Archivio mensile:gennaio 2007
L’imitazione pagana di Cristo
«A Carnevale mi travesto da Gesù»: una novità decisamente blasfema anticipa la festa pagana per eccellenza, ormai alle porte: un kit comprendente tunica sacra, barba, capelli lunghi e corona di spine. La denuncia parte dalla Stampa, che oggi dedica al caso una pagina intera.
Immancabile vespaio di polemiche: da parte della chiesa, che giustamente segnala come «sfruttano la mitezza della dottrina cristiana ma non osano mancare di rispetto all’Islam».
Le altre realtà ancora non si sono espresse (o non sono state interpellate), ma probabilmente l’indignazione sarebbe identica. Forse diversa nei modi, dato che – per esempio – le chiese evangeliche hanno sempre condannato con decisione la festa pagana. D’altronde suona quantomeno singolare accettare a mezza bocca il carnevale, festa degli eccessi, per poi condannare le esagerazioni che vi si commettono.
Certo, l’idea lascia perplessi; travestirsi a Carnevale da Gesù, o meglio da icona, denota una mancanza non solo di rispetto, ma anche di consapevolezza. Una superficialità disarmante, di cui peraltro non ci si può stupire troppo di questi tempi.
Eppure la notizia fa anche riflettere, in un certo modo. «Voglio imitare Gesù»: “magari!”, verrebbe da rispondere. Magari qualcuno tentasse di somigliare a Gesù, in una società come la nostra.
Ah certo: per chi ama i viaggi sarebbe l’ideale, potrebbe sorridere qualcuno. Ma non solo quello. Imitare Gesù comporterebbe una scarsa cura del corpo: dignità sì, salute anche, ma senza eccessi fatti di palestra, lampade, bisturi superflui. Chi volesse imitare Gesù non si preoccuperebbe del proprio fascino: Gesù non era fisicamente attraente né gli interessava piacere. Non insulterebbe chi lo sorpassa, ma anzi tenterebbe di essere conciliante anche di fronte a palesi ingiustizie. Non sparlerebbe dei vicini, ma darebbe sempre per primo la mano e il saluto. Non evaderebbe le tasse. Chi volesse imitare Gesù saprebbe quel che è giusto e quel che è sbagliato, senza bisogno di moralismi da un lato o di alibi dall’altro. Sarebbe capace di sacrificarsi per gli altri senza recriminare.
Chi volesse imitare Gesù non andrebbe in chiesa senza esserne convinto; non parlerebbe per partito preso, pur avendo tutte le ragioni per farlo. Chi volesse imitare Gesù comprenderebbe l’errore e non lo giustificherebbe, ma saprebbe correggerlo esercitando l’amore e non la condanna.
Travestirsi da Gesù costa meno di sette euro. Imitarlo costa molto di più.
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Analisi, commenti e riflessioni sui temi del momento nel programma musica&parole: dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 11 sulle frequenze di crc.fm.
L'imitazione pagana di Cristo
«A Carnevale mi travesto da Gesù»: una novità decisamente blasfema anticipa la festa pagana per eccellenza, ormai alle porte: un kit comprendente tunica sacra, barba, capelli lunghi e corona di spine. La denuncia parte dalla Stampa, che oggi dedica al caso una pagina intera.
Immancabile vespaio di polemiche: da parte della chiesa, che giustamente segnala come «sfruttano la mitezza della dottrina cristiana ma non osano mancare di rispetto all’Islam».
Le altre realtà ancora non si sono espresse (o non sono state interpellate), ma probabilmente l’indignazione sarebbe identica. Forse diversa nei modi, dato che – per esempio – le chiese evangeliche hanno sempre condannato con decisione la festa pagana. D’altronde suona quantomeno singolare accettare a mezza bocca il carnevale, festa degli eccessi, per poi condannare le esagerazioni che vi si commettono.
Certo, l’idea lascia perplessi; travestirsi a Carnevale da Gesù, o meglio da icona, denota una mancanza non solo di rispetto, ma anche di consapevolezza. Una superficialità disarmante, di cui peraltro non ci si può stupire troppo di questi tempi.
