Archivio mensile:febbraio 2008
Meno uguali degli altri
Maurizio Molinari sulla Stampa propone oggi un’intervista con Mike Huckabee, il pastore battista in corsa per le primarie del partito repubblicano. Tra i vari temi di cui parla, immancabile un riferimento alla fede: «La fede è parte integrante della vita degli individui in America come in Europa e in Italia. Ciò che distingue l’America è il non voler imporre la fede ma il problema si pone quando chi ha fede è intimorito al punto da esser portato a non volerla manifestare».
Non volere imporre, ma nemmeno lasciarsi imporre. Dopo secoli in cui era “normale”, “scontato”, vivere ed esprimere la fede, l’epoca attuale ha proposto un livellamento di tutti i credo e i non-credo. Come avviene in circostanze simili a tutte le posizioni maggioritarie, la fede si è trovata doppiamente svantaggiata: innanzitutto perché il primo deve cedere posizioni per fare posto agli altri, e poi perché, a conti fatti, soffre la reverse discrimination di chi – per la posizione dominante che ha rivestito o una parentela influente che lo avvantaggia – si ritrova criticato tanto da non potersi nemmeno esprimersi alla pari.
La fede cristiana, inoltre, ha un vulnus in più: dà fastidio per i suoi valori, i suoi principi, il fatto di avere una direzione. Sintomatico il trattamento subito dal ministro Buttiglione al Parlamento europeo, dove le sue posizioni cristiane sono state considerate indegne della posizione cui si candidava in quanto non abbastanza eque.
Giusto e sbagliato, bene e male danno fastidio per un motivo semplice: perché impongono di avere, e di esprimere, una scala di valori. Una società che vuole permettere tutto a tutti deve invece demolire tutte le certezze, di tutti, per sostituirle con una sospensione di giudizio basata sulla melassa del “chi sei tu per dirlo” e del qualunquistico “ognuno ha la sua via”. In una società politicamente, eticamente, religiosamente corretta (ma la correttezza non è a sua volta una valutazione?) nessuno può esprimere una valutazione sull’altro, perché la diversità non si misura né si pesa.
E invece no. Se c’è libertà di espressione, non deve stupire che i cristiani rivendichino la libertà di esprimere le proprie posizioni. Perché se i portabandiera di ideologie ormai defunte possono continuare a sostenere le loro posizioni fuori dal tempo, se i rivoluzionari possono diffondere impunemente le loro teorie di morte e continuare a insegnare nelle università, se i benpensanti possono sostenere posizioni platealmente contro natura, se gli integralisti vengono invitati ai convegni e osannati come fini intellettuali, se gli incompetenti possono discutere su temi che non conoscono, allora è giusto, doveroso, sacrosanto che anche la fede cristiana abbia lo stesso trattamento. Con i suoi “giusto” e “sbagliato”, i suoi “bene” e “male”, i suoi “sì” e i suoi “no”.
Potranno non piacere, e nessuno chiede che vengano condivisi forzatamente: la sola richiesta è che non venga impedito di predicarli. Perché una società dove chi ha fede deve aver paura di dirlo è un punto cui non vorremmo mai arrivare, e un posto in cui non vorremmo vivere.
Zapping spirituale
Americani in fuga dalla religione: un cittadino su quattro cambia fede almeno una volta nella vita. La chiesa cattolica rischia l’estinzione e si salva solo per l’arrivo degli immigrati latinoamericani, ma anche le chiese evangeliche non se la passano bene: le realtà tradizionali, che 50 anni fa raccoglievano il 66% dei fedeli, oggi attirano appena il 18% dei credenti. Il restante 82% si rivolge alle megachiese che – sono parole del Corriere di oggi – “sposano fede e showbiz e oggi abbracciano il 26,3% della popolazione americana adulta”.
Cambiare chiesa come si cambia canale è ormai una abitudine, specie per i credenti delle comunità non cattoliche. E in un contesto come quello occidentale, dove in ogni cittadina si trovano più chiese che centri commerciali, è inevitabile che ci siano dei flussi nell’una o nell’altra direzione.
