tutti quegli impieghi che nel resto della settimana non abbiamo più la possibilità di soddisfare”. Ecco che al posto della funzione religiosa, considerata – almeno sul versante cattolico – noiosa e poco socializzante, arrivano i nuovi riti: non tanto la gita fuori porta, ma la gita al centro commerciale.
Non a caso questi grandi concentrati di negozi, futuristici nella forma e confortevoli nella sostanza, restano aperti sempre più spesso anche nei festivi: ne sono prova i cartelloni e gli striscioni piazzati in posizione strategica su autostrade, tangenziali, strade di intenso traffico. Durante la settimana, mentre aspettate che la consueta fila di auto si muova, potete trovare l’annuncio trionfale della prossima apertura “anche alla domenica”, o – in questo periodo – anche per il primo novembre.

Che poi non c’è dubbio: i centri commerciali siano un riparo ideale e un antidoto contro la noia delle giornate di pioggia. I bambini si divertono, i grandi passeggiano in queste novelle piazze del XXI secolo, curiosano qua e là e talvolta – complici i prezzi concorrenziali – ci scappa anche l’acquisto. Certo, non è il prezzo a fare gola: in fondo, per raggiungere questi grandi magazzini (come si diceva una volta) si spende più di quanto si risparmia con qualche acquisto.

E allora perché tutto questo successo? Non è questione di novità: ormai i grandi centri commerciali punteggiano il paese da almeno una decina di anni.

La questione di fondo, come si diceva, riguarda non tanto la struttura, ma chi la frequenta. E la sua paura. Paura del vuoto, paura della pausa, paura dell’assenza. Nell’inattività, nel silenzio, nel riposo si riaffacciano pensieri, domande, responsabilità. Pensieri profondi, cui non abbiamo dato ancora una risposta convincente. Domande sulle scelte da fare, sui percorsi da seguire oltre la quotidianità. Responsabilità nei confronti della famiglia, dei nostri cari (cari almeno a parole), degli amici, di chi ha bisogno.
Ci sentiamo inadeguati per le risposte non date, impotenti di fronte a scelte più grandi di noi, colpevoli verso la nostra coscienza per quel che potremmo fare per gli altri, ma non facciamo per pigrizia.

Il giorno di festa ci ricorda tutto questo, e ci inibisce, rischia di farci perdere quella patina di superficialità che ci permette di andare avanti, impermeabili ai bisogni altrui e distanti dalle tematiche più profonde, che potrebbero portarci oltre il tran tran quotidiano e le sterili tradizioni consolidate.

Un rischio troppo grande, per una società come la nostra: potremmo perdere le nostre inutili certezze da cristiani formali, e scombinare quel presepe spirituale che ci siamo costruiti e in cui viviamo agiatamente senza bisogno di altro (e di altri).

E allora, a quel giorno di festa, meglio non pensare. Meglio mantenerlo come un giorno “diverso”, ma nevrotico come tutti gli altri.

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Magia e poesia

Secondo un sondaggio tra i piccoli lettori di Topolino, il 46.6% dei ragazzini crede nella magia. E più di qualcuno crede anche di poterla praticare.

Il direttore del settimanale, Clara Muci, la prende con tenerezza: è questione di fantasia infantile, un modo per spiegare in maniera poetica le realtà ufficiali. Come dire, in fondo per i bambini buona parte dell’esistenza è un mistero, e dall’innamoramento alla nascita di un fratellino; quindi per loro parlare di “magia” è un modo per spiegare le cose.

Forse. E fino a un certo punto.
Anche ai miei tempi su Topolino non mancava qualche riferimento alla magia. Ebbene sì, c’erano Amelia, la maga che ammalia, sempre alla ricerca del modo migliore (o di quello più strampalato) per conquistare la monetina numero uno di zio Paperone. C’era Maga Magò, che faceva e subiva dispetti in un contesto agreste. Ma erano sempre situazioni irreali, che anche un bambino riusciva a distinguere dalla realtà. Anche perché, non dimentichiamolo, i bambini non sono scemi: sono degli adulti in formazione.

Nell’immaginario infantile attuale, il mago è una cosa seria: da Harry Potter alle Winx, la magia viene presentata come un modo per cambiare la realtà. E i bambini hanno, di conseguenza, una fiducia preoccupante nella magia. Tra il serio e lo scherzoso l’articolo della Stampa parla di preveggenza, di telefoni che squillano quando ci si avvicina (succede anche a me, e perfino se non mi avvicino: ma non sono un mago), parla di controllo meteo, di smaterializzazione, e così via.

