Archivio mensile:novembre 2006
Bibbie e indignazione
«Pesanti multe per chi prega e roghi di Bibbie ordinati dai giudici contro credenti cristiani: prosegue senza sosta la persecuzione contro le minoranze religiose in Uzbekistan». La notizia viene riportata dall’agenzia di stampa Asianews.
Sorvoleremo sulla libertà di religione, concetto che per certe realtà religiose non è nemmeno concepibile.
Allo stesso tempo però attendiamo con interesse di sapere quale sarà la reazione del mondo cristiano di fronte a un’offesa – il rogo di Bibbie – che travalica ampiamente, come gesto, la pubblicazione di quattro vignette su un leader spirituale. E, se vogliamo, anche rispetto alla bonaria imitazione del segretario di un capo religioso.
Interviste anomale
Il quotidiano “L’opinione” ha dedicato venerdì 24 un’intervista a Francesco Maggio, evangelico ed evangelista (raro caso), impegnato da anni nel portare il messaggio di speranza del Vangelo ai musulmani.
L’intervista a Maggio, curiosamente, è diversa dai soliti interventi che siamo abituati a vedere; sarà la testata, che essendo di nicchia – e d’opinione – può permettersi interviste a più ampio respiro; sarà perché per una volta l’evangelico non è stato visto con la consueta aura di stupore, e quindi non si sono affrontati i soliti temi, con le solite domande – che talvolta ricordano un celebre film di Troisi e Benigni: “chi siete/dove andate/sì, ma quanti siete”.
Per una volta l’evangelico in questione era tale, potremmo dire, quasi solo in forma incidentale: evangelico, ma soprattutto esperto di evangelizzazione verso il mondo musulmano, e quindi anche di cultura islamica, ma non solo. Non solo, perché gli islamici in Italia si possono comprendere attraverso i precetti coranici esattamente quanto gli italiani si possono capire leggendo la Bibbia e la tradizione cattolica. L’italiano oggi ha una fisionomia delineata, una cultura che è frutto di contributi e sedimentazioni secolari, di guerre e di tregue, di domande e di risposte che, ovviamente, solo in parte hanno riscontro nella Bibbia. Se poi consideriamo l’italiano emigrato, la situazione si complica: vive una cultura diversa e a volte la filtra attraverso i propri parametri, altre volte vi aderisce convinto, in altri casi ancora sfrutta le opportunità e le libertà acquisite nella sua nuova patria. In certi casi si integra, in altri resta isolato: basti guardare gli esempi degli italiani emigrati negli Stati uniti, in Argentina, in Canada, in Australia, ma anche in Germania e in Belgio per vedere quanto diverse sono le tipologie.
Così anche il musulmano in Italia: nato in una famiglia più o meno “stretta” sul piano religioso, potrebbe essere un fondamentalista convinto come i nostri farisei (cattolici o evangelici, la forma è simile), potrebbe essere un integralista intollerante come i nostri razzisti, potrebbe essere un “non praticante” come la stragrande maggioranza dei cattolici italiani.
Una volta in Italia potrebbe integrarsi, potrebbe diventare più italiano degli italiani, potrebbe isolarsi, convinto di dover tutelare la sua cultura in una personalissima enclave.
Un’altra caratteristica interessante dell’intervista è la straordinaria – per un evangelico – non convenzionalità di Maggio. Pochi evangelici avrebbero avuto il coraggio di affermare «sia noi cristiani che i musulmani abbiamo in comune la volontà di essere consacrati, l’allontanarci dalla corruzione, il fuggire il peccato. In questo ci sentiamo simili e ci rispettiamo. Quando li incontro, so che non devo partire da zero. Paradossalmente abbiamo più problemi con i nostri connazionali».
Può permettersi di dirlo, come persona al di sopra di ogni sospetto sul piano ecumenico. E proprio per questo fa pensare. Molte volte non ci permettiamo di dire una parola che non sia “politicamente corretta” per non venir fraintesi. Forse vuol dire che le nostre convinzioni, il nostro comportamento, il nostro atteggiamento non sono così consolidati. Nessuno dubita di un pastore serio, quando in una predica parla dell’umanità di Cristo, perché si conosce la sua solidità dottrinale.
Conoscendo l’impegno di Francesco Maggio, non stupisce che, in una scala di valori, abbia potuto lodare alcuni aspetti della dottrina (e della pratica) islamica.
