Archivio mensile:ottobre 2007

Dittature a confronto

Veltroni, nuovo segretario del pd, ha sollevato un velo paragonando Pol Pot ad Auschwitz. «Sono diversi i colori delle bandiere – ha sostenuto -, ma la vita degli esserei umani è la stessa».

Le dittature possono essere messe sullo stesso piano? È un tema su cui gli storici dibattono da tempo: Pol Pot come Stalin e come Hitler, la Cambogia dei Khmer rossi come i gulag comunisti e come Auschwitz. Finora c’era sempre stato un certo timore nel paragonare le diverse esperienze dittatoriali che si sono succedute nel XX secolo: troppo pesante, troppo drammatico l’Olocausto per stemperarne le colpe. Il fatto che Veltroni sia tornato sull’argomento senza imbarazzi, dichiarando «ho visto su un giornale le foto dei campi di concentramento in Cambogia. Erano delle foto agghiaccianti non diverse da quelle che tra dieci giorni troverò andando ad Auschwitz», ha riaperto la discussione. Quali le differenze, quali le similitudini tra una dittatura comunista khmer che sterminò milioni di cambogiani, Stalin che sterminò milioni di nemici del popolo e Hitler che sterminò milioni di ebrei? Il genocidio nazista, con il folle tentativo di eliminare sistematicamente dall’Europa la presenza ebraica, fu sicuramente un’enormità. Il piano di Stalin per cancellare ogni tipo di opposizione interna fu drammaticamente feroce. Il progetto di costruire una nuova Cambogia sui corpi di una generazione, togliendo di mezzo ogni forma di cultura e ogni presenza intellettuale si dimostrò un incubo a occhi aperti.

Tre dittature, tre ideologie, tre obiettivi diversi. Un unico scopo, implicito o esplicito: sostituirsi a Dio per cambiare radicalmente la storia e la società. Hitler per dare spazio a una razza superiore, Stalin per creare la vera democrazia del popolo, Pol Pot addirittura per costruire l’uomo nuovo cancellando la generazione compromessa.

Tre tentativi, tre aberrazioni diverse tra loro ma altamente drammatiche: difficile, e inutile, tentare di scegliere quella meno dolorosa.

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Il vangelo sconosciuto

“Sette italiani su dieci non hanno mai aperto il Vangelo”, e considerano volontariato e aiuto al prossimo come un modo per “coltivare la spiritualità” più della preghiera e della lettura: sono alcuni dei risultati emersi da un’indagine promossa dalle Edizioni San Paolo.

Il dato più sorprendente, ma forse non dovremmo più sorprenderci, è che solo il 16% degli italiani interpellati dichiara di aver letto i quattro vangeli e appena un 15% ne ha letto almeno una parte. Attenzione, non parliamo del Nuovo Testamento intero, e tantomeno di tutta la Bibbia: solo dei quattro Vangeli.
Una realtà sconfortante, considerando che i vangeli occupano in tutto un centinaio di pagine, molte meno di quelle del Codice Da Vinci che ha fatto tanto successo.

Nonostante le basi della propria fede, il 68% degli interpellati si dichiara comunque “credente”, mentre un altro 17% “praticante”. Se, traducendo dal gergo religioso, “praticante” è chi coltiva la propria vita spirituale, i conti non tornano: 17 su cento vivono la fede, ma solo 15 hanno letto tutti i vangeli. Ci chiediamo chi possa essere così ingenuo da considerare la possibilità di “praticare” senza basi, ma in una società superficiale come quella di oggi non ci stupiremmo se ci fossero cristiani che si accontentano del Bignami.

A fronte dell’ignoranza biblica (di cui, peraltro, è vittima la maggior parte dei concorrenti ai quiz televisivi), emerge una tendenza altrettanto preoccupante: la confusione tra fede e opere. Aiutare il prossimo e fare volontariato non vengono considerate come espressioni pratiche della propria fede, ma vengono identificate con la fede stessa. È evidente che praticando il proprio amore cristiano si possano avere ottime lezioni e indicazioni per la vita cristiana, ma ogni cristiano sa – o dovrebbe sapere – che non può bastare a uno sviluppo solido ed equilibrato della propria fede.