Ecco: è proprio prendendo poco sul serio i rischi, che si amplificano i problemi. Se i bambini davvero credono in quel che dicono, allora forse è il caso di pensarci seriamente, altroché.

Ma l’età, la fuga dalla realtà, la poesia, gli eroi? Sono cose di cui i bambini hanno bisogno, certo. Ma ci sono anche persone cresciute a pane e Bibbia, che hanno visto davvero cambiare le cose attorno a loro quando ne avevano bisogno. E non con competenze esoteriche o con una formula magica: con la fede e la preghiera.

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Ignoranza per la vita

Gli studenti di oggi non conoscono la geografia: in Italia, come in Inghilterra, un ragazzo su dieci non conosce nemmeno i nomi dei continenti.

E il problema non si ferma alla geografia, ovviamente: dalla geografia si passa alla storia, dalla storia alla letteratura, e via via alle altre materie che richiedono qualche conoscenza “del mondo”.

Eh, la cultura, questa sconosciuta. Si lamentavano i nostri insegnanti per il fatto che ai loro tempi l’esame di maturità era più duro, serio, si portavano tutte le materie e i commissari erano veri mastini. Abbiamo vissuto, molti di noi, esami comunque seri, anche se indubbiamente meno pesanti di quelli dei nostri predecessori. Oggi l’esame di maturità (o di licenza liceale) è di nuovo più complesso, ma a quanto pare le conoscenze con cui ci si arriva non sono complete nemmeno quanto quelle di chi lo raggiungeva dieci anni fa.

Non è superfluo, come discorso. Sulla cultura si basa la qualità della vita di un popolo, perché è grazie alle conoscenze (e, prima di tutto, alla Conoscenza) che si può migliorare la propria condizione. Se non so che potrei stare meglio, non saprò nemmeno come potrei, non avrò gli strumenti e le informazioni per farlo, e resterò quindi come sono.

E poi, dalla cultura nasce il pensiero. Il ragionamento. Nascono le domande che l’umanità si è sempre posta: chi sono, da dove vengo, dove vado. Sulla cultura si basano gli scopi della vita: se ho un orizzonte ampio avrò mire più alte, se il mio orizzonte arriva all’isolato, il mio scopo si limiterà a passare lunghi pomeriggi al bar a parlare di calcio, o davanti alla tv a sentirmi più intelligente delle pupe (e, a volte, dei secchioni, visto come si comportano in tv).

Senza una base culturale almeno decente non ci si pone domande, non si gode delle vittorie, non si superano le sconfitte. E l’insoddisfazione insita in ogni uomo, in mancanza di una risposta, resta senza inevasa. Una vita vuota cui qualcuno decide di dare fine prima del tempo, qualcun altro si adegua rimbambendosi davanti al piccolo schermo.

Ragazzi, la cultura non è uno studiare fine a se stesso o per un bel voto. Non è solo questione di sapere dove si trovino Pescara, Trento, Toronto, Macao, o conoscere chi siano stati Cavour, Fidia, Platone. Conoscere è scoprire qualcosa attorno per apprezzare (e cercare) con più gusto la ricchezza interiore.

Non limitatevi a una vita da cocker.

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Con juicio

Alessandro Manzoni fece dire a un noto personaggio: “Adelante, presto, con juicio”.

C’è un noto coro di rilevanza nazionale – con numerose apparizioni televisive e concerti su scala internazionale – da più di dieci anni si pregia di essere un incontro tra voci evangeliche e cattoliche, e per questo raccoglie alcune tra le forze artistiche più talentuose dell’ambiente evangelico.

Prossimamente il leader del coro parteciperà a Buenos Aires a un “multifestival” che si presenta come “teatro, convivencias, talleres, casting y todo sobre el Arte Católico en Argentina y el Mundo”. Sì, proprio così: “cattolico”, non “cristiano”.
Lo scopo della manifestazione? La “rievangelizzazione” dell’Argentina. Un paese che – per inciso – in questi anni vede una diffusione del messaggio evangelico con pochi precedenti nella storia.

