Archivio mensile:agosto 2007

Imbarazzi stellari

Scrive oggi Massimo Gaggi nella sua rubrica “Visti da lontano” sul Corriere: «Problema: come esaminare e catalogare tutte le galassie – almeno un milione – che possono essere osservate con gli strumenti oggi a disposizione? Il progetto… rischiava di arenarsi: costosissimo e con un’intensità di lavoro troppo elevata per qualunque team di astronomi (in questo caso il computer non può in alcun modo sostituire l’occhio umano).
Soluzione: rivolgersi agli astronomi dilettanti… breve corso online sulla morfologia delle galassie e poi i volontari hanno iniziato il lavoro di catalogazione… Gli astronomi speravano nell’aiuto di un consistente drappello di volenterosi. Invece il sistema informatico è saltato fin dal primo giorno per lassalto di migliaia di entusiasti dell’osservazione del cosmo. Oggi, poco più di un mese dopo, sono ben 85 mila i volontari che partecipano a questa specie di mappatura del Dna del cosmo».

Decine di migliaia di volontari, per pura passione, hanno accolto con entusiasmo l’appello a seguire un corso, prepararsi, per poi passare ore sul web a catalogare le stelle, con passione e – si può immaginare – pazienza certosina. Si tratta di un lavoro vero e proprio, anche se effettuato gratuitamente, che richiede ordine, meticolosità, precisione, costanza, responsabilità.

Decine di migliaia di persone, per puro amore di un hobby, decidono di dedicare tempo, energie, risorse e attenzione a un progetto tutto sommato fine a se stesso. Eclatante.
E in campo cristiano? Non vogliamo essere pessimisti, per cui vi proponiamo di improvvisarvi sondaggisti voi stessi. Provate a chiedere alle missioni attive in campo sociale o evangelistico, quelle che dipendono proprio dalle forze dei volontari. Provate a chiedere su quanti collaboratori possono contare stabilmente. Provate a chiedere quanti di questi si impegnano con costanza. Provate a chiedere quanti di questi hanno accettato senza sbuffare un corso, magari noioso, per prepararsi a gestire un programma complicato di amministrazione, o per imparare a usare bene lo scanner per qualche specifico – ma magari banalissimo – incarico. Provate a chiedere quanti di questi vengono regolarmente, mantenendo fede all’impegno preso. Provate a chiedere quanti di questi lavorano con ordine, meticolosità, precisione nell’inserimento di semplici dati in rete, alleviando la missione da incombenze di secondo piano e permettendo così di allargare l’opera su altri fronti.

Sì, perché più di qualcuno resta deluso quando scopre che anche le missioni e le chiese hanno bisogno di qualcuno che faccia la fila in posta o risponda al telefono. Spesso non ci si rende conto, infatti, che anche la fotocopia, la cura dei conti, la compilazione di un modulo amministrativo o l’inserimento dati in rete può essere un servizio cristiano. Un servizio che possono fare quasi tutti, ma non per questo meno importante: un servizio di retrovia ma tanto prezioso che, in assenza, l’opera rallenterebbe, subirebbe ritardi, o addirittura si fermerebbe.

Provate a chiedere quante missioni possono contare non su migliaia, non su centinaia, non decine, ma almeno su una mezza dozzina di persone di buona volontà, costanti, coscienziose, disposte a prepararsi e a impegnarsi in prima linea ma anche dietro le quinte.
Provate a chiedere, e stupitevi della risposta. Altro che stelle: a volte noi cristiani dovremmo eclissarci dalla vergogna.

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Matrimonio, c’è di più

Gli uomini sposati sono più pigri di quelli che convivono: è la conclusione di una ricerca proposta da un’università americana e basata su 17 mila persone in 28 paesi. Pare infatti che gli uomini, una volta accasati con tutti i crismi ufficiali, diventano refrattari nelle faccende domestiche, costringendo la consorte a impegnarsi di più.

Naturalmente non giustifichiamo la convivenza, e crediamo anzi che il matrimonio sia il progetto di Dio per la famiglia. Il problema, semmai, è che gli esseri umani sono riusciti, secolo dopo secolo, a creare tutta una serie di sovrastrutture e aspettative di fronte al matrimonio, tanto da appannarlo e farlo sembrare, per la proprietà transitiva tra l’immagine dell’istituzione e la sua applicazione, meno perfetto di quel che è.
“Non ci serve un pezzo di carta”, “non abbiamo i soldi”, “non abbiamo la casa”, “ci manca un lavoro” sono le giustificazioni più comuni addotte dalle coppie di fronte alla domanda “perché non vi sposate?”.