E il finale, in conclusione, rispecchia al meglio questa linea: alla domanda «E’ Lei che cerca i musulmani o sono i musulmani che vengono da Lei?», Maggio risponde: «Io cerco di andare incontro alle opportunità che Dio mi dà. Non sono un cane da tartufo. Semplicemente, quando mi capita un’occasione, non mi volto dall’altra parte».
Chiaro, semplice, diretto. Senza sbavature dottrinali, ma anche senza sbrodolamenti evangelichesi.
Ecco perché l’intervista si può definire un’anomalia. Speriamo di porterla definire anche un primo tassello verso un nuovo modo di comunicare: verso i musulmani, certo, ma anche verso i media. Senza paure, senza fame di distinzione a tutti i costi, senza cadere sempre in dialettiche dottrinali, senza rimarcare sempre posizioni specifiche. Senza dialettismi denominazionali e con il coraggio di parlare italiano, nella forma e nei concetti.
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La contesa padovana
Ha fatto scalpore, a Padova, la visita del vescovo nelle scuole pubbliche. Andando con ordine: la scorsa settimana è giunta notizia che nelle scuole di Padova ci sarebbe stata la visita pastorale del vescovo cattolico Mattiazzo; il responsabile di uno degli istituti, visto il parere discorde di un certo numero di insegnanti e genitori, ha declinato l’invito, ma il dirigente scolastico di Padova ha ribaltato la decisione del preside, invitando il vescovo a rendere comunque visita alla scuola in questione.
Un gesto sicuramente poco corretto, da un lato per la presenza di una legge che impedisce attività di culto nelle scuole durante le ore di lezione, dall’altro per la poca considerazione di quella “autonomia scolastica” di cui ci si fa belli in questi ultimi anni, quasi che con i nuovi poteri delegati ai presidi le scuole medie possano diventare dei piccoli college all’americana: autonomia forse da operetta (specie per i risultati didattici che si intravedono nei neodiplomati), ma in ogni caso attiva, almeno sul piano delle decisioni di questo genere.
Una coppia di genitori evangelici ha lamentato l’iniziativa, che è rimbalzata tra coordinamento insegnanti evangelici italiani, Alleanza evangelica, coinvolgendo poi anche la federazione delle chiese evangeliche e, ovviamente, una parte delle chiese evangeliche del padovano, che hanno chiamato a raccolta quanti più credenti possibile, tentando di sensibilizzare chiese e associazioni nel tentativo di creare dietro a sé un fronte evangelico compatto.
Ne sono nati comunicati, lettere, petizioni al ministro – che pare sia d’accordo con il colpo di mano del dirigente scolastico – e la richiesta di poter manifestare contro la visita. Il diniego della questura – di questi tempi le manifestazioni religiose non sono viste di buon occhio, e il questore non avrà voluto rischiare – alla richiesta ha provocato una clamorosa reazione: per protesta i credenti si sono auto-imbavagliati davanti alle scuole, sollevando ovviamente l’interesse della stampa locale. Mentre il questore disponeva che il vescovo effettuasse le sue visite scortato dalla polizia, come se la (legittima) protesta evangelica potesse essere paragonata alle minacce islamiche.
Penso siamo in tanti ad aver subito, nel nostro percorso scolastico, messe, visite vescovili, preghiere del mattino, ore di religione, ore alternative, feste di carnevale; peraltro ne siamo usciti indenni, e forse formati: alcuni a un fastidio viscerale verso le forme religiose maggioritarie, altri confermati nelle proprie convinzioni di fede, ma con un bagaglio culturale in più. Personalmente ricordo quando il vescovo venne in visita alla mia scuola elementare: tutti gli studenti schierati in palestra ad ascoltare un messaggio peraltro rispettoso, senza riferimenti a santi o madonne né a conflitti di civiltà; ricordo che ero capace di intendere e di volere, dato che – per quanto avessi pressappoco dieci anni – ero rimasto perplesso da qualche aspetto dottrinale (ma forse più logico che altro) del suo discorso. Non credo i bambini di oggi siano più stupidi, inadeguati, o debbano per forza essere più impreparati della generazione nata nell’anno della Guerra dei sei giorni.
Ma ovviamente il problema di fondo non è questo. C’è una legge, ed è corretto farla rispettare. La battaglia per la laicità è legittima e condivisibile: nessuno, per legge, ha diritto a tenere manifestazioni cultuali in una scuola pubblica, e fanno bene gli amici padovani, se lo ritengono opportuno, a schierarsi, anche come chiesa (che un ruolo sociale, in un modo o nell’altro, è chiamata ad averlo).
