Archivio mensile:luglio 2008
Ognuno al suo posto
Pierluigi Battista esulta per una decisione presa di recente dal New York Times: «Il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain aveva mandato un articolo e il giornale gliel’ha cestinato. McCain ha gridato alla censura, visto che il suo antagonista democratico Obama aveva ricevuto l’onore della pubblicazione. Ma stavolta la censura non c’entra. C’entra il diritto di un giornale di non pubblicare articolesse smisurate scritte in maniera sciatta, burocratica, pretenziosa, ostica. Come sono sciatti, burocratici, pretenziosi, ostici quasi tutti gli articoli scritti dai politici […] e che troppo spesso i giornali pubblicano per ragioni diplomatiche e malgrado il totale disinteresse suscitato anche nei lettori più indulgenti e ben disposti. Grazie, New York Times».
Battista si oppone a un uso ormai consolidato sulle testate di tutto il mondo occidentale (Italia inclusa): «I politici che inondano le redazioni… vogliono il contatto diretto con il popolo, ma non sanno contenersi e inviano i loro scritti gravati da una lunghezza smisurata e, a loro dire, non riducibile con sani e poderosi tagli. Ciò che si potrebbe dire in dieci righe, i politici lo sviluppano in cento righe. Inzeppano la loro prosa indigeribile di subordinate, di precisazioni, di incisi, di parentesi. Ritengono indispensabile guarnirli con il sapore di proclami altisonanti, premesse magniloquenti, introduzioni più che alate. Farciscono le loro analisi con il lessico più stantio del più orrendo politichese, speziato qui e là con un accademichese altrettanto orrendo e se si può ancora più sussiegoso, gergale. Insopportabile».
Rifiutano le interviste, che “considerano la notizia un’eccessiva semplificazione” del loro pensiero, e «mandano alle redazioni interventi noiosi sotto forma di lettere aperte. Relazioni che procedono per centinaia di righe nel vuoto più assoluto. Se devono replicare a un articolo che non garba loro, usano uno spazio quattro volte superiore a quello adoperato nell’articolo che ha scatenato l’ansia dell’immediata risposta.
La riflessione di Battista ci solleva. Anche noi di evangelici.net, testata secondaria e di nicchia, riceviamo spesso ogni genere di commenti “con preghiera di pubblicazione” da parte di esponenti di chiese, missioni, o da liberi battitori che si considerano investiti da un mandato.
Mandato di cui non dubitiamo, ma che dovrebbero saper limitare con giusta obiettività alla loro chiamata: predicare non è scrivere, evangelizzare non è informare. I commenti, le risposte, le precisazioni che riceviamo troppo spesso risultano verbose e noiose, contengono più citazioni scritturali di uno studio biblico, soffrono di involuzioni, cadono in ingenuità, peccano di una mancata comprensione del contesto.
Siamo una testata di nicchia, ma riteniamo che sia nostro dovere offrire un servizio informativo, specifico ma attendibile, mirato ma non per questo propagandistico. Per questo ci permettiamo di sorvolare su questi interventi; questo provoca inevitabilmente malumori e, talora, qualche protesta.
Da oggi, con tutto il rispetto, potremo dire che lo fa anche il New York Times.
Ritrosie letterarie
Perché i giovani italiani leggono meno dei loro coetanei europei, ma partecipano a numerosi festival culturali? «perché in realtà – commentava Lucetta Scaraffia sul Corriere di ieri – i festival non implicano il leggere, bensì il semplice coinvolgimento inelle più varie manifestazioni, fondate sul semplice ascolto. Ma, si sa, ascoltare è una pratica collettiva, che può essere vissuta come “un’emozione”, laddove leggere, invece, richiede impegno individuale, concentrazione. Ed è proprio questo di tipo d’impegno che i giovani non sembrano avere troppa voglia».
