Archivio mensile:gennaio 2008
Tra rispetto e approvazione
Già, c’è proprio da chiedersi se sia il caso di ridere o piangere: in Gran Bretagna un illuminato ministro – Ed Balls, disonore al demerito – sta per varare una norma che terrà fuori dalle aule scolastiche termini osceni e obbrobriosi come mamma e papà. Sì, le prime parole che impariamo a pronunciare a quanto pare non sono adatte all’uso, dato che – bontà del ministro – risulterebbero discriminanti. Per chi? Per le famiglie omosessuali, ovviamente. Quelle famiglie, che possono contare su due mamme o due papà, ma non una coppia mista, come natura comanda.
Sapendo la mole di lavoro che un amministratore pubblico deve portare avanti, immaginiamo che il problema sia particolarmente urgente, e che quindi in Gran Bretagna siano situazioni ormai comuni e che le coppie di questo genere siano ormai numerosissime. Soprattutto, dato che siamo in democrazia e che quindi l’interesse pubblico si muove anche in base ai numeri, ci fa pensare che l’attenzione per questa particolare categoria sia dovuta al numero delle coppie gay con figli: probabilmente sono più numerose delle coppie divorziate, delle madri vedove e dei figli orfani, che invece potranno continuare a subire la discriminazione di veder richiesta la firma “dei genitori” anziché “del genitore”, o “del genitore” anziché “del tutore”.
Non vogliamo fare i conti in tasca agli inglesi, ma supponiamo che le coppie miste, uomo e donna insomma, saranno una schiacciante maggioranza ancora per un bel po’, per cui forse la legge in questione deve essere più una questione di principio che una situazione di bisogno.
Che la legge debba venire incontro al cittadino è fuor di dubbio, né è cosa nuova trovare soluzioni adatte alle nuove situazioni sociali, e che la sensibilità sia un valore importante: è ormai da decenni che in Italia ci identifichiamo con nome, cognome e data di nascita, anziché con paternità e maternità come avvenuto per secoli, e questo anche per venire incontro a chi, alla voce “padre”, doveva subire l’onta di scrivere “n.n.”, “nescio nomen”.
Niente di nuovo, quindi, anche nell’introdurre nelle leggi un principio di sensibilità; la delicatezza, però, deve basarsi su principi e buonsenso, per evitare di crollare sotto il peso della velleità utopistica.
Evitare di discriminare o di far sentire a disagio chi vive una situazione diversa è sicuramente un segno di civiltà, nei limiti della ragionevolezza; ma, nel caso inglese, non si tratta di evitare una discriminazione, quanto piuttosto di voler far passare la diversità per normalità, valorizzandola. Ma una cosa è la richiesta di rispetto, altra la pretesa di un riconoscimento.
Il punto è proprio questo: ai sostenitori di queste posizioni non basta l’accettazione, l’accoglienza, la disponibilità che la civiltà, l’educazione, la morale ci insegna a offrire. Vogliono poter fare qualsiasi cosa e il suo contrario, vogliono poter contraddire finanche la natura e la scienza, per poi pretendere di venir considerati più normali di noi.
La mezza età anticipata
La crisi dei 44 anni è la crisi di mezza età in versione XXI secolo, stando a una ricerca dell’università inglese di Warwick e del Dartmouth college (USA): i dati relativi a due milioni di persone in 70 paesi indicano i 44 anni come l’età critica, in cui si manifesta “la curva della depressione lungo l’arco vitale”. Insomma, un giro di boa. Non più giovani, ma non ancora vecchi. Ormai sistemati, o almeno si spera, ma non ancora contenti. Con uno o più figli, ma non ancora grandi. Con un lavoro ormai consolidato, ma ancora lontani dalla pensione. A 44 anni non si può più ignorare la realtà: se nei film Raul Bova si concede un amore adolescenziale, nella vita dei più i quarant’anni sono una soglia anche psicologica: le forze ovviamente ci sono ma non si hanno più prestazioni fisiche da ventenne, e si intravede il preoccupante traguardo che gli amici definiscono ingenerosamente “mezzo secolo”.
A metà strada, insomma, da tutti i punti di vista: e una condizione di incertezza come questa rischia di condurre dritti alla depressione.