Quel che talvolta lascia perplessi sono i motivi. A volte sono più che ragionevoli, come un trasferimento; in altri casi è solo una mancanza di feeling, il non trovarsi a proprio agio a convincere gli incerti a uno spostamento. In altri casi ancora è una questione di moda, quasi si trattasse di un happening artistico più che una funzione di carattere spirituale. La speranza, implicita o esplicita, è che in una chiesa più enfatica, più precisa, più amorevole si possa venir contagiati – a seconda della chiesa – da una maggiore carica spirituale, o da un più profondo desiderio di conoscenza biblica, o ancora da un rinnovato impegno verso gli altri.
Può servire, beninteso, se ci si accorge che la realtà in cui si vive la propria vita spirituale non ha le caratteristiche necessarie a dare il nutrimento e gli stimoli necessari. Ma bisogna anche fare attenzione a considerare con onestà la situazione, evitando di dare alla chiesa le colpe che sono solo nostre.
Spesso il problema che si cerca di risolvere con un cambiamento di solito risiede nella persona più che nella chiesa (o nella famiglia, o nel lavoro) che si lascia: tentare di cambiare la propria situazione con un trasloco spirituale sarebbe come sperare di cucinare meglio semplicemente cambiando un forno che funziona. Può succedere, beninteso, di riuscirci, ma il merito sarà dell’impegno, dell’applicazione, dell’entusiasmo della persona, non del trasferimento.
Se poi il cambiamento diventa un’abitudine, una dipendenza, allora non si può non essere scettici. La fede non è un televisore. Lo zapping spirituale può far dimenticare i problemi, ma non risolverli.
Il cattolicissimo Pelè
«Pelè, 67 anni, annuncia di aver inoltrato le pratiche per il divorzio dalla seconda moglie Assiria Seixas Lemos, 48 anni, con cui era spostato da 13 anni e dalla quale ha avuto i gemelli Joshua e Celeste, oggi 11enni».
Pare che la causa dell’ennesima separazione dell’ex fuoriclasse del pallone sia dovuta all’impegno della signora Assiria, cristiana evangelica che per i gusti di Pelè, risulterebbe troppo praticante. C’è da capirlo: già si ritrova la consorte che frequenta i culti e canta nel coro (“canta inni gospel”, come spiega con affanno Repubblica); già l’impegno della mogliettina in chiesa è “crescente”, stando ai giornali. E ora il povero Pelè, definito “cattolicissimo” dalle cronache, ha tre figli che stanno crescendo, e che a 11 e 13 anni chiedono il battesimo in una chiesa evangelica.
Per inciso: vogliamo infatti sperare che siano stati loro a chiederlo, e Repubblica quindi sbagli quando scrive che la signora Assiria “avrebbe voluto battezzare i figli”. Per i media italiani, d’altronde, parlare di fede e spiritualità è come entrare improvvisamente in un banco di nebbia dove orientarsi a tentoni secondo qualche fuorviante conoscenza della religione maggioritaria.
Tornando alla separazione, è interessante il fatto che al tentativo di riconciliazione «la signora Assiria si è presentata in compagnia di quattro pastori evangelici», nientemeno. Repubblica riporta che sono “pastori della setta a cui appartiene”, tanto per confermare quanto detto in merito alle competenze.
Pelè, tutt’altro che abbattuto dal fallimento matrimoniale, «fa sapere che lancerà quest’anno un cd di canzoni da lui composte e interpretate, al quale parteciperebbero star mondiali del calibro di Mick Jagger e Bono». Segno evidente del suo desiderio di ricostruire il rapporto e della serietà con cui ha preso l’impegno nuziale.
Ricapitolando: lascia la moglie perché questa va troppo spesso in chiesa; si oppone al desiderio dei figli di vivere un’esperienza cristiana; infine, il suo matrimonio va a rotoli e lui se ne va in giro per il mondo a cantare.