Vero. In questa società rutilante e chiassosa tutte le attività personali, intime, riflessive vengono trascurate: conta apparire e parlare (magari “senza sapere cosa dici”, come recitava un ironico controslogan). Leggere arricchisce, ma non dà la possibilità di dimostrarlo: mica facile, in una compagnia interessata solo agli ultimi modelli di cellulari, intavolare una discussione sul senso della provvidenza nei Promessi Sposi o sul destino infelice di Papà Goriot. E poi, avete mai sentito un tronista o un altro cittadino dei talk-show cimentarsi in una citazione letteraria anche modesta?
La cultura non si esibisce: si coltiva. È un valore aggiunto, non uno scopo. Quindi, non è monetizzabile al cambio dei valori odierni: e se non aiuta a dare visibilità, non serve.
I festival vedono la partecipazione dei giovanissimi, ma nelle librerie e nelle biblioteche il numero dei teenager è desolante. Come dire: se proprio cultura deve essere, che sia qualcosa di spettacolare. Un grande happening, capace di offrire uno spunto di dialogo spicciolo, buono anche in ascensore.
D’altronde “sai chi ho visto?” in termini di attenzione rende certamente più di “sai cos’ho letto?”. E richiede meno fatica.
I veri ingenui
A volte ci si chiede se l’informazione ci somigli, o viceversa.
Su tutti i giornali, oggi, campeggia una notizia che sa di clamoroso: scrive il Corriere che «È arrivato in rete Cuil, ultimo nato nel settore dei motori di ricerca intenzionati a sfidare sua maestà Google».
Si tratta di un sistema che «sarebbe in grado di mappare una porzione di web molto più vasta rispetto a quanto fa Google. Inoltre, a differenza di quest’ultimo, non assegna rilevanza in base al link (caratteristica cruciale di PageRank, il famoso algoritmo su cui si fonda Google), bensì in base al contenuto delle pagine rispetto alla richiesta lanciata dall’internauta. L’aspirante rivale del motore più famoso della rete tiene quindi in considerazione più i concetti alla base delle ricerche di ciascun utente».
Non bastasse questo a impressionare il lettore, il Corriere rincara la dose: «Al momento le pagine indicizzate da Cuil sono oltre 120 miliardi, quindi circa il triplo di quelle dichiarate dal colosso di Brin e Page», ossia Google.
Unico tallone d’Achille, la prova pratica: «Tentando per esempio una ricerca con termini molto popolari, come “Harry Potter”, Google propone circa 113 milioni di risposte, mentre il nuovo motore ne offre più o meno 30 milioni. Inoltre, al momento le ricerche in un lingua diversa dall’inglese sono assai deboli».
In sostanza il Corriere si accorge del fatto che la pratica smentisce gli annunci, e che con i termini in altre lingue va anche peggio, ma lo relega a un mero dettaglio.
Abbiamo provato anche noi, e si potrebbe dire che nessun motore di ricerca è mai sceso così in basso: decine di pagine civetta senza utilità, di quelle che – giustamente – vengono filtrate dai motori di ricerca seri.
È singolare constatare come nella società dell’informazione globale, dove qualsiasi informazione è verificabile in pochi secondi, basti una fola di annuncio per sollevare un polverone ingiustificato. Ancora più sorprendente notare che questo polverone si rivela capace di trascinarsi dietro anche le testate più serie, che a quanto pare sono disposte a credere ciecamente agli annunci: contro ogni evidenza, verifica e sperimentabilità.
E poi gli ingenui saremmo noi cristiani?
Alibi egoisti
Tempi duri negli Stati Uniti, dove anche i ricchi vedono diminuire drasticamente i propri guadagni in seguito alla crisi delle borse, dei mutui, dei fondi.
«Stando così le cose – scrive Massimo Gaggi sul Corriere -, si può essere tentati di concludere che, proprio mentre Bill Gates abbandona la guida di Microsoft per diventare un filantropo a tempo pieno, la crisi del sistema finanziario Usa mette alle corde il “filantrocapitalismo”: l’ambizioso tentativo dei privati di offrire un contributo alla società – dalla cultura alla sanità, dalla scuola alla lotta alla povertà in patria o nei Paesi più poveri – dove lo Stato non arriva oppure funziona male e con pochi mezzi», ma pare non sia così.