È sempre difficile trovare un equilibrio tra principi e collaborazione.
Bello quando si può cantare insieme. Bello quando la musica cristiana supera le frontiere denominazionali, e aiuta a dialogare persone che appartengono a realtà diverse. Bello quando si può mettere il proprio impegno a disposizione di un progetto comune. Purché sia davvero comune e abbia una direzione chiara, per non dare spazio a imbarazzi. Alla coscienza di ognuno la valutazione. E, magari, l’azione.

Sermone sul lettore

“Ho trovato Dio nel podcast”, titola un breve articolo di costume presente su Specchio – il magazine della Stampa – della settimana scorsa.

Seguendo il grande sviluppo dei lettori mp3 portatili, negli Stati uniti è nato un sito, Godcast1000.com, che permette di scaricare materiale cristiano di ogni denominazione e di ogni genere, dalla musica ai sermoni, dai commentari alle meditazioni.

«I credenti volevano più Dio nel loro podcast» ha spiegato Lee Raney, presidente di Christian.com, casa editrice di Godcasting 1000, ma soprattutto «le chiese volevano dar la possibilità ai credenti di aver con sé durante la settimana le parole udite nella predica domenicale».

Una frase che in prima battuta potrebbe provocare fastidio: ecco, diranno i più, non bastavano culti e riunioni di vario genere, ora le chiese vogliono invadere anche il tempo libero.
E in effetti potrebbe essere una prospettiva poco consolante, se fosse un nuovo modo per indottrinare e ribadire, in tempo e fuori di tempo (ma in questo caso nella forma più deteriore) il messaggio.

Se l’obiettivo di chiese e pastori era quello, probabilmente hanno sbagliato sistema.

A pensarci bene, infatti, avere un sermone sul proprio lettore mp3 potrebbe anche essere un sistema utile. Difficilmente una persona ascolta qualcosa che non apprezza: pochi mettono musica classica sui loro lettori. Allo stesso modo per le predicazioni, la disponibilità online potrebbe essere un sano “banco di prova”.
Il sermone, si è sempre detto, dovrebbe essere una meditazione intorno alla Parola di Dio, e dovrebbe avere normalmente la caratteristica della praticità. Un sermone può stimolare, può redarguire (“ammonire”, in evangelichese), può incoraggiare (edificare). Se punta a insegnare, è un approfondimento biblico (studio). Se è troppo teorico, è una lezione di teologia.
Il sermone ideale dà un incentivo a focalizzare su aspetti della propria vita di fede che magari in quel momento vengono trascurati, e serve proprio a riportare le giuste priorità nella propria vita cristiana. Se è così, il sermone si ricorderà per tutta la settimana, e oltre, come un motivo di riflessione quotidiana, un “compito a casa”.
E se è così, sarà un piacere riascoltarlo, magari per valorizzare qualche sfumatura che può essere sfuggita nell’ascolto “in diretta”.

Se invece il sermone sarà teorico, inconsistente, verboso, noioso, difficilmente il predicatore avrà il coraggio di riproporlo online, e se lo farà non avrà grande seguito. Dal riscontro dell’ascolto si potrà avere una sora di barometro dei pulpiti. Con questo non si vuole creare una categoria di predicatori supergettonati o esaltare l’essere umano, ci mancherebbe: però, quantomeno, un riscontro di questo genere incentiverebbe tutti i predicatori a esprimersi meglio, se non altro per rendere il maggiore onore possibile al Messaggio (con la “M” maiuscola) che portano.

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Parte oggi ufficialmente il progetto Podcast: una sottoscrizione per darci la possibilità di mettervi a disposizione in versione scaricabile i nostri programmi quotidiani. Partecipa anche tu!

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Piccola anteprima per gli amici di musica&parole: dall’1 al 5 novembre sarò a Palermo. Nei prossimi giorni vi saprò dire di più.

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Evangelizzazione libraria

“Libri doppi o lontani dal nostro interesse? Disseminarli sulle panchine può avvicinare la gente alla lettura”. È una riflessione di Luca Goldoni, che ha deciso, nelle sue passeggiate mattutine, di distribuire sulle panchine dei giardinetti i libri in sovrannumero presenti nella sua biblioteca personale.
In un certo modo riprende quella moda americana, che qualcuno ha tentato di lanciare anche in Italia un paio di anni fa, che passa sotto il nome di bookcrossing: lasciare un libro in giro nella speranza di regalargli un nuovo lettore che a sua volta, lasciandolo in giro una volta finito, offrirà la possibilità di leggerlo a qualche altra persona interessata.