La Stampa guarda in una prospettiva ottimistica la questione, segnalando che «gli italiani, come si sa, hanno un rapporto fluido con la religione, possono essere pigri e refrattari ad approfondire le loro convinzioni di fede, ma nello stesso tempo rivalutare il ruolo della religione cattolica nella formazione delle coscienze e a livello etico. Al riguardo, l’indagine di “Famiglia cristiana” segnala anzitutto che la maggioranza degli italiani vorrebbe una scuola che dia più spazio ai temi di cultura religiosa; ed inoltre che il 90% della popolazione è d’accordo che a scuola si insegni la religione. Su questo parere convergono quasi tutti i fedeli praticanti e persino il 61% dei “non credenti”, che per varie ragioni dunque apprezzano una proposta formativa su cui sovente si accende il dibattito pubblico».

Insomma, sostiene La Stampa, gli italiani sono poco interessati alla loro fede, ma hanno comunque dei valori, dato che sostengono la religione a scuola. Il timore, da parte nostra, è che il problema possa essere diverso: sostenere la religione a scuola potrebbe essere semplicemente il sistema più comodo per lavarsi la coscienza del disinteresse verso la religione che si manifesta in ogni altro momento della vita, un piccolo dazio “che male non fa” per sentirsi a posto con la propria fede latitante.

Senza contare che l’ora di religione è un ottimo modo per scaricare le responsabilità dell’educazione spirituale, che i genitori non hanno tempo o voglia – né, visto un tanto, sarebbero in grado – di curare.

Il vero vincitore

Nella corsa per le primarie del partito democratico, in vista delle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti, il senatore Barack Obama ha deciso di organizzare un Gospel Tour per accaparrarsi le simpatie degli evangelici conservatori, e soprattutto la componente di colore.

La mossa scelta? Girare l’America ospitando McClurkin, che definire “discusso” (come fa il Corriere) è dire poco. Si tratta di un cantante Gospel, nonché «ministro dei pentecostali» che definisce «l’omosessualità una “maledizione”, uno “stile di vita che va curato”, e sostiene che “la maggioranza di gay e lesbiche sono degli infelici”, in parte spinti nella loro condizione di passati di abusi e molestie”».

Una posizione critica nei confronti dell’omosessualità è abbastanza comune, in campo evangelico, e da sempre è oggetto di strali da parte delle realtà che invece sostengono la normalità di quella condizione. Il problema nasce nel momento in cui proprio la corrente omosessuale sostiene ampiamente la candidatura di Obama: un vero e proprio conflitto di interessi. La richiesta della comunità gay era ovviamente quella di liquidare McClurkin per il prosieguo del tour, ma Obama, nel tentativo di salvare capra e cavoli, ha fatto di meglio: ha arruolato un prete gay, incaricato di aprire gli incontri con una preghiera.

Non occorre essere strateghi della politica per capire che le manovre di salvataggio di Obama risultano quantomeno patetiche, e che nel mettere una pezza rischia di peggiorare l’entità dello strappo: difficilmente una comunità evangelica tradizionale apprezzerà la preghiera di un prete gay, e sarà altrettanto arduo che la comunità omosessuale si accontenti di questa formalità per fare pace con Obama.

Quel che forse ci incuriosisce di più, però, e di cui non abbiamo trovato traccia, è la posizione di McClurkin, il cantante-predicatore coinvolto da Obama: è improbabile che non conoscesse la situazione politica e la posizione del candidato a cui si aggregava. Resta il fatto che, allo stato attuale, il vero vincitore è proprio lui: se la sua presenza abbia incoraggiato i credenti tradizionalisti a votare Obama non si sa, però sicuramente il suo messaggio è risuonato forte e chiaro, con tanto di eco internazionale, dal pulpito della parte avversa.

Religioni verdi

Piccola raccomandazione: ricordatevi, domani sera, di aggiornare l’orologio. Torna infatti l’ora solare, che ci accompagnerà fino a primavera. L’obiettivo di questo spostamento, come ci raccontano spesso, è il risparmio energetico, sfruttando al meglio sia in estate, sia in inverno le ore di sole, che incidentalmente sono anche quelle più produttive.