È una questione di prospettive: «Gli europei, e soprattutto per gli italiani che da decenni sono abituati ad attribuire tutte le responsabilità in campo sociale al potere pubblico, tendono a vedere nelle difficoltà dei benefattori americani un’ulteriore conferma della superiorità dei loro sistemi pubblici di welfare. In realtà in America gli interventi filantropici sono più che mai vivi e vitali, grazie all’ intervento non solo dei grandi capitalisti, ma anche di milioni di cittadini-donatori: nel 2007, un anno già segnato dalla crisi… i versamenti filantropici sono ulteriormente cresciuti dell’1 per cento in termini reali, superando per la prima volta la soglia dei 300 miliardi di dollari. Anche in un momento difficile, insomma, gli americani hanno dato in beneficenza una cifra pari al 2,2 per cento del reddito nazionale».
E quest’anno non dovrebbe essere molto diverso, nonostante la situazione non sia per niente migliorata.
Viene da concludere che non è un problema di soldi, ma di mentalità. Di fronte alla crisi, gli americani continuano a donare a livelli che gli italiani nemmeno sognano. Vale in tutti i settori: interventi sociali, sostegno ai più poveri, terzo mondo, missioni. Il nostro paese, che pure si fregia della presenza tra i paesi più avanzati (e, di conseguenza, più ricchi) non è in grado di esprimere una liberalità degna del suo ruolo e delle sue possibilità.
Problema di mentalità, si diceva. La mentalità secondo la quale “è giusto che donino coloro che possono”. La mentalità secondo la quale “ora non posso, ma quando potrò…”. La mentalità secondo la quale “ognuno si arrangi da sé”. La mentalità secondo la quale “Do già abbastanza soldi allo stato, ci pensi lui”.
Certo, per essere tempi di crisi, spendiamo in maniera sorprendente per cellulari, schermi al plasma, vacanze. Naturalmente abbiamo tutte le migliori ragioni per farlo: il cellulare vecchio ormai ci stava abbandonando, o magari non aveva quella funzione avanzata che ci era così indispensabile; il televisore ingombrava, e non ci permetteva di poltrire con la dovuta comodità; la vacanza è sacrosanta, dopo un anno speso a lavorare per pagarla.
Le ragioni sono molte, e l’alibi è sempre pronto, quando in fondo all’anima manca il senso di solidarietà. Eppure basterebbe poco: basterebbe rispolverare il dizionario dei sentimenti cercando alla voce “altruismo”.
Ci aiuterebbe a risvegliare la coscienza dal solipsismo così di moda in questi anni, e ci permetterebbe di ritrovare la giusta prospettiva: quella che ci fa sentire parte del mondo anziché il suo centro.
Ubicazioni imbarazzanti
Il Corriere qualche giorno fa raccontava che a Los Angeles, «sul lungomare di Venice Beach, tra hippie attempati e giovani artisti di strada, ubriaconi e veggenti, surfisti a torso nudo e turiste in bikini, sorge una sinagoga ortodossa… orni sabato mattina una cinquantina di famiglie ebree ortodosse, indossati abiti modesti, vanno a pregare alla “Pacific Jewish Sinagogue”. Ma da un paio d’anni, il loro Sabbath è turbato dalla musica sparata ad alto volume dal negozio situato proproi accanto, che ha il nome assai calzante di “Unruly” (sregolato), e dai suoi manichini in tanga allineati all’esterno».
In realtà la sinagoga è una presenza di lunga data nel quartiere, attorno alla quale, nel tempo, è cambiato il contesto. Resta il fatto che deve essere un bell’imbarazzo ritrovarsi a fianco vicino a un edificio religioso un negozio che vende “lingerie strettamente osé”, mettendo all’esterno “manichini esagerati”. La sinagoga non ha, comunque, intenzione di spostarsi: siamo sempre stati qui e ci resteremo, dicono in sostanza i suoi membri.