C’è chi si adatta, chi si ribella, chi non ci pensa. In ogni caso la situazione può non essere facile da affrontare.
Uno degli autori dello studio propone una chiave di lettura per uscirne: ridimensionare in maniera realistica i propri desideri, adattarsi a riconoscere le proprie forze e debolezze, smorzare le aspirazioni irrealizzabili. Ma soprattutto, «imparare la virtù della riconoscenza per quello che si ha». Per dirla all’inglese, “contare le grazie ricevute”. Due consigli preziosi: realismo e gratitudine.
Due buone abitudini che, a ben guardare, sarebbe il caso di sviluppare ben prima dei quarantaquattro anni.
Giovani speranze, giovani delusioni
«A Napoli, giovedì sera, alcune centinaia di giovani si sono dati appuntamento – lo segnala il Corriere – per spazzare i rifiuti che da settimane ammorbano il capoluogo partenopeo dopo un passaparola via internet che ha ottenuto chrca 20 mila contatti». Lo scopo? Ripulire l’ingresso di «un locale molto alla moda tra i giovani trendy napoletani». Per due ore e mezza i giovani si sono messi d’impegno tra sacchi e guanti, liberando l’ingresso.
Lo confessiamo: un po’ ci eravamo illusi. La situazione insostenibile del napoletano pesava anche a chi vive a ottocento chilometri di distanza dai cumuli di spazzatura. Dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche, con i tempi che corrono, non c’è troppo da fidarsi, e abbiamo assistito con un po’ di sano cinismo e molta rassegnazione ai graziosi rimpalli di responsabilità tra commissari, presidenti, sindaci, assessori, responsabili di quartiere, capi della nettezza urbana.
Nell’accettare la realtà che i vertici avevano fallito e non avrebbero proposto nessuna soluzione dignitosa per il futuro prossimo, ci stupivamo di come nessuno ai piani bassi avesse da ridire. Oh sì, ci sono state le manifestazioni disperate dei cittadini di Pianura, ma il resto della città era rimasto – stando almeno alle cronache – pressoché indifferente a una realtà che si faceva di giorno in giorno più critica. E ci chiedevamo cosa avremmo fatto noi. Certo, si fa presto a dire che non avremmo lasciato correre fino al punto di trovarci la porta di casa murata dalla spazzatura, ma in fondo l’essere umano è uguale dappertutto: bravo a parlare, coraggioso quando i problemi sono lontani o toccano altri, timoroso quando ci si ritrova in mezzo. L’unica variante in questo quadro è la disperazione, che quando raggiunge il culmine – perché è invivibile, perché mette a rischio i propri beni, perché tocca i figli – esplode, ma senza risvolti costruttivi: è rabbia pura, la rabbia dei timidi esasperati.
Chissà, forse anche noi in una situazione simile avremmo risolto poco: in fondo, anche in zone più civili dal punto di vista dello smaltimento rifiuti, non abbiamo il coraggio di dire al nostro vicino di casa che è ora di finirla con il menefreghismo, che se vuole ignorare la raccolta differenziata lo faccia almeno con l’accortezza di non farsi beccare, evitando così al condominio fastidiose multe per inadempienza del regolamento comunale. Certo, l’intenzione c’è sempre, ma alla fine nessuno lo fa e l’inciviltà continua, impunita.
Se tanto mi dà tanto, figurarsi se fossimo di fronte a un muro di rifiuti e a responsabilità che escono dal condominio.
In un quadro tanto desolante dove gli adulti sono impotenti, l’unica speranza può venire da chi ha ancora dentro di sé un bagliore di idealismo, unito a quella dose di irresponsabilità che rende capaci di indignarsi fino ai fatti, senza troppa paura delle conseguenze. I giovani, insomma, come ultima speranza. In fondo sono stati loro a scendere in corteo contro la mafia, la camorra, la n’drangheta, le stragi, il pizzo.
Per questo non poteva non rallegrare la notizia che i giovani si erano messi all’opera nel napoletano. Una gioia subito smorzata. Le scuole sono chiuse a causa dei rifiuti. Le strade sono impraticabili. Certe zone sono invivibili. Ma i giovani in questione hanno pensato bene di concentrarsi sulla loro discoteca preferita, sgobbando per due ore e mezza pur di riuscire a entrare. Proprio così.