Eppure la notizia fa anche riflettere, in un certo modo. «Voglio imitare Gesù»: “magari!”, verrebbe da rispondere. Magari qualcuno tentasse di somigliare a Gesù, in una società come la nostra.
Ah certo: per chi ama i viaggi sarebbe l’ideale, potrebbe sorridere qualcuno. Ma non solo quello. Imitare Gesù comporterebbe una scarsa cura del corpo: dignità sì, salute anche, ma senza eccessi fatti di palestra, lampade, bisturi superflui. Chi volesse imitare Gesù non si preoccuperebbe del proprio fascino: Gesù non era fisicamente attraente né gli interessava piacere. Non insulterebbe chi lo sorpassa, ma anzi tenterebbe di essere conciliante anche di fronte a palesi ingiustizie. Non sparlerebbe dei vicini, ma darebbe sempre per primo la mano e il saluto. Non evaderebbe le tasse. Chi volesse imitare Gesù saprebbe quel che è giusto e quel che è sbagliato, senza bisogno di moralismi da un lato o di alibi dall’altro. Sarebbe capace di sacrificarsi per gli altri senza recriminare.
Chi volesse imitare Gesù non andrebbe in chiesa senza esserne convinto; non parlerebbe per partito preso, pur avendo tutte le ragioni per farlo. Chi volesse imitare Gesù comprenderebbe l’errore e non lo giustificherebbe, ma saprebbe correggerlo esercitando l’amore e non la condanna.
Travestirsi da Gesù costa meno di sette euro. Imitarlo costa molto di più.
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Una mano alla libertà
Si continua a parlare di libertà religiosa. Nelle scorse settimane avevamo riferito il commento ottimistico del ministro Ferrero in relazione alla legge che il parlamento sta discutendo. L’AEI esprime, a proposito del disegno di legge, un parere diverso, preoccupandosi per gli sviluppi per le chiese “senza personalità giuridica”, e questo pregiudicherebbe una serie di diritti per le chiese minori, o per quelle che per altri motivi – pur potendo – non hanno mai voluto richiederla.
La legge attuale consente ai “culti ammessi” certi vantaggi, se hanno il riconoscimento dello Stato. Dalla nuova legge ci si aspettava probabilmente una posizione più aperta nei confronti delle realtà non riconosciute, ma a quanto pare la linea prevista è diversa.
Se da un lato la legge aprirebbe nuove possibilità, dall’altro le escluderebbe per una serie di chiese di “serie b”. Per queste cambierebbe poco, e – se cambiasse – cambierebbe in peggio: meno diritti per i ministri di culto, meno diritti nei rapporti con i comuni (per esempio per ottenere un terreno su cui costruire). Un gap che va risolto, in fase di revisione del testo, prima che la legge preveda una disparità di trattamento.
Allo stesso tempo, forse, bisognerebbe interrogarsi. In Italia è invalsa da decenni la tendenza a dividere, frammentare, separare. Il contrario della “comunione fraterna” indicata dalla Bibbia, che pure tutti diciamo di leggere e di seguire. La comunione, quando c’è, viene vista come un optional, un di più, un lusso, anziché una realtà quotidiana, una priorità per chi si definisce cristiano.
Quando le chiese sono divise e non comunicano, mancano anche le energie per qualsiasi iniziativa che travalichi la mediocrità. Ne parliamo spesso. Ma, a quanto pare, non solo: manca anche un riconoscimento da parte della legge e delle autorità, che ovviamente non possono agire all’americana, ammettendo senza controlli ogni chiesa che si autoproclama tale. Non sarebbe utile, non sarebbe efficace, non sarebbe saggio.
Nella libertà democratica in cui viviamo esiste la libertà di aprire negozi, centri commerciali, scuole, palestre e – ovviamente – anche chiese, ma – da cristiani – dobbiamo chiederci se una realtà comunitaria indipendente, chiusa, scollegata da un contesto, non disposta a confrontarsi o ad allearsi con altre è davvero la volontà di Dio. O se non ci sia una punta di presunzione, settarismo, scarsa umiltà o eccessiva autoreferenzialità nella propria visione.