Non c’è niente da dire: proprio cattolicissimo, questo Pelè.
La ricerca continua
Chissà quanti di noi, guardando Indiana Jones che riscopriva l’Arca del Patto, si saranno chiesti dove sia finito questo scrigno di legno d’acacia, ricoperto d’oro, con le celebri lunghe stanghe per il trasporto rigorosamente a braccia.
Certo, anche se venisse ritrovata non avrebbe più la potenza e il valore spirituale di un tempo, quando era allo stesso tempo un punto di riferimento e un simbolo dell’appartenenza al Popolo di Dio. Però, che fine ha fatto? Nella Bibbia l’Arca del Patto è a lungo protagonista, poi a un certo punto non la si cita più.
Stando alle versioni più verosimili, è probabile che l’Arca del Patto sia andata bruciata, come tanti altro oggetti di legno presenti nel Tempio, nel V secolo avanti Cristo, durante le devastazioni provocate dall’invasione babilonese. Nel Nuovo Testamento non troviamo cenno alla presenza dell’Arca nel nuovo Tempio: quello, per intenderci, dove Gesù insegnò, quello stesso Tempio che – narrano i Vangeli – vide la cortina squarciarsi alla morte di Gesù.
Certo, lo spirito avventuroso e la fantasia che ci contraddistingue come esseri umani ci porta a sognare una fine meno ingloriosa: magari una sorta di fuga rocambolesca dell’Arca con i suoi custodi, e mille vicissitudini che l’hanno portata in posti sempre più lontani.
E, a vellicarla, ogni tanto spunta qualche archelogo che, tra un Santo Graal e l’altra arca (quella di Noè), punta di nuovo all’Arca del Patto, giurando di averla vista in qualche remota località africana. Ora, addirittura, sarebbe stata ritrovata in un museo: Tudor Parfitt, stimato orientalista di Londra, è convinto di averla individuata nello Zimbabwe, nel cuore dell’Africa, dove sarebbe stata custodita dai discendenti di una tribù sacerdotale ebraica.
Se fosse davvero quella che Parfitt dice di aver individuato, si tratterebbe di una fine ben triste per una star dell’archeologia come l’Arca: dimenticata in un angolo, bruciacchiata e bucata, deposta tra topi e ragnatele. Un finale malinconico per la cassaforte inespugnabile dell’antichità, dove chi osava toccarla restava folgorato e perfino chi sbirciava all’interno faceva una brutta fine.
Finale malinconico, e però improbabile: il nostro avventuroso romanticismo si salva quando notiamo che l’oggetto ritrovato nello Zimbabwe (di cui, peraltro, non viene pubblicata alcuna foto) non risponde ai canoni biblici: è cilindrico e le dimensioni non sono quelle date da Dio a Mosè.
E quindi punto e a capo, si ricomincia a cercare. E a sognare.
Se ci tenessimo davvero
«Nuova condanna per il giudice “anticrocifisso”», titola oggi Il Giornale: il giudice Luigi Tosti è stato condannato a un anno di reclusione e uno d’interdizione dai pubblici uffici. È la pena che il tribunale dell’Aquila ha inflitto al magistrato per essersi rifiutato di tenere udienze in aule dove è presente il crocifisso chiedendo “ripristino della condizione di laicità dello Stato attraverso la rimozione del crocifisso”.
A volte commentare certe notizie mette a disagio. Non tanto perché non si sa quel che è giusto e quel che è sbagliato, ma perché sostenendo certe posizioni ci si trova in cattiva compagnia.
In un paese dove il cattolicesimo non è più religione di stato – e non lo è dal 1985 -, non dovrebbe sembrare un delitto di lesa maestà chiedere che un simbolo del cattolicesimo, e non del cristianesimo tout court, eviti di campeggiare nei luoghi pubblici.
Lo chiedevamo democraticamente a scuola in tempi non sospetti, senza peraltro ottenere grandi risultati, ma quantomeno senza sollevare scandali.