Alzi la mano chi ricorda così, a mente, se le lancette andranno spostate in avanti o indietro di un’ora: in effetti è difficile da ricordare, quantomeno perché suona innaturale allungare o accorciare la giornata “truccando” l’orologio (per togliervi dall’imbarazzo, comunque, si torna indietro di un’ora).

Ma non c’è solo questo: come segnala La Stampa, «torna l’ora solare e un italiano adulto su sei accuserà qualche disturbo da “accorciamento delle giornate”, cioè dalla diminuzione delle ore di luce, una sorta di depressione stagionale».

Scopriamo così che, stando a uno studio della rivista “Current biology”, «il nostro orologio interno impiega infatti parecchie settimane (almeno sei in autunno con l’ora solare, quattro in primavera) per adattarsi al cambio»: il responso arriva da un «doppio esperimento per valutare gli effetti del passaggio dall’ora solare all’ora legale e viceversa (in primavera ed autunno rispettivamente)».

Si tratta di una semplice ora, una di quelle tante ore che talvolta perdiamo davanti alla televisione, o in coda alla posta, o soffermandoci davanti alle vetrine; eppure pare proprio che «quello spostamento di una sola ora che tutti tendono a sottovalutare, spiega Till Roenneberg della Ludwig-Maximilian University a Monaco, in realtà ha effetti “dirompenti” sui ritmi endogeni del nostro corpo, che non si risolvono nel giro di qualche giorno come gli esperti tendevano a sostenere».

Infatti «il nostro organismo ha un complesso meccanismo di sincronizzazione regolato dall’orologio biologico che, situato nel nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo e collegato ad orologi periferici dei diversi organi, è fondamentale per mantenere le nostre normali funzioni fisiologiche in sincronia con l’ambiente esterno, per esempio il sonno di notte, la veglia e le diverse performance cognitive durante il giorno. L’orologio è normalmente sincronizzato su un ciclo di circa 24 ore (ciclo circadiano) dettato dall’alternanza luce-buio nell’ambiente. La sincronia si instaura tramite l’informazione luminosa che viene convogliata al cervello tramite l’occhio».

Roenneberg «ha osservato 50 persone per otto settimane nei due cambi di ora annuali, evidenziando che i pattern sonno/veglia subiscono degli scossoni dovuti in parte proprio al fatto che al risveglio non troviamo l’alba, scossoni che si fanno sentire soprattutto tra gli habituè delle ore piccole. Dunque, quel cambio marginale si amplifica nel corso delle stagioni e il nostro corpo, conclude l’esperto, non si adatta affatto ad esso».

Il consiglio degli scienziati, per la verità piuttosto scontato, è quello di dormire di più nel periodo di passaggio tra ora solare e legale (e viceversa).

A prescindere da questo, lo studio e i suoi risultati fanno riflettere anche per un altro aspetto. Quella macchina perfetta che è l’organismo umano, checché ne dicano gli scettici, è capace di mille adattamenti ma risente di modifiche radicali nel suo assetto, e lo fa con reazioni talvolta comprensibili, talvolta inimmaginabili. Questo dovrebbe farci riflettere sull’importanza di tenere in arnese e avere cura di questo strumento prezioso e delicato, per usarlo al meglio e – in caso – prepararlo al peggio.

Ma la questione solleva anche un altro problema. Il cambio dell’ora è forse uno dei più elementari e longevi sacrifici che il mondo occidentale (ma non solo) ha elaborato, da tempi non sospetti, per risparmiare energia o migliorare l’ambiente. La domanda che ci si può porre, visti i risultati della ricerca, è se davvero ne valga la pena.

Fateci caso: in questi ultimi tempi sentiamo lanciare quotidianamente allarmi e snocciolare accorate geremiadi da parte di presunti profeti ecologici, talvolta con poche competenze, capaci di venir smentiti nel giro di poche ore. Talvolta d’istinto, complice una comunicazione che ammanta certi comportamenti come “gesti di civiltà”, si tenderebbe a seguire le indicazioni con slancio, adattandosi di buon grado a “nuovi stili di vita più sostenibili”.