Forse, se vogliamo che la legge ci dia una mano, è il caso di darle a nostra volta una mano.
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Spiritualità a breve conservazione
«Maghi, tarocchi e riti voodoo: è Milano la città più credulona». Secondo l’antiplagio in provincia ci sono 1600 professionisti dell’occulto, record italiano. Ne parla oggi il Giornale, segnalando alcuni aspetti interessanti. Innanzitutto, non è vero che il nord è meno credulone. Meno credente, semmai: al sud, spiega un docente della Cattolica di Milano, la fede è ancora vissuta intensamente. Con modalità magari opinabili, ma intensamente.
Al nord il mercato dell’occulto prospera perché ci sono più soldi, certo. Ma forse anche perché è mancato, negli ultimi anni, un serio approccio con la spiritualità. Nel rinnegare tutto ciò che non fa business, nel trascurare valori ed etica, nel dimenticare il “dentro” per enfatizzare il “fuori”, al nord si è dimenticato di dare una risposta alle esigenze e alle domande interiori, che prima o poi emergono.
Quando poi ci si è accorti della mancanza di qualcosa in cui credere, o semplicemente della pace interiore, ecco la corsa ad accaparrarsi ciò che più sembrava vicino alle esigenze. Ecco la corsa al fast food della spiritualità – perché viviamo pur sempre nell’epoca del “tutto e subito” -, tra filosofie orientali e dottrine new age; e, per i casi più gravi, ecco la magia pronta a sopperire a problemi più complessi.
Risulta però singolare un aspetto. Sembra quasi che i media, al di là di qualche tirata moralistica quando si leggono casi di cronaca gravi, non sentano l’esigenza di scoraggiare questa tendenza.
Si parla spesso di casi come questo, di truffe, di creduloni e imperi basati sulla ciarlataneria. Si parla spesso di dottrine orientali, anche con ampio spazio, dando rilievo a persone che dicono di aver trovato pace attraverso queste realtà. Non ci risulta di aver visto, negli ultimi anni, qualche indagine che verifichi la situazione qualche tempo dopo. Quanti, tra coloro che si dedicano a queste dottrine, sono davvero sereni, stanno bene, e quanti hanno invece peggiorato la loro situazione. Facile presentare due casi di persone entusiaste, molto più impegnativa la verifica su ampia scala.
Forse vedere certi risultati, pubblicati sui giornali, potrebbe essere già di suo un buon disincentivo a scegliere certe strade. Basterebbe poco. Se fatto bene. E soprattutto, se fatto.
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Esempi (mancati) di convivenza
“Le classi miste fanno flop. In fuga gli alunni italiani” A Torino ci sono classi per soli stranieri, a Piacenza iscritti di 80 etnie, a Prato un bimbo su 4 parla lingue estere. E la convivenza fa rallentare i programmi scolastici.
Si fa presto a dire convivenza. Molto più difficile viverla nel concreto, quotidianamente, confrontandosi con i piccoli e grandi problemi che ogni giorno vengono generati dalla differenza. Intendiamoci: non che la differenza in sé sia un aspetto negativo. Spesso è un valore vero e proprio, un modo per arricchire il proprio modo di essere, di vedere le cose, magari per abbandonare alcuni luoghi comuni o qualche abitudine che ormai risulta vuota di significato.
Il problema è che per riconoscere un valore, bisogna avere l’approccio giusto, e anche il contesto deve essere adeguato. Difficilmente si potrà considerare un arricchimento il fatto di vedere le lezioni dei propri figli rallentate. Ma il problema è alla fonte, nasce da un equivoco mai chiarito.
Una volta i genitori dicevano: «Questa casa non è un albergo», per rimproverare dello scarso senso di appartenenza alla famiglia.