I tempi cambiano: a sostenere oggi una posizione simile, che peraltro continuiamo a considerare ragionevole, si rischia di venire fraintesi. Viviamo in una società che non ha più punti di riferimento, esclusi beninteso il nuovo cellulare e lo schermo al plasma; agli occhi superficiali di chi ci sta vicino il crocifisso è stato assunto, armi e bagagli, a simbolo dell’occidentalità, della tradizione, finanche del patriottismo di fronte all’avanzata islamica da un lato, laicista dall’altro.
Il crocifisso è diventato un simbolo intoccabile, un totem che racconta la nostra storia, àncora il nostro presente e segna il nostro futuro. Una storia, un presente e un futuro che, beninteso, per il resto non hanno mai riscosso grande interesse agli occhi degli italiani.
Se conoscessimo il passato, sapremmo che il nostro passato è indubbiamente cristiano, ma che l’intolleranza non ha favorito, nei secoli scorsi, la crescita culturale e spirituale del nostro paese.
Se ci interessasse davvero il presente, non ci lasceremmo catturare da un paio di slogan sull’Europa cristiana, e approfondiremmo cosa significhi in altri paesi la convivenza multireligiosa: non siamo i primi ad affrontare il problema, e potremmo fare tesoro dell’esperienza altrui anziché limitarci a un’indignazione di maniera.
Se avessimo davvero a cuore il futuro nostro e dei nostri figli, tenteremmo di capire in maniera più approfondita in cosa consista questa spiritualità cristiana di cui si riempie la bocca. Tenteremmo di scoprire in cosa consista il senso della vita per il cristiano che diciamo di essere, anziché limitarci a imbastire la nostra esistenza attorno a qualche scolorito principio preso qua e là – non fare del male, ama il tuo prossimo, sii buono – tanto per tacitare la coscienza; se davvero ci tenessimo al futuro cristiano del nostro paese – e della nostra vita – ci ripugnerebbe l’idea di creare per noi una religione fai-da-te tagliata su misura per le nostre incoerenti situazioni di vita, buona solo per non sentirci in colpa di fronte agli altri. Se ci tenessimo, tenteremmo di capire cosa Dio vuole da noi, prima di stravolgere i concetti definendoci “cristiani non praticanti”.
Se tenessimo davvero, a questo crocifisso, ci dimostreremmo grati per la sua morte e gioiosi per la sua resurrezione, evitando di infangarne la memoria con il nostro comportamento spesso ipocrita, talvolta incivile, sempre egoista.
Ma se ci tenessimo davvero, paradossalmente, non combatteremmo per tenerlo su un muro: se ci tenessimo davvero lo conserveremmo, sì, con cura e rispetto. Ma in un posto che nessuna tempesta culturale e nessuna guerra religiosa potrà mai raggiungere.
Se ci tenessimo davvero non lo conserveremmo su un muro, ma dentro di noi.
I perché di un quarantenne
Ci avrete fatto caso, i quarantenni sono la nuova generazione X, se con questo termine intendiamo una generazione incomprensibile alle altre, criptica, diversa, anomala. Di solito a risultare incomprensibili sono i giovanissimi, direte. Ma i quarantenni di cui si parla, e di cui parlano film e romanzi, si sentono proprio così: giovanissimi. Non hanno voglia di crescere, e anzi hanno paura di fare scelte, prendere decisioni, affrontare conseguenze. Hanno vissuto un’adolescenza dorata, rispetto ai loro genitori: i quarantenni di oggi non hanno fatto il Sessantotto e negli anni di piombo erano bambini o poco più. Per niente contestatori, nel curriculum al massimo qualche sciopero a scuola, giusto per l’emozione di provare qualcosa di trasgressivo, hanno vissuto il loro momento di formazione negli anni Ottanta, quando l’Italia voleva dimenticare i drammi e gli strappi del decennio precedente con un disimpegno tinto di edonismo, tra il mito italiano della famiglia Mulino Bianco e il sogno americano del lavoro che piace e realizza.