Essere rispettosi e consapevoli, anche sul piano ambientale, è sicuramente civile – e, in ultima analisi, perfino cristiano -, ma in questo come in altri settori un cristiano non dovrebbe mai perdere equilibrio e prospettive: l’ecologia non dovrebbe diventare una priorità, un’ideologia, una religione, un fine cui tendere “per un mondo migliore”, anziché un mezzo per vivere meglio. Di integralismi al mondo, ce ne sono già troppi: non sentiamo proprio il bisogno di aggiungerci i fanatismi verdi.

Padroni del tempo

La Stampa entra nel mondo degli stakanovisti e spiega come “Lavorare sodo senza rimetterci la pelle”. Scopriamo che «nel 2006 i lavoratori negli Stati Uniti hanno passato mediamente in ufficio 1.804 ore. Molto meno di quello che hanno fatto i loro colleghi in altri Paesi. Il record spetta ai coreani con 2.305 ore, che superano i francesi di oltre 300 ore».

L’articolo spiega che «Chiaramente il tempo trascorso sul posto di lavoro non deve completamente annullare la vita privata. Del resto ci sono molti modi per rendere più piacevole (e persino più fruttuoso) il proprio tempo sia in ufficio che fuori» e un esperto ricorda come «Alcune persone si dedicano totalmente al proprio lavoro perché non hanno altri interessi. Trovatevi un hobby e dedicate il vostro tempo a un’attività che vi interessi davvero».

L’argomento torna periodicamente in evidenza, anche se gli italiani certo non brillano per la dedizione al lavoro, almeno a giudicare dal numero di volte che bisogna richiamare quando si telefona in qualche ufficio, pubblico o privato che sia.

Se, insomma, è vero che come italiani la vita sappiamo godercela, come cristiani forse è il momento di fare un rapido check-up della situazione.

Test n. 1: chiediamoci quanto impegno mettiamo nel nostro lavoro: anche se è dedicato a una mansione secolare e operiamo per un’azienda laica, siamo chiamati a esprimere un’etica professionale ineccepibile, brillando per la nostra coscienziosità. Verifichiamo se Dio, quel Dio che – almeno a parole – è al centro della nostra vita, può essere soddisfatto nei rapporti con i colleghi, nel modo di relazionarci, nelle reazioni e nell’approccio al lavoro. Chiediamoci, insomma, se gli stiamo facendo fare una buona figura, o se l’impegno raggiunge appena quel minimo indispensabile che certo non onora noi, né Colui che diciamo di rappresentare.

Test n. 2: una volta usciti dall’ufficio, facciamo mente locale sul nostro tempo libero. Niente di male nel rilassarsi con passatempi, divertimenti, passioni, ma naturalmente tutto dovrebbe avere un suo equilibrio. Talvolta dovremmo trovarci a pensare che quel dono d’amore a Dio chiamato decima (che, a scanso di equivoci, non un obbligo, ma un’offerta responsabile per l’attività cristiana) non dovrebbe riguardare solo l’aspetto finanziario della nostra vita, ma anche le nostre energie e il nostro tempo.
Naturalmente siamo chiamati a lavorare per vivere, e a farlo nel modo migliore possibile; ma, escludendo quella parte della giornata e le necessarie ore di sonno, sul resto del tempo siamo padroni di noi stessi. Come cristiani dovremmo sentirci responsabili di come usiamo questo tempo, e di renderci utili alla causa del vangelo: si tratti di un aiuto a chi soffre, di un servizio alla comunità di appartenenza, della collaborazione con una missione.

Mettere a frutto competenze, conoscenze, “ricchezze ingiuste”, talenti, pazienza e compassione dovrebbe essere un impegno non sporadico, ma frequente e costante. Da portare avanti con la stessa responsabilità che mettiamo, o quantomeno dovremmo mettere, nel nostro lavoro. Nessuno verrà a cercarci, e nessuno ci forzerà. Sta a noi, e alla nostra coscienza, fare questo passo di maturità cristiana impegnandoci, e mantenendo l’impegno.