Si potrebbe parlare di riferimenti sballati, di priorità disorientate, di preoccupante superficialità: chi si preoccupa della discoteca prima di preoccuparsi per la propria casa soffre di una drammatica miopia esistenziale. E allora dobbiamo ricrederci rispetto a qualche settimana fa: il silenzio del napoletano medio non è indifferenza, è mancanza di prospettiva, oltre che di prospettive.
Sull’altro fronte, niente da dire: il duo musicale che ha lanciato l’iniziativa per conto del locale ha dimostrato un’ottima capacità comunicativa, riuscendo a far lavorare gratis i giovani a notte fonda senza nessuna contropartita per poi farli entrare a spendere in discoteca.
Forse, viene da pensare, dovrebbero insegnare il mestiere alle amministrazioni locali, che in fatto di popolarità non sono messe troppo bene e che in quattordici anni – da tanto dura questa “emergenza” – non sono mai riuscite a convincere i napoletani che è interesse di tutti tenere la città pulita.
Il bivio del professionista
Una nuova indagine europea sul mondo del lavoro – proposta da La Stampa – ripropone ancora una volta il classico bivio: carriera o famiglia. I single fanno più strada in ufficio, hanno più motivazioni e meno problemi legati a impegni familiari, e quindi possono dedicare la vita e il tempo all’attività professionale. Il discorso, ovviamente, vale ed è anzi ancora più stringente per le donne.
Che un successo professionale richieda impegno e dedizione è scontato: sperare di fare carriera dedicando al lavoro le energie e gli stimoli che avanzano dal tempo libero non è un buon viatico per avere le giuste motivazioni. Però c’è un limite, sottile e difficilmente individuabile, a partire dal quale non si lavora più per vivere, ma si vive per lavorare. Ossia, quando il lavoro diventa la ragione di vita. Il problema è che spesso succede gradualmente, e non ci si rende nemmeno conto della china. Prima si aggiungono ore di lavoro, poi il lavoro diventa il principale argomento di conversazione anche con gli amici, che peraltro si ha sempre meno tempo di vedere, e a casa; infine diventa una ossessione. Naturalmente i forzati del lavoro hanno una scusa validissima: lo faccio per la famiglia, lo faccio per i figli, lo faccio adesso e tra qualche anno sarò in condizione di smettere.
Che il miglioramento della situazione lavorativa sia un’aspirazione umana è fuori di dubbio, e non è nemmeno sbagliato. Il problema è quando diventa lo scopo della vita, perché evidentemente in quel caso si sono persi di vista, o hanno perso valore ai nostri occhi, gli altri obiettivi. E allora, a quel punto, ubriacarsi di lavoro diventa anche un modo per non sentire l’esigenza di porsi domande più profonde, fare il punto della situazione sulla propria vita. Fermarsi, a quel punto, diventa doloroso: potrebbe significare ammettere un fallimento di vita. Meglio, allora, nei momenti di sconforto, rivedere i propri successi, e inebriarsi un’altra volta con i risultati del proprio lavoro.
Legittimo, per carità. Ma sacrificare gli affetti, le sensazioni, i rapporti umani per il lavoro, è ancora vita?
L’ultimo baluardo
È interessante, anche se non nuovo, il pensiero finale contenuto in una recente intervista a Richard Parker su Europa.
«Negli ultimi decenni abbiamo assistito al fallimento di tre sistemi di pensiero”, spiega il docente universitario ad Harvard: la scienza, il comunismo, il capitalismo. E per questo «la gente si è messa a cercare una diversa architettura di pensiero», che diritti umani, ambientalismo e altri impegni riescono a dare solo parzialmente. L’unica soluzione, da questo punto di vista, per dare un senso alla vita è proprio la “religione”, come la definisce Parker, capace di offrire «una teologia, una comunità e pratiche per rinforzare la fede».