Vivere in Italia, oggi, è la negazione di qualsiasi appartenenza. Si può essere italiani senza conoscere le leggi, senza conoscere la storia, senza conoscere la lingua. Forse qualcuno lo potrebbe considerare il paradiso della multietnicità. Ma può essere anche un disagio non da poco, quando si tratta di capirsi. A volte la colpa è degli italiani, ma altre volte è dei nuovi arrivati, che – di fronte all’assenza di qualsiasi dovere – non si curano di integrarsi.
Curiosamente, spesso sono proprio le chiese – che dovrebbero essere portatrici di dialogo – le prime a non adattarsi a questa multietnicità. Fateci caso: non si sono mai viste tante chiese etniche come in questi ultimi anni. Chiese che nascono scollegate da un contesto, senza contatti con le realtà-sorelle dello stesso quartiere. Avevamo cominciato a comprendere l’importanza di comunicare tra comunità diverse, ed eccoci da capo.
Sia chiaro: mantenere la memoria di usi e costumi è un valore. Ma ghettizzarsi, chiudersi, rifiutare l’integrazione non lo è. “Insieme” non è, né deve essere, solo una parola.
Non si può vivere fianco a fianco senza capirsi. A Babele è cominciata così. Da lì si è fatta molta strada in molteplici direzioni. Ma non si è fatta molta strada verso l’alto.
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Figli e costi
Quanto costano i figli: secondo un’indagine dell’Istat sarebbero 800 gli euro al mese che una famiglia sborsa per il primo figlio, tra pappe, pannolini, biberon, annessi e connessi.
Troppo? Forse sì, considerando che una parte non minima della popolazione vive con una paga mensile media di poco più alta. Ma non è, evidentemente, questo il motivo principale del calo demografico: forse non siamo più abituati a crescere, forse non sappiamo più soffrire, aver cura degli altri, esprimere altruismo: tutte doti che, da genitori, non si possono non coltivare.
Diventare padri e madri fa paura. Fa paura probabilmente l’eventualità di non essere in grado. Ma è una paura di sempre, non basta nemmeno questo a giustificare la situazione attuale.
Piuttosto, fa paura la limitazione della propria libertà, la mancanza di spazio; una claustrofobia affettiva che vede con terrore l’idea di non poter uscire con gli amici, coltivare i propri interessi, viaggiare. Forse, in una famiglia dove i due lavorano, 800 euro non sono una spesa impossibile. Naturalmente a fronte di altre rinunce in fatto di beni voluttuari, a qualche sacrificio sulle vacanze e sugli hobby. Difficile? È una questione di scelte, di desideri, di priorità. C’è chi risparmia continuamente per cambiare auto ogni anno, o per vivere al di sopra delle proprie possibilità: nemmeno si accorge del sacrificio, a fronte del beneficio di poter guidare un’auto sempre nuova, o poter fare vacanze da sogno.
Anche avere figli è una scelta di vita: totalizzante, sia sul piano economico, sia sul piano umano. È triste pensare che, di fronte alla scelta, c’è chi preferisce altre priorità. Questione di valori. Sono quelli, non i soldi, che spesso mancano.
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Rappresentanze irrisorie (e contestate)
99 a 1: è la proporzione del tempo dedicato dalla RAI alla chiesa cattolica e agli “altri”. Come in tutti i sondaggi, questi in “altri” vanno compresi tutti, dai protestanti agli induisti, dai musulmani agli evangelici. E, considerando la massiccia presenza musulmana, legata anche a temi che lo richiedono, è facile supporre che la presenza evangelica sulle reti Rai sia davvero ai minimi termini.
Non che si tratti di qualcosa di nuovo, beninteso: siamo abituati a vedere programmi di approfondimento parlare di temi etici, sociali e perfino religiosi schierando in studio solo esperti di una singola parte, spesso quella maggioritaria, mentre i soggetti che potrebbero e dovrebbero rappresentare le altre posizioni non ci sono. La Rai, naturalmente, ci mette del suo: ma il discorso vale anche per le emittenti private, che considerano sempre le rappresentanze minoritarie come una realtà da guardare con curiosità, o al massimo con stupore, uno zoo di confessioni religiose da sfoderare quando emerge qualche lato curioso (per loro) del nostro modo di vivere e di agire.