Messaggi preoccupanti

“L’orientamento sessuale non è una scelta”: è lo slogan scelto dalla Regione Toscana per una campagna di sensibilizzazione contro l’omofobia. Per promuovere il messaggio si è scelta l’immagine di un neonato «sfuocato ed irriconoscibile, con in primo piano il braccialetto in cui è scritto: “Homosexual”», perché «i bambini vanno accettati così. Per quello che sono».

Immancabili i commenti pro e contro: «Raccapricciante: strumentalizzare i neonati per far passare l’idea che le pulsioni omosessuali siano una caratteristica innata dei bambini è un atto fuorviante e vergognoso sotto il profilo scientifico, politico e sociale» commenta Luca Volontè, capogruppo Udc alla Camera. «L’opposto: l’Italia si adegui alla Toscana» gli ribatte il presidente dell’Arcigay nazionale, Aurelio Mancuso.

Non entreremo nel merito della posizione biblica sull’argomento, già affrontata in maniera più che esauriente da libri, commentari, predicazioni: per chi la vuole leggere con un barlume di onestà intellettuale, la Bibbia esprime una posizione chiara. È pur vero, come sbandierano in maniera non poco interessata azzimati intellettuali laici, che la Bibbia insegna l’amore per il prossimo, è altrettanto vero che delinea valori chiari in fatto di morale, valori, orientamenti, passioni, rapporti umani.

Le evidenze scientifiche, per parte loro, non sono così pacifiche, stando ai pareri discordanti tra gli studiosi, e volentieri lasciamo il dibattito stesso a chi di competenza.

Ma non è questo il punto. Probabilmente tutti abbiamo davanti agli occhi quella drammatica immagine mediorientale, dove una madre senza troppo criterio esibiva il bambino mascherato da terrorista suicida. E ciò che turba, anche in questo contesto, è il modo di proporre il messaggio.

Una buona regola giornalistica, oltre che un controverso regolamento pubblicitario, impone di non chiamare in causa i bambini; buonsenso, e forse anche una legge, chiede di non farne strumenti di propaganda nelle manifestazioni pubbliche o per questioni politiche. In Toscana si è riusciti a eludere in un colpo solo ogni paletto.

È preventivabile che a farlo possa essere qualche fanatismo religioso o politico. Sorprende invece che si eludano limiti morali, civili e di buonsenso in nome della tolleranza. La speranza è che la convivenza non diventi la ragione di un nuovo integralismo.

Il sale in zucca

Forse è stato solo per scarsa attenzione, ma sfogliando in questi giorni i comunicati e gli annunci relativi agli appuntamenti del 31 ottobre non ne abbiamo trovato nemmeno uno che, in qualche modo, si ponesse come un anti-halloween. Come sapranno tutti coloro che hanno a che fare con ragazzi, adolescenti e giovani, in giro per le nostre città nella notte a cavallo tra ottobre e novembre pullulano le feste che richiamano le tradizioni pagane nordiche, riprese con sapienza economica dagli Stati uniti e riesportate come business in tutto l’Occidente. È la notte delle streghe, dove abbondano travestimenti e zucche vuote, quasi un secondo carnevale in salsa macabra.

Considerando che varie chiese evangeliche di stampo americano presenti in Italia usano le iniziative della loro cultura (dalla Festa del ringraziamento in giù) per dare un messaggio cristiano, eravamo certi di trovare qualcosa di convincente almeno da parte loro, un’alternativa per i tanti giovani cristiani che, la notte di Halloween, difficilmente resteranno a casa, e in assenza di proposte più sane si aggregheranno alle pantomime pagane dei loro compagni.

Invece, niente. Nessuna manifestazione, nessuna serata, nessuna iniziativa. Poi, sulla Stampa, abbiamo trovato uno spunto: “A Torino la notte dell’anti-Halloween”.
E abbiamo scoperto che ci sarà un momento «dolcetto senza scherzetto, insomma, ma pur sempre condito da giocolerie di strada con la finalità scoperta di far arrivare a destinazione il messaggio evangelico. Già, perché all’una la notte bianca culminerà in una grande celebrazione e una lunga preghiera (fino all’alba)»

L’iniziativa è proposta da una persona con «una vita trascorsa a progettare per gli adolescenti a rischio e non», e «ha aderito poi un significativo numero di associazioni»; spiega l’ideatore che «I nostri animatori indosseranno un maglione bianco e accoglieranno con il sorriso, con il canto e con angioletti di cioccolata bianca chiunque abbia voglia di fermarsi… Vogliamo sottolineare il valore della vita, i suoi aspetti gioiosi».