Ovviamente non sono esigenze legate al matrimonio, quanto all’immagine che abbiamo costruito attorno al matrimonio, l’obbligo sociale di un abito costoso, di un banchetto con centinaia di invitati, della casa dei sogni, di una situazione economica che nutra il rapporto con il superfluo di oggetti perlopiù inutili (o magari dannosi per il rapporto stesso). Si tratta di un approccio legato a una concezione superficiale del matrimonio, ma è proprio questa a caratterizzare oggi le unioni nella nostra società avanzata che è abituata al “tutto e subito” e guarda con orrore all’impegno, alla responsabilità, alla semplicità. E anche in ambito cristiano, purtroppo, si passa più tempo sulla lista degli invitati di quanto si rifletta sul progetto di vita in comune. Non a caso gli sposi saranno pronti a mostrarvi il filmino delle nozze, ma si troveranno in leggero imbarazzo quando vorrete indagare sui loro piani andando oltre il banale “vogliamo servire Dio insieme”.

Difficilmente, partendo da queste premesse, una coppia non incapperà nei luoghi comuni più triti: lui impigrito davanti alla televisione, lei intontita dalla fiction preferita, i figli che “non possono non avere il meglio” (senza che nessuno si chieda il perché) ma con i quali si condivide al massimo un fugace e silenzioso pasto in comune. E poi la routine, la noia, la crisi. Sono solo questioni private? Non proprio, nel momento in cui le difficoltà familiari si ripercuotono sulla vita spirituale, e quindi sui rapporti comunitari.

Diversa la situazione della convivenza. Pare che chi convive abbia una marcia in più: non è una novità, evidentemente, dato che per la psicologia umana il fatto di vedersi messi in discussione ogni giorno comporta uno stimolo a migliorarsi, mentre le certezze portano a un assopimento che, alla lunga, rischia di compromettere il rapporto. Meglio convivere, potrebbe essere la risposta superficiale. Piuttosto, sarebbe il caso di restituire al matrimonio il suo ruolo: una piena interazione non solo sentimentale e umana, ma anche culturale e spirituale, in un rapporto intenso e attivo che ogni giorno tenta di crescere.

Matrimonio, c'è di più

Gli uomini sposati sono più pigri di quelli che convivono: è la conclusione di una ricerca proposta da un’università americana e basata su 17 mila persone in 28 paesi. Pare infatti che gli uomini, una volta accasati con tutti i crismi ufficiali, diventano refrattari nelle faccende domestiche, costringendo la consorte a impegnarsi di più.

Naturalmente non giustifichiamo la convivenza, e crediamo anzi che il matrimonio sia il progetto di Dio per la famiglia. Il problema, semmai, è che gli esseri umani sono riusciti, secolo dopo secolo, a creare tutta una serie di sovrastrutture e aspettative di fronte al matrimonio, tanto da appannarlo e farlo sembrare, per la proprietà transitiva tra l’immagine dell’istituzione e la sua applicazione, meno perfetto di quel che è.
“Non ci serve un pezzo di carta”, “non abbiamo i soldi”, “non abbiamo la casa”, “ci manca un lavoro” sono le giustificazioni più comuni addotte dalle coppie di fronte alla domanda “perché non vi sposate?”.

Ovviamente non sono esigenze legate al matrimonio, quanto all’immagine che abbiamo costruito attorno al matrimonio, l’obbligo sociale di un abito costoso, di un banchetto con centinaia di invitati, della casa dei sogni, di una situazione economica che nutra il rapporto con il superfluo di oggetti perlopiù inutili (o magari dannosi per il rapporto stesso). Si tratta di un approccio legato a una concezione superficiale del matrimonio, ma è proprio questa a caratterizzare oggi le unioni nella nostra società avanzata che è abituata al “tutto e subito” e guarda con orrore all’impegno, alla responsabilità, alla semplicità. E anche in ambito cristiano, purtroppo, si passa più tempo sulla lista degli invitati di quanto si rifletta sul progetto di vita in comune. Non a caso gli sposi saranno pronti a mostrarvi il filmino delle nozze, ma si troveranno in leggero imbarazzo quando vorrete indagare sui loro piani andando oltre il banale “vogliamo servire Dio insieme”.