Cresciuti tra Milano da bere e uomini che non devono chiedere mai, sono rimasti spiazzati dal crollo del sistema causato dalle inchieste di Tangentopoli. Si sono adattati in quanto a cinismo, ma la ferita è rimasta. Se i loro genitori hanno provato a cambiare il mondo, loro hanno provato quantomeno a cambiare con il mondo. Per certi versi ce l’hanno fatta: sono stati l’ultima generazione in grado di non venire travolta dalle nuove tecnologie che hanno cambiato il nostro modo di vivere, mentre i loro genitori ancora oggi faticano a spedire un sms. Restano però una generazione di passaggio: da un lato gli adulti, ormai maturi, tirati su a obblighi e responsabilità; dall’altro i ragazzini, spavaldi e superficiali, per i quali l’autorità, il rispetto, la serietà sono vocaboli sconosciuti.
Loro, i quarantenni, sono lì in mezzo: incapaci di prendersi le responsabilità dei baby boomers, ma fuori tempo massimo per le ragazzate della net generation.
Per raccontare questo disagio si cita l’ultimo film e romanzo di Federico Moccia, ma è emblematico anche “L’ultimo bacio” di Muccino, che già nel 2000 raccontava l’instabilità relazionale del trentenne con compagna e figlio in arrivo, che si invaghisce di una liceale, o piuttosto di una gioventù che sente ormai irrimediabilmente persa ma mai del tutto conclusa.
E allora, disillusi e un po’ frustrati, i quarantenni fluttuano tra un “lei” d’ordinanza e un “tu” a distanza, senza decidersi sul da farsi. Perché si fa presto a dire “mettere su famiglia”, quando la famiglia è ormai solo una definizione anagrafica. Si fa presto a dire “mettere la testa a posto”, quando si è cresciuti nell’era dell’arrivismo, dove il lavoro era tutto e i rapporti personali erano funzionali al successo. Si fa presto a dire “spiritualità”, quando si è studiato con insegnanti imbevuti del “tutto è politica” e convinti che la fede fosse solo un palliativo per deboli.
Se il quarantenne è drammaticamente incerto, non è solo colpa sua.
Boicottaggi musicali
L’università di Liverpool – segnala Magazine – ha rivelato che su 1064 giovani cantanti anglosassoni, quasi 100 sono morti prematuramente per droga o suicidi: più dei divi del cinema.
Cantanti che cominciano per gioco, e si ritrovano presto in balia di un gioco più grande di loro: una vita che cambia improvvisamente, punti di riferimento che si perdono, compagnie poco raccomandabili, lo stress di una vita monitorata da fan e paparazzi, manager che investono sul personaggio e trattano gli artisti come usa e getta. E una carriera che, si comprende presto, reggerà solo a forza di colpi di scena, da proporre a getto continuo. Così nascono gli eccessi, le bizzarrie, il materiale per cui i giornali di gossip e Internet stravedono. E così ecco che Amy winehouse “sembra trovare sollievo solo nella provocazione”, mentre in generale si riscontra – parole degli esperti – “un terribile vuoto nei cuori e nelle menti delle star”. Una situazione peggiore – almeno per ora – si è riscontrata solo negli anni Settanta, con la morte quasi contemporanea di Jim Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison.
Se le star che si autodistruggono, però, riflette una psicologa su Magazine, è anche colpa nostra: il successo di una star dipende anche “dal suo anticonformismo, dalla complessità del suo carattere”. Meno si comporta in maniera normale, più i giovani si identificheranno con lei. E se il pubblico premia i ribelli, inevitabilmente si creerà un circolo vizioso.
Esulteranno coloro che ritengono tutta la musica secolare degna solo della sentina, in quanto prodotto di menti e cuori fuori dalla grazia di Dio. Naturalmente ognuno è libero di regolarsi secondo coscienza, né manca di rispetto a qualcuno se si tiene lontano dal music business; però, con tutto il rispetto, il discorso è un po’ più complesso.