Ma, dall’altro lato, c’è da considerare la nostra costante assenza, della litigiosità, del “chi rappresenta chi” tipico dell’ambiente evangelico.
A inizio dicembre c’è stata l’ennesima polemica, triangolare, sulla rappresentanza evangelica a un’iniziativa parlamentare: una triste pagina di “non avevi diritto” e “sì che ne avevo”, “chi ti dà il diritto a dire che non avevo diritto”. Un confronto forse doveroso, ma che – nella sua divulgazione – sicuramente non ha chiarito nulla, non ha pacificato, non ha arricchito nessuno, né ha dato spunti utili per il futuro. Anzi, forse domani non saremo invitati nemmeno lì, per paura che invitando gli uni si finisca per turbare un’altra parte del movimento evangelico.
La Rai non agevola le minoranze confessionali, certo. Ma, a quanto pare, noi ce la mettiamo tutta per agevolare la tendenza della Rai.
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Stazioni e termini
Giovanni Paolo II fa ancora parlare di sé. È cessata l’ondata di emozione che ha accompagnato, anche mediaticamente, la sua malattia e la sua dipartita; è scemata l’onda di devozione che ha portato per più di un anno file di pellegrini sulla sua tomba. Ma Karol Wojtyla fa ancora parlare. Perché, in tempi di scontro di civiltà, ogni figura diventa un simbolo, ogni personaggio – nel bene e nel male – assume il ruolo di baluardo. E Wojtyla non fa eccezione: troppo appetibile per venir trascurato.
Ora tocca alla stazione Termini, dedicata – e non intitolata – dal sindaco Veltroni alla figura di Wojtyla: contestata da un lato da chi non ha apprezzato la “via di mezzo” della formula equivoca, dall’altro da chi ritiene questo passo uno smacco alla multireligiosità.
Da un lato c’è la politica: la toponomastica è sempre stato un buon biglietto da visita per rendersi amici gli uni o gli altri. Dall’altro c’è, come si diceva, lo scontro di civiltà, che porta ogni fatto ad assumere toni esagerati rispetto alla sua reale portata.
È il solito gioco delle generalizzazioni, cui nessuno è immune, nemmeno tra i cristiani.
Riconoscere la statura politica (politica) di Wojtyla non significa per forza avallarne l’operato: eppure se una persona parla bene di Giovanni Paolo II si trova sotto un fuoco amico di chi non fa sconti alla sua figura di capo del mondo cattolico.
Allo stesso modo, non approvare la guida spirituale dello stesso personaggio è evidentemente legittimo, come si può non approvare chiunque altro, dal politico all’amministratore di condominio. Ma in questo caso il fuoco cui si è sottoposti è della maggioranza (di solito silenziosa) degli italiani, che ormai non ammette obiezioni: chi non condivide la civiltà cattolica non è cristiano, anzi: è musulmano. Anzi: è estremista. Anzi: è un terrorista.
Senza mezze misure, da un lato e dall’altro. Proprio in un paese come l’Italia, che del compromesso ha fatto una filosofia, una linea politica, un modo di vivere.
Eppure crediamo che possa esistere una posizione mediana, equilibrata, capace di cogliere in maniera più obiettiva possibile la realtà, anche quella – delicata – che tocca la fede. E abbiamo intenzione di continuare a tentare di percorrerla. Speriamo di poterlo fare insieme a voi.
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Famiglie reality
“Padri, siate autoritari”: un concetto dimenticato, che viene ripescato oggi e riproposto a tutta pagina dalla Stampa, dove si dedica un ampio spazio a una serie di conferenze decisamente anomale. Si tratta di incontri dedicati ai padri, che si svolgono a Perugia e dove a insegnare “come si fa” non sono psicologi o sociologi ma, pensate un po’, una suora. Giovane, brillante, laureata in teologia morale, ma pur sempre una donna. Che non è un’anziana esperta, non è madre e – va da sé – men che meno padre.