Difficilmente, partendo da queste premesse, una coppia non incapperà nei luoghi comuni più triti: lui impigrito davanti alla televisione, lei intontita dalla fiction preferita, i figli che “non possono non avere il meglio” (senza che nessuno si chieda il perché) ma con i quali si condivide al massimo un fugace e silenzioso pasto in comune. E poi la routine, la noia, la crisi. Sono solo questioni private? Non proprio, nel momento in cui le difficoltà familiari si ripercuotono sulla vita spirituale, e quindi sui rapporti comunitari.

Diversa la situazione della convivenza. Pare che chi convive abbia una marcia in più: non è una novità, evidentemente, dato che per la psicologia umana il fatto di vedersi messi in discussione ogni giorno comporta uno stimolo a migliorarsi, mentre le certezze portano a un assopimento che, alla lunga, rischia di compromettere il rapporto. Meglio convivere, potrebbe essere la risposta superficiale. Piuttosto, sarebbe il caso di restituire al matrimonio il suo ruolo: una piena interazione non solo sentimentale e umana, ma anche culturale e spirituale, in un rapporto intenso e attivo che ogni giorno tenta di crescere.

Esposti al peggio

Neonati abbandonati, a Milano un’altra ruota: spiega il Giornale che dopo quella della clinica Mangiagalli, anche l’ospedale Predabissi di Melegnano si doterà nel giro di qualche mese di una struttura capace di accogliere i neonati rifiutati, per qualche motivo, dai genitori. Una pratica che ricorda tempi passati, quando la società era divisa in classi e gli amori impossibili, quando sfociavano in una gravidanza, comportavano la necessità di un abbandono del bimbo. E allora erano tristemente comuni le scene di donne che discretamente lasciavano il piccolo nelle ruote dei monasteri o (più di recente) degli ospedali, certe che sarebbero stati accolti, accuditi, allevati e cresciuti in maniera dignitosa. A quanto pare, stando alla necessità di allestire posti di accoglienza per neonati abbandonati, la pratica sta tornando pericolosamente in evidenza.

Ed è curioso. Perché quando guardiamo un film che parla dei secoli passati, ci sentiamo, in fondo, migliori, più evoluti, più civili, più intelligenti e meno ingenui. Abbiamo la tecnologia, abbiamo superato le regole, possiamo fare quel che vogliamo e nessuno può dirci nulla, perché ognuno sa, o dovrebbe sapere, quel che è il suo bene, e la stessa strada non va bene per tutti.

Oggi, nel XXI secolo, lontani dalle monache di Monza e perfino da una società alla Albero degli zoccoli, dopo secoli di evoluzione sociale, ci troviamo a riscoprire le culle degli esposti. In versione hi-tech, naturalmente, ma pur sempre ruote degli abbandonati: rispolverate in fretta per evitare di trovare altri bambini per la strada, nei cassonetti, e ora anche nei centri commerciali.

Eppure la società non è più invasiva come un tempo, non esistono praticamente più le storie impossibili tra nobili e serve, o viceversa, che dovevano venir tacitate a ogni costo; non esistono più obblighi famigliari così cogenti da cambiare la vita, e i conventi sono solo per chi lo desidera.

Abbiamo una maggiore libertà, sicuramente, e questo ci fa tirare un sospiro di sollievo rispetto ai doveri e alla ragion sociale che affliggevano anche solo i nonni. La libertà c’è; il problema, semmai, è che manca la capacità e la responsabilità per gestirla nel modo più opportuno. L’essere umano è rimasto lo stesso: più tecnologico, ma con i soliti difetti e i soliti limiti.