Certo, di fronte a certi comportamenti e a queste notizie la prima reazione, da consumatori, potrebbe essere quella di non ascoltare più la musica degli artisti dal comportamento indegno: per il loro bene, oltre che per il nostro. Dalla storia e dalla cronaca ci possiamo però rendere conto di come il talento raramente vada di pari passo con l’esempio morale. Volendo scegliere in base all’immoralità esibita, sarebbero pochi gli artisti da ascoltare, come anche gli scrittori da leggere, i frigoriferi da comprare, le bibite da bere senza sentirsi colpevoli. Viviamo in questo mondo, anche se non siamo di questo mondo, e ce ne dobbiamo fare una ragione, evitando generalizzazioni ed estremismi che non potremmo comunque mantenere con coerenza.
Ciò su cui dobbiamo focalizzare nella musica che ascoltiamo sono i contenuti, più che i comportamenti del cantante. Sempre che, naturalmente, quell’artista sia per noi solo un artista, e niente di più.
Perché il vero errore non sta nell’apprezzare un talento, ma nel venerare un personaggio.
La scelta di non scegliere
«Stracciate il certificato elettorale» è la frase del giorno. La provocazione anti-politica di Rosario Fiorello e Marco Baldini fa discutere oggi i politici e i media. L’invito dei due cabarettisti è arrivato sull’onda di un discorso che partiva, tanto per cambiare, dal problema rifiuti in Campania.
«I politici devono fare qualcosa di concreto già prima delle elezioni, e non promettere e basta chiedendo voti», ha continuato Fiorello. Beppe Grillo, altro comico che ha fatto della contestazione la sua bandiera, ha esultato: “finalmente anche lui ha capito”.
A guardare i fatti da fuori, invece, l’impressione è che non si sia colto il nocciolo del problema. Naturalmente non si può non riconoscere che, se si è arrivati a questo punto, sia colpa anche della politica: un Parlamento dove si assiste a urla, sputi, bocche piene di mortadella, cappi e cartelloni come in una qualsiasi curva da stadio non rende onore alla sacralità laica del luogo, né offre motivi per chiamare ancora “onorevole” chi lo frequenta.
Inevitabile notare anche che in questi anni ci hanno abituato al peggio, tra promesse non mantenute, rissosità, privilegi esibiti, piccole sopraffazioni; l’incertezza numerica e una legge elettorale forse inadeguata hanno fatto il resto, portando a un’instabilità politica e a una paralisi decisionale che, purtroppo, scontiamo tutti.
Il senso di sconforto, quindi, è inevitabile per il cittadino comune: attenzione, però, a generalizzare. Abbiamo citato il Parlamento, una delle sedi istituzionali per eccellenza, ma spesso nel protestare si dimentica che molti dei problemi sul tappeto non dipendono direttamente da Camera e Senato.
Il problema dei rifiuti, per esempio, nasce in un contesto prettamente locale: Comune, Provincia, Regione. È fatto di scelte mancate, di silenzi, di accomodamenti, di rimandi, in certi casi perfino di un lucro che sfrutta l’emergenza.
Colpa degli amministratori? Non c’è solo questo. Abbiamo già detto in altre occasioni che per arrivare dove si è arrivati non era sufficiente malgovernare o astenersi dal governare: era necessario che tutti chiudessero gli occhi, cittadini compresi, fino a quando la situazione non si è fatta insostenibile ed è scoppiata la comprensibile protesta. Ma protestare non basta, se è mancato fino a un momento prima il senso di responsabilità nelle scelte. Per arrivare dove si è arrivati è stato necessario avere per quattordici anni un’amministrazione lineare: significa che per almeno tre tornate elettorali gli elettori, nonostante l’emergenza, hanno premiato chi amministrava, riconfermandolo. Si badi, non stiamo dicendo che gli altri avrebbero fatto meglio, ma solo che la soluzione al problema non è non votare: anzi, è proprio il voto a fare la differenza.