In fondo l’uomo cerca da sempre di dare un senso alla sua vita, un senso che non si limiti alla sopravvivenza quotidiana, e che non si fermi a qualche risultato parziale in termini di ricchezza o di fama. Buona parte degli obiettivi che ci poniamo si dimostrano strumento e non scopo: una volta raggiunti dimostrano di non bastare a riempire la vita, e la corsa ricomincia. Inevitabile, in un contesto simile, chiedersi se esista qualcosa di più, qualcosa di totalizzante, un “kit completo di valori”, per dirla con Parker che non si esaurisca nell’ennesimo miraggio. Facile rendersi conto di come la fede sia l’ultimo baluardo, l’ultima opzione – dopo il fallimento dei grandi miti del Novecento – a offrire risposte e certezze.
Per la politica, la fede è solo uno strumento da usare ai propri fini; per la scienza è sinonimo di illusione e bigottismo. Per questo suona paradossale, sul piano logico, pensare che proprio la fede sia capace di riuscire dove altre dottrine più blasonate hanno fallito. D’altronde la fede ha dato serenità e speranza a decine di generazioni. La politica e la scienza no.
L'ultimo baluardo
È interessante, anche se non nuovo, il pensiero finale contenuto in una recente intervista a Richard Parker su Europa.
«Negli ultimi decenni abbiamo assistito al fallimento di tre sistemi di pensiero”, spiega il docente universitario ad Harvard: la scienza, il comunismo, il capitalismo. E per questo «la gente si è messa a cercare una diversa architettura di pensiero», che diritti umani, ambientalismo e altri impegni riescono a dare solo parzialmente. L’unica soluzione, da questo punto di vista, per dare un senso alla vita è proprio la “religione”, come la definisce Parker, capace di offrire «una teologia, una comunità e pratiche per rinforzare la fede».
In fondo l’uomo cerca da sempre di dare un senso alla sua vita, un senso che non si limiti alla sopravvivenza quotidiana, e che non si fermi a qualche risultato parziale in termini di ricchezza o di fama. Buona parte degli obiettivi che ci poniamo si dimostrano strumento e non scopo: una volta raggiunti dimostrano di non bastare a riempire la vita, e la corsa ricomincia. Inevitabile, in un contesto simile, chiedersi se esista qualcosa di più, qualcosa di totalizzante, un “kit completo di valori”, per dirla con Parker che non si esaurisca nell’ennesimo miraggio. Facile rendersi conto di come la fede sia l’ultimo baluardo, l’ultima opzione – dopo il fallimento dei grandi miti del Novecento – a offrire risposte e certezze.
Per la politica, la fede è solo uno strumento da usare ai propri fini; per la scienza è sinonimo di illusione e bigottismo. Per questo suona paradossale, sul piano logico, pensare che proprio la fede sia capace di riuscire dove altre dottrine più blasonate hanno fallito. D’altronde la fede ha dato serenità e speranza a decine di generazioni. La politica e la scienza no.
Pessimismi e speranze
Stiamo male, e prevediamo di stare peggio. È questo che emerge da un sondaggio Gallup in 60 Paesi, svolto nei mesi scorsi. Il pessimismo la fa da padrone soprattutto in Europa, e ancora di più in Italia.
I motivi? Economici, naturalmente, per buona parte: non sappiamo dove andremo a parare, i giovani capiscono che «siamo il paese che ha rubato di più alle generazioni future» e cominciano a scontare il disagio con la precarietà lavorativa.
Ma non c’è solo la questione economica: significativa la definizione dell’economista Patrizio Bianchi, secondo cui “soffriamo tutti di labirintite sociale, ma non ci sono pioù muri a cui appoggiarci… sono venuti meno i confini e con essi i parametri su cui avevamo poggiato la nostra visione del mondo”. Una situazione che potrebbe essere uno stimolo, ma che invece induce al pessimismo perché mancano istituzioni capaci di essere una garanzia per tutti noi. Lo Stato non c’è più, i poteri locali sono troppo limitati, l’Europa è ancora un’idea più che una certezza: non è un caso che gli intervistati riconoscano credito a insegnanti e intellettuali a discapito dei politici, cui ormai non si ritiene di poter dare fiducia.
“Resta la speranza che qualcuno ci educhi”: che ci mostri il senso delle cose, che ci dia un quadro del tempo che viviamo, che ci indichi sulla mappa la nostra posizione umana, morale, sociale e la direzione per un futuro migliore. Le figure scelte come riferimento sono significative: insegnanti e intellettuali, coloro che posseggono la conoscenza e dovrebbero saperla trasmettere. Non sono, però, solo insegnanti e intellettuali a poter dare una speranza, e sta a noi cristiani dimostrarlo. Nell’assenza di valori, sta a noi dimostrare che la Bibbia ha le risposte, che Cristo è la risposta ai problemi della nostra società.