Il problema, come per ogni nostra azione, sta tutto in una valutazione corretta di vantaggi e svantaggi, costi e benefici.
Se è vero che farsi sentire potrà dare una maggiore visibilità a realtà in debito d’ossigeno, sul piano della comunicazione, come quella evangelica, è altrettanto vero che per il corpo di Cristo non vale il motto “se ne sparli, purché se ne parli”.
E non possiamo non notare, con preoccupazione, l’interpretazione mediatica data dalle testate locali.
L’iniziativa in questione è stata riportata ieri in prima pagina sul Mattino di Padova, che non parlava di “giusta obiezione evangelica”, o di “laicità a rischio”. Il Mattino titolava “Il vescovo a scuola protetto dai blindati” e parlava di “Polizia schierata davanti agli istituti di Vigodarzere visitati da Antonio Mattiazzo, per paura di incidenti”, segnalando come è stata “Proibita la manifestazione dei protestanti, che si imbavagliano”.
Una prospettiva diversa ma scontata, allineata con la posizione della religione maggioritaria. Ed è la prospettiva che formerà l’opinione dei lettori padovani. Risultato: chi ha lanciato la protesta, correttissima, rischia di passare agli occhi della gente dalla parte del torto, anche se ha tutte le ragioni.
La battaglia legale è passata, prevedibilmente, nel campo mediatico. E sull’approccio mediatico per ora abbiamo ancora tanto da imparare. Vincere la battaglia legale e perdere quella mediatica equivale a una sconfitta: è la legge della comunicazione.
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Cercasi guida
Sbarca anche in Italia “l’allenatore del benessere”: un “coach” per dirigenti d’azienda, che nell’azienda non vedono solo un momento di lavoro, ma un punto di riferimento per la vita.
Più precisamente si chiama “executive coach”, ed è una figura pagata (probabilmente non poco, come tutti i ruoli effimeri); “tutte le grandi aziende – riferisce Il Giornale – ormai ne hanno uno”. L’obiettivo è “ridistribuire le energie”, e pare funzionare.
La ricetta? Parlare di benessere anziché di stress; ribaltare, insomma, la prospettiva dell’azienda come posto dove è un peso andare, e farla diventare “responsabile dello star bene” del dipendente.
Personale e professionale si sovrappongono sempre di più, e il lavoro diventa un progetto di vita; l’azienda, per questo, deve imparare a conoscere e riconoscere il talento. Il coach serve proprio a questo: ascolta molto, chiacchiera con i vari soggetti dell’organizzazione – i dipendenti, insomma -, chiede loro i valori che considerano importanti, dà spazio al percorso di vita di ciascuno, ovviamente nell’ottica di un obiettivo comune, che è quello aziendale. E i risultati, stando a chi sta sperimentando questo sistema, ci sono.
È sempre irriverente tornare a parlare di chiesa, dopo aver parlato di azienda: c’è sempre il sospetto che si voglia dare all’ambito religioso un taglio imprenditoriale, e si sa che le due cose di norma non vanno troppo d’accordo. Eppure in questo caso qualche riferimento nasce spontaneamente: in fondo nell’articolo si considera l’azienda quasi come una ragione di vita, e quindi come una fede.
Proviamo allora a sostituire la parola “chiesa” ad “azienda”, e sentiremo parlare di chiesa come fonte di benessere e non di stress, la chiesa come posto dove si va volentieri e non di malavoglia, la chiesa come “responsabile dello star bene” dei credenti… la chiesa che conosce e riconosce il talento a beneficio della missione aziendale (pardon, di chiesa: portare il messaggio di speranza del Vangelo); la chiesa che dà ascolto ai suoi componenti, sottolinea i valori, dà spazio alle esperienze di vita, nell’ottica dell’obiettivo comune. Non sembra proprio la chiesa che quasi tutti sognano?
Allora manca solo un executive coach.