Casalinghe alla texana

Una laurea per studiare da brave mogli: è l’idea dell’università battista di Fort Worth, un ateneo battista del Texas, che da settembre proporrà un corso di quattro anni dove alle lezioni di latino, greco, letteratura, matematica si aggiungeranno seminari su “come cucinare, fare le pulizie, occuparsi dei bambini e far quadrare il budget”. Fino agli anni Sessanta l’apprendimento delle faccende domestiche – dalle riparazioni alle pulizie, dalla cucina all’amministrazione – si apprendevano gradualmente in casa, seguendo e interagendo con le questioni di ogni giorno, sfidati e istruiti dai genitori. Poi è venuta la tempesta femminista, una rivoluzione sociale che ha creato una discontinuità generazionale: per i contestatori stare ai fornelli era l’antitesi dell’emancipazione e i lavori di casa erano un simbolo di subalternità. L’ego, la carriera, il “tutto e subito” hanno seppellito l’ordinario, il metodo, la regolarità, cambiando il modello di vita occidentale. In meglio o in peggio, non è difficile stabilirlo, dando un’occhiata alla devastazione sociale in cui ci si muove (ma si sa, “la colpa è della società”, e “i problemi esistevano anche prima, ma erano repressi”). Sul piano casalingo, la generazione figlia di chi nel Sessantotto ha cambiato il mondo si è ritrovata sicuramente con un inestimabile patrimonio di maggiori libertà, ma allo stesso tempo con un disordine, una prospettiva relativista e pochi punti fermi su cui fare leva per trovare una linearità nella propria esistenza. Tutto questo ha sollevato qualche dubbio: e se il passato, debitamente inquadrato, non fosse poi così male? E se le regole non fossero la quintessenza della repressione, ma – accolte nel modo giusto – un utile riferimento per una vita più serena? E se la casa, la famiglia, la regolarità di una vita normale non fosse per forza qualcosa di cui vergognarsi, ma un valore capace perfino di esercitare un certo fascino?

Molti sono tornati sui loro passi. E si è capito che, per dire, irridere i vecchi rimedi della nonna contro le macchie solo perché ora la tecnologia ci mette a disposizione lo smacchiatore era quantomeno sventato, di fronte agli studi sulla tossicità dei prodotti e sui danni all’ambiente.

E si fa presto a dire che lavorando in due si guadagna di più, rincara la dose il preside dell’università texana. «Se una donna decide di stare a casa a far la madre spesso viene derisa. Ma noi dimostreremo che una famiglia con due genitori che lavorano entrambi alla fine del mese finisce con lo spendere di più, tra asilo, fast food, trasporti eccetera. Per non parlare dei danni psicologici inferti ai figli». Scelte che non sono indifferenti non solo per i figli, ma per la stessa stabilità della vita di coppia e per la vita spirituale dei singoli.

E allora, vedendola in questo modo, non si tratta più di una questione di semplice manualità e di banale pratica casalinga: è uno stile di vita, un modello, una scelta di fondo. Forse non sarà, come dicono in Texas, «il punto di vista biblico sulla famiglia», ma sicuramente ci va più vicino della tendenza che ha preso piede negli ultimi quarant’anni. Qualcuno potrà non essere d’accordo, ovviamente. Un dissenso legittimo: d’altronde è successo già in passato con lo smacchiatore.

Le cose da fare

«Nel mondo c’è una gran voglia di compilare liste – scrive Roberto Rizzo sul Corriere di oggi -. Elenchi di cose mai fatte e da fare, il prima possibile e, soprattutto, prima che sia troppo tardi». Fa fede, spiega il giornalista, «una serie di libri di buon successo dai significativi titoli: “1.000 posti da vedere prima di morire”, “1001 libri da leggere prima di morire”, “Cinquanta posti dove giocare a golf prima di morire” e il meno apocalittico “101 cose da fare prima di compiere 40 anni», traguardo che, evidentemente, per qualcuno somiglia un po’ a una dipartita.

«Il gioco non è nuovo – racconta ancora Rizzo – ma ha preso forma tre anni fa su Internet quando ha aperto il sito 43Things.com, raccoglitore virtuale dei desideri, possibili e impossibili, dell’umanità. È bastato porre una semplice ma epocale domanda: “Cosa vuoi fare nella tua vita che non hai ancora fatto?”. A oggi, 1,2 milioni di persone hanno risposto depositando la propria lista di cose da fare».

Tra i desideri dei personaggi citati a margine dell’articolo ci sono idee irrealizzabili e altre più probabili, ed è probabile che sulle seconde si debba riflettere: desiderare l’impossibile non aiuta a vivere con uno scopo. Al di là della tendenza ludica che questa moda può assumere, va detto che non è sbagliato mettere nero su bianco le proprie aspirazioni e i propri obiettivi. Anzi, potrebbe essere una cosa utile per darsi una motivazione più forte e, in caso, per rivedere la rotta.