Sta a noi dimostrare di avere capito le domande e di avere risposte serie, profonde, convincenti, attuali.
Esperienze pericolose
A Torino torna a far parlare il movimento esoterico: la città, tradizionalmente una delle più attive in Italia nell’occulto, ha visto in questi ultimi mesi un ritorno di messe nere, riti satanici, furti sacrileghi in pieno centro.
Le associazioni che si occupano del fenomeno esprimono preoccupazione, come fa Sara Gaelotti del Gris (Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa) in una intervista alla Stampa: «siamo di fronte a un’autentica crisi dei valori di riferimento, soprattutto dei giovani», che sono più fragili e vengono attratti con maggiore facilità da queste realtà pericolose sotto tutti gli aspetti: «i teorici del male offrono ai loro adepti facili soluzioni, scorciatoie illusorie verso una presunta felicità», senza regole da rispettare o coerenze cui tenere fede, senza «impegno, né sforzi di volontà».
E conclude che «il fascino cui soccombono è frutto della loro debolezza interiore, di una confusione morale».
Spesso nemmeno ce ne rendiamo conto: cosa sarà mai – ci diciamo – se i giovani sono ribelli, se non rispettano l’autorità, se hanno un’allergia per le regole. In fondo ci convinciamo che è sempre stato così, è l’età delle sperimentazioni, in cui si cerca una propria identità e un equilibrio. Il problema di fondo, come segnala il Gris, è che le generazioni precedenti avevano dei valori di riferimento; esistevano la famiglia, le autorità, la società che coprivano il loro ruolo in maniera egregia. Dopo le zingarate e le contestazioni i giovani sapevano dove tornare, avevano una piattaforma di cui lamentarsi ma su cui appoggiare i piedi. Oggi questi punti di riferimento stanno cedendo uno dopo l’altro, sconvolti dal relativismo e da una filosofia che ci fa credere sempre giovani, in un’assenza di responsabilità personale, un’eterna gioventù che non ha intenzione di prendere atto dei propri impegni e di arrivare, a un certo punto della vita, a fare da punto di riferimento per chi si aspetta questo ruolo da noi.
Se i padri, oggi, sentono il bisogno di mollare la famiglia e i figli piccoli per mesi non per andare a lavorare all’estero (e quindi a beneficio della famiglia stessa, in un sacrificio consapevole e condiviso di chi parte e di chi resta) ma per “realizzarsi” con una presenza al Grande Fratello, non possiamo stupirci se i giovani poi sono disorientati. Mancano i veri padri, manca quella famiglia cui tornare per trovare serenità, quella famiglia anche da contestare, perché no, ma capace di mettere di fronte al giusto e allo sbagliato, al bene o al male, da cui ricevere il rimbrotto o lo scappellotto al momento giusto. Se l’unica risposta alle domande dei figli è un “vedi tu” accompagnato da un sospiro, un’alzata di spalle di fronte alle stramberie e ai pericoli perché “deve esprimere la sua personalità e fare le sue esperienze”, allora non possiamo stupirci che i nostri giovani siano tentati da esperienze pericolose.
Sobrietà con dignità
In un’America che ha tutto e il suo contrario, dove il consumismo è per molti una dipendenza o una religione laica, non poteva mancare l’apostolo dell’anti-shopping: si fa chiamare reverendo Billy e, fornito di coro gospel, lancia i suoi messaggi davanti ai centri commerciali invitando gli americani a una maggiore parsimonia. Naturalmente non si tratta di un vero pastore, ma di un attore che si è riciclato (è il caso di dirlo) al verbo dell’anticonsumismo, una sorta di Beppe Grillo d’oltreoceano che ammannisce – scrive il Corriere – «il suo messaggio suggestivo e sconclusionato, un miscuglio di azioni dimostrative, sermoni seriosi, sortite paradossali e autoironia». Un personaggio originale che viene peraltro preso sul serio da esponenti religiosi e testate cristiane, ma il cui target principale è il mondo dei no-global, no-logo, un mix di antimodernisti e antisprechi: come i freegans, veri fissati, che rovistano nei bidoni della spazzatura alla ricerca di generi commestibili da utilizzare, e ci sono i Compact, con la loro mania per il riciclo.