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Missione d’ascolto
A Milano un giovane con la vocazione del volontario ha allestito in piazza un piccolo stand dove offre “due chiacchiere gratis”: e in dieci sessioni ha già ascoltato ottanta persone. Lo racconta La Stampa in un articolo a tutta pagina che spiega il successo notevole di un’iniziativa partita in sordina, senza troppa enfasi, promossa solamente da un tavolino, due sedie, un cartello che spiega le modalità del colloquio: un colloquio senza limiti di tempo, dai dieci minuti alle due ore, che la gente, dopo un primo momento di diffidenza, pare prendere molto sul serio. Tanto che qualcuno, dopo una settimana, è tornato per altre due chiacchiere. E tanto da convincere il giovane volontario a fondare una vera associazione che permetterà di aprire altri punti di ascolto, altrettanto informali e spartani, anche in altre città, da Roma a Torino, e anche in altre lingue, dato che si è offerto per collaborare anche un giovane “ascoltatore” romeno.
L’identikit di chi si siede nello stand d’ascolto? «Giovani, giovanissimi, soprattutto anziani, qualche volta in coppia, spesso soli, più spesso uomini». Italiani e stranieri, persone colte e semplici, dagli interessi più svariati e dai problemi più particolari.
A convincere le persone a sedersi a quel tavolino non c’è semplicemente la solitudine, cifra ormai assodata della nostra società individualista. No, a spingere la gente: c’è anche un’altra esigenza: quella di venir ascoltati. Sembrerebbe paradossale, nella società della comunicazione a tutto tondo e a ogni ora, la società dei cellulari e degli sms, delle mail e delle chat. Eppure non è così illogico, se ci fate caso. Inviare un sms non comporta un’interazione diretta: chi risponde può prendersi il tempo di cui ha bisogno, o anche dimenticarsi di farlo. Lo stesso vale per le mail: manca il tempo reale. Il telefono? Difficile avere la prova che chi sta dall’altra parte sia all’ascolto, e non sia preso in altre faccende, o magari non vaghi con il pensiero ai suoi problemi.
Il contatto personale è diverso: permette di leggere negli occhi, nelle espressioni, non dà la possibilità di svicolare, né di barare. Per questo, sedersi a un tavolino con qualcuno disposto ad ascoltare è un valore aggiunto. C’è chi pagherebbe per farlo.
La gente che ha fame di esprimersi, di farsi ascoltare, di raccontare le sue esperienze, le sue difficoltà. Magari anche di una parola dolce per calmare la disperazione, più che l’ira. Attenzione, è gente che non ha bisogno di prediche: ha bisogno, prima di tutto, di sfogare i problemi, forse i propri fallimenti. Ha bisogno prima di tutto di un attento ascoltatore, solo dopo, semmai, di un consulente.
A questo bisogno di attenzione – tipicamente umano, drammaticamente attuale – manca una risposta da parte di chi è chiamato a raggiungere “tutte le genti”.
Chiese e cristiani, forse, sono troppo impegnati a parlare, per avere il tempo di ascoltare.
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Missione d'ascolto
A Milano un giovane con la vocazione del volontario ha allestito in piazza un piccolo stand dove offre “due chiacchiere gratis”: e in dieci sessioni ha già ascoltato ottanta persone. Lo racconta La Stampa in un articolo a tutta pagina che spiega il successo notevole di un’iniziativa partita in sordina, senza troppa enfasi, promossa solamente da un tavolino, due sedie, un cartello che spiega le modalità del colloquio: un colloquio senza limiti di tempo, dai dieci minuti alle due ore, che la gente, dopo un primo momento di diffidenza, pare prendere molto sul serio. Tanto che qualcuno, dopo una settimana, è tornato per altre due chiacchiere. E tanto da convincere il giovane volontario a fondare una vera associazione che permetterà di aprire altri punti di ascolto, altrettanto informali e spartani, anche in altre città, da Roma a Torino, e anche in altre lingue, dato che si è offerto per collaborare anche un giovane “ascoltatore” romeno.
L’identikit di chi si siede nello stand d’ascolto? «Giovani, giovanissimi, soprattutto anziani, qualche volta in coppia, spesso soli, più spesso uomini». Italiani e stranieri, persone colte e semplici, dagli interessi più svariati e dai problemi più particolari.
A convincere le persone a sedersi a quel tavolino non c’è semplicemente la solitudine, cifra ormai assodata della nostra società individualista. No, a spingere la gente: c’è anche un’altra esigenza: quella di venir ascoltati. Sembrerebbe paradossale, nella società della comunicazione a tutto tondo e a ogni ora, la società dei cellulari e degli sms, delle mail e delle chat. Eppure non è così illogico, se ci fate caso. Inviare un sms non comporta un’interazione diretta: chi risponde può prendersi il tempo di cui ha bisogno, o anche dimenticarsi di farlo. Lo stesso vale per le mail: manca il tempo reale. Il telefono? Difficile avere la prova che chi sta dall’altra parte sia all’ascolto, e non sia preso in altre faccende, o magari non vaghi con il pensiero ai suoi problemi.