Basterebbe girare la domanda: quali sono i cinque (ma anche solo tre) obiettivi principali della nostra vita? Forse mettere su carta il fatto che puntiamo principalmente a un buon lavoro, un buon matrimonio, una buona famiglia e un’esistenza serena può farci riflettere sulla bassa priorità che diamo alla nostra vita spirituale, e soprattutto al nostro impegno cristiano, sia esso personale o in collaborazione con chiese, missioni, realtà sociali.

Qualcuno, dopo aver compilato la lista con un sacco di (legittimi) obiettivi materiali, si giustificherà dicendo che dava per scontato l’aspetto spirituale. Può essere. Forse, però, se noi cristiani occidentali non riusciamo più a essere convincenti quando tentiamo di adempiere seriamente il mandato del vangelo, è proprio perché diamo troppo per scontata la nostra chiamata. Crediamo di portare avanti il testimone dei cristiani dell’Ottocento e del Novecento, ma spesso siamo in grado di proporne soltanto la forma e le formule, senza la sostanza e lo zelo che muoveva quei cuori e quelle chiese a un impegno concreto, capillare ed efficace. Forse qualcuno non resterà indifferente nello scoprire che questo atteggiamento ha un nome ben preciso: si chiama religiosità.

Quando lo sport sale in cattedra

“Sport, quando in campo scende Dio”: ne parla in un articolo il Corriere della Sera, rivelando alcuni dettagli curiosi relativi alla nascita dell’attività fisica come la conosciamo oggi. È per esempio del 1869 la prima palestra ginnica di concezione moderna, e fu la YMCA – associazione di giovani cristiani – a vararla; per farlo dovette modificare lo statuto, che fino ad allora prevedeva esclusivamente attività a scopo religiosi.

Ma non solo: fu un battista, direttore della palestra di Boston, a coniare nel 1876 il termine “body building”. E pochi anni dopo fu il presbiteriano James Naismith a inventare il basket.

La società occidentale veniva da secoli di puritanesimo, e «solo nell’Ottocento – ricorda il Corriere – venne il tempo per quel “cristianesimo muscolare” in nome del quale gli angloamericani accettarono l’attività ginnica e infine anche lo sport competitivo, non più sinonimo di scommesse, risse e ubriachezza… salute del corpo e salute dell’anima si riconciliarono nella sintesi del pastore Moses Coit Tyler, uno dei campioni della muscolar Christianity: “La salute è un dovere, la malattia evitabile è un peccato”». Un’esperienza particolare, quella anglosassone, che seppe conciliare fede e sport mentre nel resto d’Europa i club sportivi nascevano spesso laici o cattolici.

E non sarà quindi un caso se è in questo ambito sportivo anglosassone che nasce il concetto di “fair play”: si gioca secondo le regole, si vince rispettando l’avversario, non tutto è lecito per ottenere il risultato. Oggi che il fair play comincia a mancare anche nel tennis (santuario della correttezza e della formalità sui campi di gioco), possiamo forse renderci conto di quanto un sano approccio sportivo possa essere anche una scuola di vita per i giovani.

Forse, constatando questo, possiamo capire quanto tempo abbiamo perso, fuori dal mondo anglosassone, lasciando ad altre realtà l’esclusiva della formazione etica e pratica dei più giovani attraverso l’attività fisica. Se di primo acchito lo sport può essere visto come una banale valvola di sfogo dei peggiori istinti e quindi un’attività aliena dagli scopi della missione cristiana, guardando alla questione con minore superficialità ci si rende conto di come l’attività fisica possa rivelarsi uno strumento importante, capace di dare alla formazione spirituale dei giovani quella cornice morale, psicologica, sociale pulita e solida di cui una vita cristiana in fase di sviluppo ha bisogno per crescere in maniera equilibrata e coerente.

Quando non è solo un gioco

La Stampa riporta uno studio che sfata un mito della società occidentale. «Giocare coi nostri figli? Non è poi così necessario. Anzi, a lungo andare nemmeno auspicabile… American Anthropologist, che è considerata la rivista più autorevole in questo campo… ha pubblicato infatti un saggio di David Lancy, stimato docente all’Università dello Utah, che rovescia quello ritenuto da tempo un preciso comandamento per qualunque genitore civilizzato: condividere i giochi dei propri bambini, il che significa anche trascorrere con loro il maggior tempo possibile».