La cosa interessante è che non si tratta di barboni, o clochard che dir si voglia: sono persone mediamente benestanti che si sono ribellate alla civiltà dei consumi, all’eccesso, al continuo incedere delle esigenze inutili, fino a trasformarsi in pasdaran della pattumiera.
Che un fondo di verità ci sia, nelle loro convinzioni, è indubitabile: acquisti inutili e sprechi sono all’ordine del giorno, nella nostra società. Che per provarlo e uscirne si debba vivere come disadattati, rovistando nei cassonetti e arrivando a un sorto di voto di povertà laica, è da dimostrare.
Forse, nella loro battaglia ai consumi, otterrebbero più consensi con comportamenti meno appariscenti, che possono provocare un’ondata di consenso ma sono destinati a uno scarso seguito: molti consumatori sono effettivamente convinti di esagerare, ma pochi sono disposti a tuffarsi in un cestino per recuperare il cibo, e probabilmente non lo farebbero nemmeno se avessero fame.
Magari gli integralisti anti-spreco avrebbe più riscontro attraverso la sobrietà di un comportamento responsabile, meno bellicoso e allo stesso tempo capace di proporre soluzioni fattibili ma allo stesso tempo non degradanti. Se l’obiettivo è cambiare il mondo dei consumi, sarebbe utile dimostrare che si può vivere sobriamente anche senza perdere la dignità.
La dura vita di una volta
Siberia: il solo nome evoca ricordi da brivido, in tutti i sensi. Per chi ha studiato prima della caduta del Muro di Berlino la Siberia era il posto più freddo del mondo (guardando l’atlante, però, ci siamo poi accorti di come non sia proprio così), più estremo per condizioni di vita, più lontano da ogni forma di civiltà occidentale.
Poi l’uso che si è fatto della Siberia ha fatto il resto: l’URSS ci mandava i dissidenti che andavano rieducati a forza di lavoro duro e privazioni, e se poi la rieducazione sfociava nella soppressione non era un grande problema, nessuno l’avrebbe probabilmente mai saputo dall’altra parte della cortina di ferro.
Insomma, dire Siberia non è come dire Finlandia o Alaska, è qualcosa di più. Per questo suona singolare la decisione delle autorità dell’Assia, che nell’ultimo anno hanno mandato non uno, ma seicento ragazzi a farsi le ossa nella poco ospitale località russa.
Si tratta, va precisato, di quei ragazzi che noi definiamo, con un eufemismo, “difficili”: un passato e un presente di violenza, prepotenza e sopraffazione verso adulti, coetanei, insegnanti, perfino genitori. I tedeschi, si sa, sono pragmatici, e hanno deciso di ospitare questi giovani in un contesto selvaggio come loro, permettendo loro di incanalare la vivace determinazione – per dirla in italiano politicamente corretto – in funzione della sopravvivenza. E ce ne vuole, di determinazione, per vivere a decine di gradi sottozero, farsi due chilometri a piedi nel gelo per andare a scuola, spaccare la legna, andare in bagno all’aperto (provateci, sottozero).
I risultati dell’esperimento non sono stati resi noti, e a qualcuno è sembrata una mossa politica in vista delle elezioni più che una decisione efficace. Resta il fatto che un’esperienza simile si prospetta come formativa quando gli altri metodi risultano blandi.
Se la priorità è trasmettere un messaggio, dando al ragazzo difficile una nuova possibilità sul piano sociale, è necessario in casi estremi parlare la sua lingua.
E in questo caso – casi rari, grazie a Dio – forse l’unica scuola, per chi da adolescente è già al capolinea, è proprio la vita, con tutti i suoi estremi. Non il riformatorio, non la prigione, che non recuperano ma semmai rischiano di formare al crimine. Per questo l’idea di un periodo di isolamento in campagna, anche in condizioni estreme, non è così assurdo: una vita dura, da reinventarsi ogni giorno, prima di tornare alla normalità con una possibilità nuova di zecca. Con una nuova prospettiva sulla civiltà.