Il contatto personale è diverso: permette di leggere negli occhi, nelle espressioni, non dà la possibilità di svicolare, né di barare. Per questo, sedersi a un tavolino con qualcuno disposto ad ascoltare è un valore aggiunto. C’è chi pagherebbe per farlo.
La gente che ha fame di esprimersi, di farsi ascoltare, di raccontare le sue esperienze, le sue difficoltà. Magari anche di una parola dolce per calmare la disperazione, più che l’ira. Attenzione, è gente che non ha bisogno di prediche: ha bisogno, prima di tutto, di sfogare i problemi, forse i propri fallimenti. Ha bisogno prima di tutto di un attento ascoltatore, solo dopo, semmai, di un consulente.
A questo bisogno di attenzione – tipicamente umano, drammaticamente attuale – manca una risposta da parte di chi è chiamato a raggiungere “tutte le genti”.
Chiese e cristiani, forse, sono troppo impegnati a parlare, per avere il tempo di ascoltare.
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Credenti, ma in cosa?
Un articolo della Stampa di ieri, che intervista Maurizio Ferraris, propone una prospettiva diversa sulla fede. Da filosofo laico, Ferraris lancia una domanda forse provocatoria, ma molto profonda.
«L’affermazione “io credo”, se non è seguita da un oggetto definito, non dice proprio niente, è più o meno come dire “io scommetto”: sì, ma cosa, di grazia? Non basta dire “credo”, bisogna anche specificare in cosa si crede, altrimenti non è credere».
Credere nel messaggio di Cristo, azzarda l’intervistatore, ma Ferraris non è convinto: «Sembra facile, messa così… un quarantenne che crede in Babbo Natale ha qualcosa che non va. Tuttavia, il credente continua a credere in Gesù adulto, che avrebbe compiuto azioni ben più importanti e francamente incredibili. È nato da una donna, è morto, è risorto, è ridisceso, è risalito, è uno e trino… Sono convinto che pochi cristiani credano a tutti questi contenuti dottrinali. Ma, allora, in cosa credono, esattamente?»
Polemico, forse, ma non ha torto. Spesso, tra cristiani, parliamo di “credenti”. Ma di rado definiamo in cosa, tanto che, quando chiediamo attorno a noi a qualcuno “sei credente?”, di solito risponde sì, anche se non è “credente” nel modo in cui lo intendiamo noi.
Anche il termine cristiano, a ben guardare, non è completo: seguace di Cristo, certo, ma in che modo? Anche i farisei erano seguaci di Dio, e zelanti, e proprio per questo hanno rifiutato Gesù. Anche i laici si dicono cristiani, perché la cultura che respirano è permeata da secoli di cristianesimo. Ma basta questo per essere cristiani?
Essere cristiani ha un significato ben preciso, stando alla Bibbia: significa aver ammesso l’impossibilità di dare un senso alla propria vita, il fallimento del proprio credo “fai da te”, e aver accettato il sacrificio di Cristo credendo che la sua morte ha lavato i propri peccati e la sua resurrezione dona vita a chi lo segue.
Questo è cristianesimo: riconoscere Gesù come unico Signore (e come salvatore) della propria vita.
Le differenze dottrinali, poi, per quanto rilevanti, sono secondarie. Ogni cristiano, ossia ogni persona che ha fatto questo percorso, e lo porta avanti ogni giorno con coerenza, è mio fratello. Questo mi insegna la Bibbia, questo pratico.
Anzi: confrontandomi con la diversità rafforzo la mia fede e arricchisco di nuove prospettive il mio punto di vista su molteplici aspetti della dottrina, ma anche della vita di tutti i giorni. Da essere umano posso avere una sola prospettiva, ma posso condividerla con altri e a mia volta prendere in considerazione quella di altri che stanno guardando lo stesso soggetto, in questo caso Dio.
Il problema è: quanti “credenti”, quante chiese, l’hanno capito? E quanti lo praticano? Proviamo a chiedere in giro, agli amici credenti, in cosa credono. Fate qualche domanda banale, non di cultura generale o biblica, ma proprio sulle basi della fede, cose scontate. Io ho provato. E comincio a dubitare di doverle definire ancora “scontate”.