Viene in mente qualche caso simile, ma opposto: ci sono state chiese che, di fronte a uno spazio disponibile, non hanno disdegnato di prendere posto nei paraggi di negozi osé senza crearsi particolari problemi.
Forse è stato un eccesso di disinvoltura, o una drammatica ingenuità; magari si è trattato solo di una sensibilità missionaria particolarmente spiccata.
Resta il fatto che risulta imbarazzante, per un ospite alla prima visita, trovare le indicazioni per raggiungere la chiesa proprio accanto all’insegna di un negozio osé.
Cosa dire, come dirlo
Ieri ho assistito a un recital. Originale, in campo cristiano, come forma di comunicazione artistica: a colmare la lacuna ha pensato Chris Burnett, eclettico americano che vive da anni nel nostro paese, e che ha dimostrato una capacità di adattamento e di comprensione non comuni (detto per inciso, forse è una questione di approccio: non è arrivato in Italia da missionario ma da “semplice” credente, e forse in questa prospettiva l’integrazione è più agevole).
Non è facile costuire uno spettacolo, questo lo sanno tutti. O almeno, tutti coloro che sanno cosa sia uno spettacolo, e non pensano che improvvisare sia la scelta migliore per qualsiasi evenienza, dalla predicazione ai concerti.
Un recital, forse, è qualcosa di ancora più complicato: richiede non solo performance convincenti, ma anche un calibrato equilibrio tra parole e musica e una buona capacità di concatenare le singole performance dando alla storia un filo logico.
Le parole adatte e il tempismo adeguato, insomma. Chris, insieme a sua moglie Erma e accompagnato da Andrea di Francia alla batteria, c’è riuscito, e ha costruito una serata sobria, piacevole, convincente. E toccante. Ha raccontato la sua storia di “bravo ragazzo” che, dietro le quinte, viveva tra contraddizioni e ipocrisie. Per tutti era un bravo cristiano: il segreto del suo disagio lo nascondeva dentro di sé, «ero un primo della classe – come ha spiegato con una metafora – ma la mia vita non era un 30 e lode, quanto un 29. Mi mancava sempre qualcosa».
Quel qualcosa lo ha trovato in un’occasione spiacevole: la morte di un suo amico, partito missionario per le Filippine e stroncato in poche ore da un virus. Una vicenda che ha colpito Chris e lo ha fatto riflettere, fino a portarlo a quella scelta di vita che lo ha reso veramente un cristiano.
Non è facile raccontare una vicenda così complessa, vissuta in prima persona, in maniera ordinata ed efficace, senza cadere nella tentazione di giocare sul senso di pietà o sul sentimentalismo: e forse proprio per questo la serata ha toccato i presenti.
Non c’è stata una predicazione, non c’è stato un appello, non ci sono state scene di commozione. Qualche tradizionalista resterebbe perplesso per questo.
Eppure la partecipazione del pubblico alle riflessioni di Chris si percepiva attraverso un silenzio irreale che testimoniava un’attenzione non di maniera.
Si può parlare di Cristo senza scadere nelle solite formule? Pare di sì. Anche se è raro.
Cosa dire, come dirlo
Ieri ho assistito a un recital. Originale, in campo cristiano, come forma di comunicazione artistica: a colmare la lacuna ha pensato Chris Burnett, eclettico americano che vive da anni nel nostro paese, e che ha dimostrato una capacità di adattamento e di comprensione non comuni (detto per inciso, forse è una questione di approccio: non è arrivato in Italia da missionario ma da “semplice” credente, e forse in questa prospettiva l’integrazione è più agevole).
Non è facile costuire uno spettacolo, questo lo sanno tutti. O almeno, tutti coloro che sanno cosa sia uno spettacolo, e non pensano che improvvisare sia la scelta migliore per qualsiasi evenienza.