Eppure, stando a quanto riportato dalla stampa, di cose da dire ne ha, riflessioni frutto di attente osservazioni. Osservazioni che chiunque potrebbe fare, beninteso: ma quante sono, nella vita, le cose che sappiamo eppure dobbiamo sentirci dire?
In questo contesto, suor Roberta Vinerba fa ciò che altri, prima di lei, avrebbero dovuto fare, e che forse non hanno fatto pensando che “tanto a cosa serve… la Bibbia dice già tutto”. Già, la Bibbia, quella stessa Bibbia che Dio ha affidato a noi, e che richiede non solo attenzione, ma anche esperienza per essere compresa in maniera equilibrata. E ben venga, quindi, un buon consiglio.
E così, di fronte al logorio della famiglia moderna, suor Roberta “dà le dritte” ai genitori, spiegando che essere autoritari non significa mancare di rispetto ai figli; che la ribellione è un’implicita richiesta di regole e sicurezza; che non devono mancare, nel rapporto tra padri e figli, punti fermi e un senso del pudore che ormai gli adulti, ormai eterni bambini, spesso hanno dimenticato.
Riflessioni inevitabili, che per un cristiano dovrebbero essere pane quotidiano. Ma che vediamo sempre più spesso disilluse anche nelle migliori famiglie, turbate dalla distorsione di concetti come “uguaglianza”, “dialogo”, “confronto”. Una famiglia non deve essere una dittatura, ma deve essere allo stesso tempo qualcosa di molto diverso dalla democrazia.
Talvolta pare quasi che la maestra di vita dei credenti italiani non sia la Bibbia, ma la televisione, e in particolare i programmi dove il confronto serrato (per non dire la rissa) tra padri e figli, spiattellata a un pubblico affamato di pettegolezzo e pronto a rinfocolare i dissidi, sia il modello per impostare la vita familiare. Forse è il caso di rivedere le proprie posizioni, facendo tornare la famiglia al centro della società, e non rendendola l’ennesimo reality. Forse la famiglia dovrebbe dimenticare “Amici” o “Al posto tuo”, e riprendere il proprio ruolo.
Ricordare cosa la famiglia non è, e invece dovrebbe essere, è importante. Ben venga chi lo fa, da qualunque parte venga: sta scritto “chi non è contro di voi è per voi”, oppure si tratta di un errore di stampa della nostra Bibbia?
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Religione, l’ora equivoca
Cala ancora il numero di studenti che frequenta l’ora di religione nelle scuole milanesi. Alle primarie e secondarie (elementari e medie) i margini sono “accettabili” (per il Giornale, almeno), attestandosi sul 13 e il 20%; per le superiori il discorso cambia, e si passa dal classico, dove il 51% degli studenti non fa religione, al 58% degli istituti tecnici, fino al 65% dei professionali.
Come sempre, quando vengono presentati dati di questo genere, il dibattito si infiamma. Colpa degli insegnanti? Colpa delle lezioni? Il Giornale, nel titolare il pezzo, prende posizione contro “Gli stranieri che affossano l’ora di religione”: e in effetti i soli italiani acattolici non raggiungono quelle cifre.
Quel che turba, piuttosto, è che si tenti di far passare la IRC, come viene definito in termini tecnici l’insegnamento della religione cattolica, per quel che non è. Il responsabile dell’ufficio diocesano afferma che «… l’insegnamento della religione si svolge in ambiente laico e pluralista, e su obiettivi proposti dal ministero».
Che l’ambiente sia laico è scontato: si tratta di scuole pubbliche. Che l’ora di religione sia laica, è ardito sostenerlo. Certo, negli ultimi dieci anni i temi che si trattano sono stati stemperati, ma si tratta pur sempre di un’ora gestita da un insegnante cattolico, approvato dalle autorità ecclesiastiche, e sempre in una direzione ben definita. Se poi qualche insegnante preferisce proporre un’ora di talk show parlando di generici “valori”, nulla di male: ma l’ora di religione non è quello. Né è giusto che lo sia, fino a quando sarà proposta in questi termini.
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