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Kakà, comincia da qui
Ricardo Izecson dos Santos Leite, il calciatore del Milan meglio noto come Kakà, in un’intervista alla brasiliana “Globo Tv” avrebbe rivelato a una tv brasiliana: «Sto studiando teologia, voglio diventare un pastore evangelico per portare nel mondo la parola di Dio».
Riporta la notizia, con qualche imprecisione, l’agenzia di stampa ADN Kronos, che tra l’altro spaccia gli Atleti di Cristo per una “setta” (difficile, con un semplice giro in Internet, non trovare una definizione più corretta).
Visti i contenuti dell’intervista, che ha avuto luogo in portoghese e quindi non ci è direttamente verificabile, Kakà potrebbe aver detto più correttamente di voler diventare “evangelista” anziché “pastore”: sicuramente, se studia teologia, non gli sfuggirà la differenza, al contrario della testata.
In ogni caso, se questa è la chiamata e il desiderio del calciatore, sia benedetto: magari però, tra una lezione e l’altra, potrebbe mettersi all’opera – come dice la Bibbia – concedendosi un maggiore contatto con la realtà evangelica della città in cui vive. Una realtà che esiste, è attiva e pulsante. E per la quale la disponibilità di Kakà sarebbe uno strumento eccezionale.
La sua presenza, il suo esempio, la sua visibilità potrebbero essere stimoli non da poco soprattutto per i più giovani: e, se è vero che il messaggio deve prevalere su chi lo porta, allo stesso tempo un testimone di rilievo aiuta a raggiungere fasce che altrimenti non si raggiungerebbero; fasce che poi verranno colpite, se Dio lo vorrà, non da Kakà ma dal messaggio che porta.
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Onorevoli e preghiere
«Adotta un politico e prega per lui». È “un sito ultracattolico” a lanciare questa sorta di campagna religiosa a favore dei nostri rappresentanti e dei governanti in generale.
Preghiere personalizzate, senza preferenze politiche, per tutti i “big” della politica italiana.
Come sempre esistono varie posizioni anche in relazione alla preghiera: c’è chi non accetta l’idea di avere una scaletta di punti da proporre a Dio, e chi invece crede che sia importante un’azione di intercessione quanto più coordinata possibile. Questione di sensibilità personale, probabilmente; da un lato la Bibbia stessa ci dà dei soggetti di preghiera (gli orfani, le vedove, le autorità…), e quindi non possiamo ignorare che qualche spunto esiste già nelle Scritture; dall’altro, è importante rendersi conto che non è il numero degli intercessori a cambiare le cose, anche se organizzarsi aiuta a rendere la preghiera più motivata e consapevole .
Sul sito – zammerumaskil.com – l’iniziativa non è segnalata con particolare rilievo, ma una volta aperta la pagina si scopre una serie di interessanti servizi: la “preghiera del mese”, questa volta dedicata a Di Pietro, con una presentazione in chiave cristiana del personaggio e del suo impegno; in una sezione, l’elenco dei politici per i quali il sito ha già promosso la preghiera: si spazia tra Rosy Bindi, Carlo Azeglio Ciampi, Pier Ferdinando Casini, Enrico Boselli, Fausto Bertinotti, Anna Maria Leone, Francesco Rutelli, Piero Fassino, Marco Follini, Gianfranco Fini, Nicky Vendola, Stefania Prestigiacomo, Romano Prodi, Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini, Marco Pannella.
Nomi decisamente vari, politici su posizioni molto diverse tra loro ma evidentemente accomunati, secondo il parere dei promotori, dal bisogno di ricevere le preghiere di chi li ha eletti e anche di chi non li condivide, ma crede che la luce divina sia importante per portare a termine nel modo migliore mandato.
Per chi ancora avesse qualche dubbio sull’iniziativa, e sul perché della preghiera per i politici, l’origine della proposta viene spiegata – in latino, peccato – nell’introduzione: “Omnes honorate, fraternitatem diligite, deum timete, regem honorificate”. Vale a dire, dalle parole contenute in I Pietro (2:17): Onorate tutti. Amate i fratelli. Temete Dio. Onorate il re.