In quel caso era stato studiato un sistema apposito: il libro si poteva registrare su un apposito sito, e chi lo trovava poteva collegarsi e inserire i commenti. In questo modo si poteva anche seguire il percorso del libro in giro per il paese.

La proposta di Goldoni è molto più modesta e semplice. Probabilmente ognuno di noi ha qualche libro doppio a casa, o qualche volume che non gli interessa, magari frutto di un regalo “sbagliato”. Magari questo libro, doppio o poco interessante, giace lì su qualche mensola, in attesa di sorte migliore. Perché non metterlo a disposizione degli altri? Forse le panchine del parco non sono la soluzione migliore (con l’umidità autunnale, poi…), mentre la biblioteca cittadina potrebbe essere una buona alternativa. Pochi cristiani frequentano le biblioteche, ahinoi: al massimo, incoraggiati dai propri responsabili, prendono a prestito qualche volume dalla teca della chiesa, ma le biblioteche pubbliche sono sconosciute al grande pubblico dei credenti. Ed è un peccato. Un peccato perché perdiamo il senso della curiosità, della sfida, della conoscenza, e perdiamo l’occasione di scoprire cose interessanti che potrebbero arricchirci e darci argomenti di dialogo un po’ più elevati dei programmi tv.

Ma non solo: è un peccato anche perché frequentando la biblioteca della nostra città ci renderemmo conto di quanto sia sguarnita la sezione dedicata ai libri cristiani: spesso manca addirittura un numero dignitoso di copie della Bibbia. Scoprendolo, magari ci sentiremmo forse in colpa; e magari ci verrebbe in mente che per avvicinare le persone a Dio è importante dare alle persone la possibilità di avere accesso con maggiore facilità la Parola di Dio. Magari chissà, come conclusione di questo ragionamento potremmo addirittura impegnarci a donare, come chiesa, un po’ di copie delle Sacre Scritture.

Potrebbe essere anche questo un modo per sensibilizzare alla fede. Ma questo è solo un’ipotesi, ovviamente. È solo un sogno. Probabilmente siamo troppo impegnati a distribuire i nostri volantini e a organizzarci le nostre conferenze o le nostre tende; siamo troppo impegnati a seguire i nostri percorsi di evangelizzazione canonici, per pensare di fare qualcosa di diverso…

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Convivenze e connivenze

L’America non crede più nel matrimonio: le coppie sposate sono in minoranza. Su 111 milioni di famiglie americane, 55,9 milioni sono non sposate, 55,2 milioni quelle passate per chiesa, municipio o casinò (negli USA ci si sposa anche lì).

Dato che gli Stati uniti sono un laboratorio per la società occidentale, è inevitabile pensare che la tendenza sia simile anche in Europa e in Italia, e che – nei tempi debiti – arriveremo alla stessa conclusione. Conclusione di un processo storico nato meno di mezzo secolo fa e sviluppatosi con una rapidità impensabile in passato. Forse è stata colpa dei baby boomers e della loro rivolta contro ogni genere di convenzione, oppure forse la concezione familiare del passato era troppo rigida ed era destinata a scoppiare. Succede in ogni contesto: ciclicamente, a un estremo segue l’estremo opposto, e una società troppo chiusa è destinata a non reggere.

Non che sia una giustificazione, beninteso: ne è la prova il fatto che i vantaggi per la società della libertà data dalla “famiglia informale” sono stati pochi, confrontandoli con gli svantaggi di una instabilità, un’incertezza, una deresponsabilizzazione che, partendo dalla famiglia, ha raggiunto ormai ogni campo sociale.

La concezione lassista della vita ha avuto successo non solo per la sua apparente praticità, ma anche – potremmo dire, in termini di comunicazione – per la promozione di cui ha goduto per due generazioni: è stata proposta da intellettuali, scuole, media, film, programmi tv come la soluzione di vita più moderna, fresca, comoda, appagante, di successo.

C’è da chiedersi solo se, di fronte all’avanzata di questa strategia, le chiese sono state in grado di reagire razionalmente, o si sono irrigidite in posizioni sempre più retrò a colpi di versetti e scomuniche; se sono state in grado di comprendere il problema per affrontare l’onda con la ragionevolezza di un approccio veramente cristiano. E, se non sono state in grado di farlo, c’è da chiedersi se la colpa di tutto questo non sia un po’ anche loro.

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