La protesta, infatti, si esercita nel momento in cui gli elettori verificano i risultati dei cinque anni di lavoro di un amministratore pubblico e decidono, di conseguenza, la sorte politica di chi ha governato. La democrazia è un privilegio che però, come tutti i privilegi, bisogna saper usare. E saperlo usare significa anche comprendere il senso delle proprie scelte. Abbiamo la libertà di decidere ma siamo responsabili del nostro futuro.
A livello nazionale siamo chiamati a scegliere non chi saprà risolvere un problema locale, ma chi ha le posizioni più convincenti sui temi generali, sui rapporti internazionali, e in particolare sui valori che riteniamo basilari per la società; su questo potremo valutare la posizione di chi si candida, e sarà inutile lamentarsi dopo aver contribuito alla vittoria di uno schieramento che si presenta un programma preciso, composto da proposte che non condividiamo.
A livello locale, invece, non ha molto senso scegliere una bandiera o uno slogan, quanto un candidato con un programma locale convincente. Se poi questo candidato creda o no nell’opportunità di riconoscere il Kosovo indipendente, mi lascerà indifferente: i suoi problemi saranno i trasporti locali, i rifiuti, il piano regolatore, l’approvvigionamento idrico, e così via.
Stracciare un certificato elettorale, come è stato proposto, non fa differenza: anzi, fa il gioco di chi si vuole contestare. Si sa, i voti che non vengono espressi non contano; nelle prime ore dopo i risultati elettorali ascolteremo i perdenti esprimere le consuete parole di preoccupazione relative alla sempre più ampia astensione, e poi tutto tornerà come prima: nei palazzi e, soprattutto, nelle strade, dove nessuno risolverà i problemi che ci stanno a cuore. E allora sarà inutile scendere in piazza. Meglio la cabina elettorale.
Famiglie monoporzione
Essere single costa caro, racconta oggi La Stampa. I single comprano alimenti pronti, verdure già lavate e tagliate, confezioni monodose, che costano molto di più rispetto ai prodotti normali. Inoltre, quando non c’è alternativa e devono comprare le dosi familiari, finiscono per sprecare buona parte del prodotto, con uno spreco che a sua volta incide sul bilancio.
Le famiglie monocomponente, così la burocrazia definisce la situazione di chi vive da solo, sono 5 milioni e 977 mila, oltre un quarto dei nuclei familiari totali. Un decimo della popolazione.
La “singletudine” fino a qualche decennio fa nemmeno esisteva, come concetto, e ora eccola che influenza l’economia. Sì, perché un decimo della popolazione è una percentuale non irrilevante in termini di consumi e di abitudini: se sei milioni di persone preferiscono fare la spesa alle nove di sera, per dire, state certi che i supermercati si adegueranno.
Lo stesso vale per i consumi, che dipendono dalle abitudini di vita e la cui tendenza è già stata adocchiata e agevolata dalla grande distribuzione. Un destino di vita, riflette Bruno Ventavoli sulla Stampa: tenere sotto controllo le scadenze dei prodotti in frigo è stressante, come è stressante, tornati a casa dopo una lunga giornata tra lavoro e traffico, pensare di mettersi ai fornelli. Aggiungete che il valore principale per i single non è il denaro, ma il tempo: di solito chi vive solo si è dedicato alla carriera, e ha quindi una paga più alta; anche se così non fosse, può permettersi di più rispetto a chi, a parità di stipendio, ha una famiglia da mantenere.
Gli esperti di marketing, che la sanno lunga e vedono prima di noi le tendenze, hanno trovato in questa somma un segmento di pubblico decisamente succulento, e hanno lanciato i prodotti monoporzione: salse per una persona, insalate per una persona, piatti precotti per una persona, e così via. Non solo: se il tempo è importante, i single apprezzeranno chi glielo fa risparmiare, a fronte di un modico supplemento: d’altronde non è nata così la moda delle pizze a domicilio? E allora via con i prodotti pronti, precotti, prelavati, pretagliati. E attraenti: al supermercato provate a passare di fronte a una terrina di insalata sottovuoto, con tanto di pomodorini, olive e mais a guarnire la verdura, e vediamo se non vi viene fame.