L’iniziativa del sito è intelligente: sensibilizza su un aspetto importante per un cristiano, dato che pregare per le autorità è una delle richieste che troviamo spesso nella Bibbia. E promuove l’iniziativa focalizzando specificamente la posizione, le esigenze, l’impegno e la storia dei singoli personaggi che sono proposti come soggetti di preghiera. Piccolo esame di coscienza: quante volte, negli ultimi mesi, lo abbiamo fatto?
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Rai, regali e proposte
«Basta regali, per natale beneficenza»: è la decisione del direttore generale della Rai, Claudio Cappon, che interrompe un’abitudine aziendale ormai consolidata. Secondo l’uso comune, a Natale la Rai regalava oggetti – gadget – con il marchio dell’azienda ai collaboratori esterni; quest’anno la spesa è stata soppressa, e i soldi risparmiati andranno a favore di un’iniziativa di beneficenza. Non è la prima volta che succede, ma è la prima volta che capita a natale. E si sa, a Natale sono tutti più buoni, se non viene tolto loro il regalo.
Facciamo un passo indietro. Forse è prematuro parlare di natale, ma non è certo prematuro parlare di regali natalizi: la pubblicità ha già cominciato a tempestarci di proposte, le strade sono già illuminate dalle consuete lucine, o almeno pronte all’uso; le offerte per viaggi finto-last minute sono già state lanciate, mentre alcuni depliant, con una certa spudoratezza e non certo in maniera disinteressata, propongono addirittura di “anticipare il natale” di un mese: non per questioni teologiche, ovviamente, ma per beneficiare dei clamorosi sconti dell’azienda. La tendenza, lungi dall’essere invertita, viene in realtà anticipata, e quindi prolungata.
In passato qualche personaggio dei salotti buoni, probabilmente qualcuno che ha già tutto ed è stufo di dover riciclare il troppo, aveva lanciato la moda della donazione: regalare all’amico una lettera nella quale si annunciava al proprio interlocutore di non aver acquistato un regalo per lui, ma di aver donato in beneficenza a suo nome la cifra corrispondente.
Ora la Rai fa propria e istituzionalizza questa tendenza, e lo fa proprio nel momento principe – per la cultura occidentale – della bontà.
Il gesto, a prima vista apprezzabile, nasconde due dettagli che forse non vanno trascurati.
Non conosciamo l’entità della cifra spesa (e quindi risparmiata) per i gadget natalizi, ma sappiamo che ricevere un pensiero è un modo carino per far percepire l’attenzione nei propri confronti da parte del datore di lavoro. Sospenderlo potrebbe essere controproducente, dato che probabilmente non tutti saranno così spirituali da apprezzare il gesto più dell’oggetto.
Dall’altro lato, si nota una contraddizione. Sopprimere una spesa di qualche migliaio di euro e tramutarlo in beneficenza è sicuramente lodevole; se però la nuova tendenza è quella della consapevolezza, ci si chiede allora perché sulle reti pubbliche imperversino quiz che ogni giorno regalano – nel vero senso della parola – migliaia di euro.
La Rai dispone di conduttori e autori in gamba. Sarebbe bello, nel periodo natalizio, poter sospendere gli insipidi concorsi a premi basati sulla pura fortuna, e realizzare – magari con gli stessi conduttori, ché tanto passano senza problemi dalla padella al pacco, dalla gita ecologica alla televendita – un programma che presenti al pubblico le opere umanitarie beneficiate dalle tante raccolte di fondi, mostrando – con verve e partecipazione del conduttore, ovviamente – a quale scopo concreto siano serviti quei diecimila, cinquantamila, centomila euro sottratto agli inutili pacchi e investiti in opere di bene: siano esse una struttura di sostegno, un pulmino nuovo, una “flotta” di carrozzelle per disabili.
Sarebbe bello vedere Pupo, Bonolis, Insinna, Insegno lì, sul posto, in diretta, insieme agli operatori, agli ospiti delle strutture, e sentir dire nel concreto «con i centomila euro del pacco che avremmo potuto dare in premio lunedì scorso, la missione tale ha comprato questo; con i 50 mila di martedì ha restaurato quest’altro, con i 35 mila di mercoledì ha aumentato le sue capacità ricettive… racconterebbe una storia vera senza bisogno dei reality, stimolerebbe i telespettatori ad aiutare chi aiuta, aumenterebbe la fiducia degli italiani nei confronti delle opere serie sfatando qualche sospetto in merito all’uso corretto dei fondi.
Questo sì che sarebbe un vero natale. Non quattro penne in meno ai collaboratori.
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