Il buono dell'ateismo
“Quando l’ateismo diventa bestseller”, articolo pubblicato ieri su Repubblica, offre vari spunti interessanti. Tre libri, un inglese, un americano e un italiano, sono ai primi posti in classifica grazie prevalentemente al passaparola: e questo è un’ulteriore garanzia che non si tratta di vendite gonfiate.
In sostanza, in un’epoca di ritorno alla religione, c’è spazio anche per chi sta “all’opposizione”, per l’ateismo: e questo è già un buon primo segno, che in qualche modo disinnesca i pericoli paventati da chi sosteneva che un ritorno della spiritualità appiattirà il dibattito e porterà all’intolleranza.
E poi, l’ateismo è salutare, sul piano culturale. Davvero: i cristiani non oserebbero mai porsi certe domande, che pure sono essenziali. Per esempio il concetto di religione.
È infatti interessante che i tre libri fronteggino non tanto l’idea di Dio, ma quella di religione, “fenomeno sempre più avulso dall’idea stessa di Dio”. Fare i conti con le proprie tradizioni è un esercizio che dovrebbe caratterizzare costantemente il cristiano, ma che spesso viene trascurato. Fino a quando qualcuno, da fuori, lo fa notare.
Ovviamente gli autori atei di questi volumi non dicono solo cose condivisibili, e sarebbe preoccupante se così fosse: ritengono solo “psicosi” e “illusioni” la fede, ma non si può dare loro torto sul piano dell’onestà: sono in troppi, infatti, a fingere qualcosa che non hanno, almeno questi autori hanno il coraggio di ciò in cui (non) credono.
Interessante anche il concetto di Harris sulla fede: “O la Bibbia è un libro qualsiasi e Gesù un uomo comune, o no”. Non esistono vie di mezzo. Vero. Se sul piano culturale l’arricchimento è garantito da una molteplicità di idee, sul piano della fede esiste un’alterità che non consente vie di mezzo. O si crede in Gesù come messia, o non ci si crede. Se non ci si crede, tutto il rispetto. Se ci si crede, è necessario comportarsi di conseguenza, altrimenti è ipocrisia.
L’ultimo punto contestato alle fedi è l’ingerenza nelle leggi. E a chi sostiene che la fede cristiana porterebbe a leggi migliori gli autori contrappongono la posizione di un teologo anglicano, che proponeva il “supremo divorzio” tra fede e morale. Perché, dice questo teologo, “l’uomo non deve necessariamente credere per essere buono”.
Forse è l’aspetto più “scandaloso”, tra le teorie proposte. Ma in fondo, nemmeno qui l’autore ha torto. Non è necessario credere per essere buono. E può esistere anche una legge buona ma non cristiana, non proposta da cristiani, non sostenuta da cristiani. I cristiani non hanno l’esclusiva della bontà, e Dio agisce per molte vie.
E d’altronde cambiare il mondo non è nemmeno lo scopo del cristiano. A volte ci illudiamo di dover migliorare la società, rendere l’uomo “buono”. Dimenticando che Cristo non è venuto per rendere l’uomo migliore, ma per salvarlo. Forse dovremmo ricalibrare i nostri obiettivi di conseguenza.
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Pubblicato il 22 febbraio, 2007 su Uncategorized. Aggiungi ai preferiti il collegamento . Lascia un commento.
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