Tutto pronto, tutto facile: è lo stile gastronomico di oggi, che non riguarda però solo i single. E non riguarda solo la cucina. Ci si può chiedere quante siano le famiglie che, strette nel tetris degli orari di lavoro, palestra, impegni sociali, finiscono per usare la casa come semplice punto di appoggio, più che come luogo di incontro. «Papà? Non lo vedo dall’altro ieri», ci rivelava candidamente un adolescente qualche giorno fa. D’altronde il papà lavora, il figlio va a scuola, quando il padre torna il figlio è già ripartito per le attività pomeridiane, e alla sera quando rientra il padre è già davanti alla tv, o a letto per un meritato riposo.
E allora è inevitabile pensare che le monoporzioni, i cibi precotti, il “pronto subito” non riguardino solo i single in un’Italia che va di corsa, dove due paghe bastano appena, dove ognuno rivendica la sua vita e i suoi spazi. Le monoporzioni rischiano di diventare una filosofia di vita, in un’Italia dove le famiglie sono monocomponente anche quando l’anagrafe sostiene il contrario.
La bugia sdoganata
I bambini mentono per il cattivo esempio che ricevono. È il desolante, e abbastanza scontato, risultato di nuovi studi presentati sul New York Magazine.
Pare che si cominci a mentire a 2-3 anni, e si raggiunga il culmine a 11; a 4 anni lo si fa per paura di essere puniti, a sei per imporsi, nell’adolescenza per ritagliarsi una propria identità.
Mentire viene presentato come un fatto accettabile, e quasi inevitabile: riporta il Corriere che stando a queste tesi «insegnare ai propri figli a comportarsi in maniera “educata”, cioè velatamente ipocrita, avrebbe un effetto boomerang. I bambini crescono con una nozione ambigua dell’onestà come un qualcosa di pericoloso che crea soltanto conflitti. E così le bugie sono un metodo preferibile per mantenere l’armonia sociale e familiare».
Speriamo che le tesi in questione siano azzardate. Altrimenti bisognerebbe concludere che la nostra società vive basandosi sulla falsità. Peraltro sentir paragonare l’educazione all’ipocrisia dimostra una scarsa competenza in fatto di relazioni sociali; oppure – non è detto – gli ingenui siamo noi, che crediamo nella possibilità di essere sinceri.
Forse sarebbe il caso di distinguere sincerità e ingenuità. In fondo già nei Proverbi Salomone segnalava che “lo stolto dice tutto quello che pensa”, e non è intelligente spiattellare tutto quello che si sa.
Non è un problema di sincerità quindi, ma di opportunità: in fondo anche il pettegolo si giustifica affermando che dice solo la verità. Ma raccontare agli altri dettagli scabrosi o inutili, o entrare impropriamente nell’intimità altrui per il gusto di solleticare la malizia, è ancora verità?
Quel che diciamo deve essere vero, ma – direbbe l’apostolo Paolo – espresso con grazia. E detto al momento giusto.
Questo non significa che nel momento non opportuno bisogna mentire, né essere ipocriti: significa semplicemente saper vivere, sapersi relazionare. Una volta ce lo insegnavano da bambini e lo affinavamo con l’esperienza. Viene da pensare che oggi forse, passando da un estremo all’altro, stiamo tirando su una generazione di piccoli selvaggi.
Se nel XXI secolo la bugia viene fatta passare per “soluzione inevitabile” e per verità c’è solo il gossip, allora non sarà facile dare alle nuove generazioni parametri saldi. In questo contesto la verità rischia di venir considerata come un fastidioso limite, anziché venir vista per quello che è: una liberazione.