Continua l’articolo segnalando che «Per Lancy questo imperativo categorico non è affatto motivato. Anzi. Non rappresenta neppure una necessità «naturale», come chiunque di noi risponderebbe se interrogato a caldo, senza neppure riflettere. In fondo, fra gli animali non è abituale vedere la mamma giocherellare coi cuccioli? Niente affatto, risponde lo studioso. Si tratta di comportamenti molto differenti. E poi, nella storia del genere umano non se n’è mai parlato, o almeno non è mai stato un problema importante. I bambini da questo punto di vista se la sono sempre cavata tra di loro».

Interessante una riflessione dello studioso: «La faccenda riguarda le classi medie e alte del mondo ricco. Nelle altre culture il problema neppure esiste: il gioco è certo praticato, è un comportamento universale, ma gli adulti non ne fanno parte. Semmai giocano tra loro, esattamente come i bambini».

In effetti, fino alla società pre-tecnologica, gli adulti giocavano tra loro e i bambini facevano gruppo a sé, senza particolari interazioni tra le due realtà. Anzi, un adulto visto a giocare con i bambini sarebbe stato guardato con perplessità, e additato come una mente non troppo normale.

L’idea di giocare con i figli è piuttosto recente, quindi, frutto di quell’agiatezza che altre epoche e altre culture non conoscono.

Attenzione, però, a non confondere due piani ben distinti. Se è vero che giocare con i figli non deve essere un obbligo sociale, è altrettanto vero che i genitori hanno il dovere – morale e civile – di passare del tempo con i figli. Che può voler dire giocare, ma anche interagire in progetti costruttivi: leggere, guardare un film, intraprendere iniziative comuni, discutere. Il figlio deve poter contare sulla formazione diretta, pratica, concreta oltre che teorica che un genitore può dare: l’esperienza di vita, ma anche i valori morali, l’etica sociale, e – nel caso di una famiglia cristiana – l’istruzione spirituale, che non può venir delegata in toto a terzi, siano essi monitori, pastori o altre figure docenti.

Passare del tempo insieme per conoscersi, conoscersi per capirsi, capirsi per venirsi incontro: solo il genitore attento (“attento”, non “oppressivo”) può cogliere problemi, difficoltà, pericoli, intervenendo in tempo in caso di necessità. E potrà, in seguito, venir ricambiato da un rapporto meno indifferente da parte del figlio.

Certo, per instaurare un rapporto intenso, solido, concreto è necessario investire: dedicando ai figli più tempo e attenzione, mettendosi in gioco in maniera più radicale, dando loro una priorità più alta di quella che che basterebbe per qualche minuto di gioco quotidiano.

Conoscere per capire

La comunità mennonita del Quebec minaccia di abbandonare la provincia se il ministro per l’istruzione non permetterà alle loro scuole di tralasciare l’insegnamento dell’evoluzionismo. Lo segnala Il cittadino, giornale canadese, che rileva come «In Quebec diverse scuole religiose applicano il programma del ministero aggiungendovi corsi di educazione religiosa e di lingua. Ma per la comunità mennonita non basta: il programma standard prevede lo studio di “storie e personaggi che incarnano ruoli e sono testimoni di modelli di vita giudicati negativi dai mennoniti”».

La domanda che ci si potrebbe porre subito è dove abbiano intenzione di trasferirsi: i programmi scolastici, ovunque, impongono alle scuole pubbliche e private alcuni punti fermi nello studio delle varie materie, o il raggiungimento di determinati obiettivi da parte degli studenti. Anche parlando solo di storia, è impensabile che una scuola islamica trascuri l’insegnamento delle crociate, una scuola cattolica glissi sulla riforma, una scuola evangelica liquidi in poche parole la storia del cristianesimo perché “il vero cristianesimo siamo noi”. O meglio: ognuno può, in privato, pensare e istruire secondo le proprie opinioni, ma l’istruzione dei giovani, nei paesi dove è obbligatoria, deve essere impartita secondo certi criteri di obiettività.