Il giornalista sintetizza l’obiettivo con un esempio antico: «La speranza degli organizzatori è che possa accadere a molti, nella notte delle zucche illuminate, ciò che accadde a Pelagia in quel tempo lontano ad Antiochia: di entrare in una chiesa… ed essere affascinati dalle parole del Vangelo».

Se qualcuno ha trovato l’iniziativa originale e interessante, volta a un obiettivo ambizioso e sacrosanto, non si scandalizzerà a scoprire che viene proposta dalla diocesi di Torino. O forse sì, da scandalizzarsi ci sarebbe: pare infatti sia l’unica iniziativa del genere in Italia.

Viene da chiedersi dove siano gli altri, a partire dalle tante chiese evangeliche. Chissà, forse nei confronti di Halloween abbiamo troppa paura, o troppa disistima, per prendere posizione: meglio sorvolare, ignorare, stigmatizzare, lasciando andare i giovani dove capita.

Quando la chiesa non c’è, i demòni ballano. E balleranno ancora una volta, mercoledì sera, mentre noi continueremo a chiederci come mai non riusciamo a raggiungere con efficacia una generazione sempre più in crisi.

Chiese e prospettive

Nel suo ultimo lavoro editoriale, “Leggere” (ed. Mondadori), Corrado Augias afferma che bisogna leggere perché “i libri sono belli”. La scorsa settimana su TuttoLibri della Stampa Ferdinando Camon obiettava su questa affermazione citando l’esempio di Thomas Merton: «Merton – scrive Camon – s’è convertito al cattolicesimo perché e voleva convertire il mondo spiegando a tutti che “le cattedrali cattoliche sono belle”».

L’episodio fa sorridere e riflettere. Probabilmente nessuno che sia seriamente intenzionato a diffondere il cristianesimo si sogna di convertire il mondo puntando sulla bellezza delle opere d’arte cristiane. Però capita spesso, anche tra i cristiani più coerenti, qualche errore di mira. Ci è capitato di sentire un noto personaggio affermare che “i culti nella nostra chiesa sono belli perché c’è la musica di Tizio e predica Caio”, e nessuno o quasi ha fatto una piega. I momenti più sintomatici sulla prospettiva cristiana si hanno alle evangelizzazioni. Una chiesa lombarda, tempo addietro, organizzava ogni sabato al mercatino locale una evangelizzazione che ripercorreva in sintesi un culto: “così la gente si fa un’idea dei contenuti”, commentava il pastore.

Altre volte, ed è esempio recente, qualcuno si chiedeva quale sia il limite nell’adattarsi a chi ci sta di fronte: “d’accordo che non si possono dare limiti stilistici, ma una serata di lode da discoteca non fa perdere il senso del contenuto, ossia la lode?”, si chiedeva preoccupato un lettore.

Il problema di fondo, come sempre, non è porre dei limiti: molto dipende dalle intenzioni e dalle infinite sfumature che ogni iniziativa può assumere in un certo contesto e in un dato momento.
Ciò da cui però non si può prescindere è l’obiettivo.

Sarebbe opportuno chiedersi, giorno dopo giorno, per quale motivo evangelizziamo. Qualche giovane di buona volontà, ma piuttosto ingenuo, rispondeva “per portare la gente nella nostra chiesa”, e di conseguenza vedeva impraticabile qualsiasi collaborazione in merito con altre comunità. Se il nostro obiettivo è riempire la sala, siamo solo una delle tante religioni sulla piazza: stiamo facendo proseliti, non discepoli. L’obiettivo di un’evangelizzazione non è riempire le chiese, né presentare una dottrina: è consegnare un messaggio, il messaggio di un Dio che attraverso suo figlio Gesù offre a ogni uomo la risposta ai suoi perché e ai suoi problemi, un Dio che dona una vita nuova, piena, eterna.
La chiave per ottenerla non è “andare in chiesa” o “seguire le regole”, ma avere un rapporto personale, diretto, profondo con Dio dopo aver accettato il sacrificio sostitutivo di Gesù. Sarà questo profondo cambiamento di vita a introdurre i cambiamenti esteriori, non viceversa.

Perdere di vista la prospettiva, confondendo la causa con l’effetto, ci porta a fare l’errore di Thomas Merton. Con l’aggravante che per vedere qualcosa di bello o ascoltare qualcosa di buono ci sono mille posti migliori delle chiese evangeliche.

Un progettista non a caso

“Abbiamo avuto una fortuna cosmica”, titolava Panorama della settimana scorsa presentando il libro di uno scienziato, il cosmologo Paul Davies, dal quale si evince che “le leggi fisiche sembrano perfettamente calibrate per permettere la vita i un pianeta come il nostro”. Panorama chiosa: “Un caso? Un progetto? In ogni caso un enigma”.

A margine dell’intervista vengono segnalati alcuni dati interessanti. Per esempio che “se la forza nucleare forte, quella che lega insieme protoni e neutroni in un atomo, fosse più forte o più debole anche solo del 5 per cento, la vita sarebbe impossibile”; oppure che “se la gravità fosse stata più forte o più debole di una parte su 10 alla 40esima [una cifra infinitesimale], stelle sostenenti la vita come il Sole non potrebbero esistere”; o ancora che “se la forza elettromagnetica fosse leggermente più forte o più debole, la vita sarebbe impossibile”.

Curioso anche constatare che la terra sia, a quanto risulta, l’unico pianeta dell’universo conosciuto ad avere tali condizioni, e quindi capace di ospitare la vita. Certo, lo scienziato ha ragione a cercare una soluzione logica a questa casualità statisticamente così assurda: «Io cerco solo di usare la ragione per capire, senza appellarmi ai miracoli. Certamente avverto nel cuore una sorta di principio vitale che la scienza non ha ancora colto».

Rispettiamo l’impegno della scienza, fino a quando non assume i toni integralisti del fanatismo e della derisione; da parte nostra, da uomini di fede, non possiamo non osservare con soddisfazione che la scienza conferma quanto la Bibbia dice: il mondo pare proprio programmato nei minimi dettagli.

L’onestà che paga

Si legge su Panorama di questa settimana un interessante trafiletto relativo a un locale pubblico in Veneto.

Nessuna campagna pubblicitaria, solo il passaparola. Così è diventata famosa L’osteria senz’oste, primo locale in cui ci si serve da soli e si paga senza che nessuno presenti il conto. In un casolare tra le vigne, a Santo Stefano di Valdobbiadene, nel Trevigiano, si trova l’osteria gestita dai fratelli Cesare e Giacomo De Stefani produttori di salumi.
Chi entra trova la tavola imbandita: c’è da mangiare e da bere e accanto ad ogni prodotto c’è il prezzo. Ci si serve da soli e si salda il conto mettendo i soldi in una cassetta di legno attraverso una fessura su cui è scritto: “L’onestà lascia il segno”. Talvolta sono i clienti a chiudere la porta
.

Spesso i lettori si rammaricano di non leggere buone notizie: eccone una. Non potrebbe non essere una buona notizia sapere che esiste ancora qualcuno che si fida degli altri. La diamo finché siamo in tempo.

Viviamo infatti in un mondo dove essere disonesti è una virtù da esibire e dove “il segno” che ci si vanta di lasciare è in negativo, sia esso con il turpiloquio, con la sopraffazione, con l’inciviltà, con l’esibizionismo molesto, con il pensiero irriverente.

Per l’iniziativa dei due fratelli trevigiani potrebbe quindi marcare piuttosto male. Ma poi chissà: magari, rendendo onore al merito, le persone perbene del Veneto (ci mettiamo dentro anche i cristiani coerenti, naturalmente) potrebbero prendere a cuore la questione e fare dell’osteria, oltre che un piacevole luogo di ritrovo abituale, un punto d’onore per far valere la propria onestà in un mondo che con l’oste non sa proprio più fare i conti.