Ai mennoniti canadesi non basta aggiungere un inquadramento evangelico alle lezioni dei propri istituti privati: vogliono entrare nel merito e selezionare le pagine da studiare e quelle da tralasciare.
Una posizione che peraltro provoca anche qualche problema di ordine pratico. Non c’è solo Darwin tra i “personaggi che incarnano ruoli e sono testimoni di modelli di vita giudicati negativi”: centinaia di uomini dalla dubbia moralità e dagli ideali opinabili hanno segnato la storia, la letteratura, la musica, le scienze, e non solo. E allora dovremmo cancellare Darwin dai libri di scienze, Wilde e D’Annunzio dai testi di letteratura, Mozart ed Elton John dai manuali di musica, e l’elenco non si fermerebbe certo qui. Cassarli non è impossibile, ma significherebbe studiare tutte le materie, nessuna esclusa, con gravi lacune, a tutto svantaggio degli studenti e della loro preparazione per una professione, una vita sociale, una testimonianza cristiana seria, intensa e pronta.

Non pretendiamo di convincere nessuno che si possa essere seriamente cristiani anche avendo studiato Darwin, ascoltato Mozart e letto Wilde. C’è chi preferisce chiudersi nell’eremo di casa sua e da quella fortezza spiritualmente inespugnabile tuonare contro la modernità e la società che va allo sfacelo, guardandosi però bene dal fare qualcosa per dare una soluzione ai problemi. Certo, un contributo alla soluzione può venire dalla cultura cristiana, ma solo quando alla consapevolezza del disastro si abbina la conoscenza approfondita del problema (che non corrisponde, sia chiaro, alla capacità di citare due o più versetti biblici). Solo conoscendo i drammi, le aspirazioni, le ambizioni, le idee di ieri e di oggi potremo proporre al nostro prossimo e alla società una soluzione seria, efficace e – non meno importante – applicabile al contesto specifico.

I massimalismi e i qualunquismi giovano solo ad alleviare la coscienza di chi non vuole addentrarsi nel problema, preferendo un bartaliano “l’è tutto da rifare” al rimboccarsi le maniche per scavare nello sfacelo. Non si può costruire su un terreno senza averlo preparato. E per prepararlo è necessario talvolta scendere dal pulpito e camminare tra la gente. Come faceva Gesù, come facevano gli apostoli.

Quella fede che disturba

Lo Stato italiano seguirà il caso di Muhamed Hegazi, l’egiziano convertitosi pubblicamente al cristianesimo e colpito, per questa sua scelta, da una fatwa unanime degli ulema del suo paese. Il caso è stato sollevato ieri sul Corriere della Sera da Magdi Allam, editorialista della testata impegnato sempre di più in difesa dei cristiani nel mondo. Pare che in Egitto si possa essere cristiani, ma solo sottovoce, per non turbare i diritti dell’islam (e suona sempre più ironico che significhi “sottomissione”).

Il nostro Ministero degli Esteri non ha lasciato cadere la questione: il viceministro Ugo Intini ha dichiarato che il caso “non sarà preso alla leggera”: «Faremo gli accertamenti necessari e ci muoveremo per difendere i diritti umani e la libertà religiosa». E obietta che comunque «Il “silenzio assordante” della chiesa cristiana copta di fronte alla conversione rimproverato da Allam non è casuale. Nasce dal fatto che dieci milioni di copti vivono rispettati in Egitto e praticano liberamente la loro religione».

E forse il ministro, nella sua excusatio non petita, ha colto nel segno: la differenza tra religione e fede. Tradizioni, abitudini, formule, riti, magari limitati a momenti determinati e luoghi specifici, non infastidiscono i regimi. Non infastidivano più di tanto nemmeno i regimi comunisti, né la dittatura nazista. E oggi sono tollerati nei paesi islamici più illuminati.

Appena però qualcuno osa uscire dalla pratica personale, anche senza voler eccedere in un improbabile esibizionismo religioso, rischia la vita: una fatwa per apostasia è una sentenza che ogni islamico può – deve sentirsi in dovere di – adempiere. Perché la fede, quando viene vissuta e non solo ammirata nell’esistenza altrui, diventa una parte intensa del proprio quotidiano, condiziona le proprie scelte, cambia l’approccio ai problemi, offre una diversa prospettiva su ciò che sta attorno.

Una dittatura – sia essa politica, militare, religiosa – si basa sul controllo dello status quo, ma anche delle menti; la vita di fede richiede, per esistere, libertà e indipendenza di pensiero. Per questo la fede rischia di essere qualcosa di deflagrante, e per questo non può non dare fastidio a chi basa il proprio potere sul controllo assoluto dei corpi e del pensiero. Sia esso un imam, un conducador, un fuhrer.