Un recital, forse, è qualcosa di ancora più complicato: richiede non solo performance convincenti, ma anche un calibrato equlibrio tra parole e musica e una buona capacità di concatenare le singole performance dando alla storia un filo logico.
Le parole adatte e il tempismo adeguato, insomma. Chris, insieme a sua moglie Erma e accompagnato da Andrea di Francia alla batteria, c’è riuscito, e ha costruito una serata sobria, piacevole, convincente. E toccante. Ha raccontato la sua storia di “bravo ragazzo” che, dietro le quinte, viveva tra contraddizioni e ipocrisie. Per tutti era un bravo cristiano: il segreto del suo disagio lo nascondeva dentro di sé, «ero un primo della classe – come ha spiegato con una metafora – ma la mia vita non era un 30 e lode, quanto un 29. Mi mancava sempre qualcosa».
Quel qualcosa lo ha trovato in un’occasione spiacevole: la morte di un suo amico, partito missionario per le Filippine e stroncato in poche ore da un virus. Una vicenda che ha colpito Chris e lo ha fatto riflettere, fino a portarlo a quella scelta di vita che lo ha reso veramente un cristiano.
Non è facile raccontare una vicenda così complessa, vissuta in prima persona, in maniera ordinata ed efficace, senza cadere nella tentazione di giocare sul senso di pietà o sul sentimentalismo: e forse proprio per questo la serata ha toccato i presenti.
Non c’è stata una predicazione, non c’è stato un appello, non ci sono state scene di commozione. Qualche tradizionalista resterebbe perplesso per questo.
Eppure la partecipazione del pubblico alle riflessioni di Chris si percepiva attraverso un silenzio irreale che testimoniava un’attenzione non di maniera.
Si può parlare di Cristo senza scadere nelle solite formule? Pare di sì. Anche se è raro.
Antenati come armi
«Fuorilegge del west: così risulta essere il nonno materno del candidato repubblicano John McCain nei primi anni del Novecento. Non un cow boy killer alla Billy the kid né un ladro di bestiame, ma il classico spacciatore di alcool, giocatore d’azzardo, sfruttatore degli indiani e speculatore del petrolio di mille film western», scrive il Corriere oggi.
Ben strana la società americana. Da un lato chiunque può realizzare il sogno di diventare presidente partendo da umili origini (anche se, a ben guardare, avere una famiglia potente è d’aiuto); dall’altro ogni errore viene ricordato per decenni, a prescindere dalla sua gravità e dal contesto.
Gli americani hanno votato George Bush junior, ma non hanno dimenticato – e perdonato – il frequente stato di ebbrezza che ha caratterizzato la sua adolescenza. E così per i trascorsi politici, familiari, umani.
A ogni tornata i candidati alla presidenza USA vengono analizzati ai raggi x sotto tutti i punti di vista, e nessuno si scandalizza di questo: anzi, la pratica viene considerata una garanzia di trasparenza su colui che dovrà guidare il Paese e, per certi versi, il mondo intero. Arrivare ai nonni, però, è piuttosto raro. Tutto sommato, anziché rammaricarsi, McCain dovrebbe considerarlo un motivo d’orgoglio: se è così irreprensibile da richiedere ricerche genealogiche per scoprire qualcosa di scandaloso, forse è davvero sulla buona strada per la Casa Bianca.
Scomodo, ma a me piace
Non è il numero dei partecipanti. E forse nemmeno il posto. Quello che mi piace di Christian Artists, e che mi ha riportato ancora una volta in quel di Acquasparta, è il clima.
Quel clima di allegria che risuona nelle risate fin dal mattino; quel clima di creatività che si percepisce nei rapporti con gli artisti, tra dialoghi e spunti di riflessione; quel clima di serenità che si respira fino a notte fonda, tra seminari e spettacoli.
È una ricchezza intellettuale che distingue Christian Artists da ogni altro “campo biblico” – sia detto con tutto il rispetto possibile, naturalmente -, che permette a persone completamente diverse per provenienza culturale, preparazione, talento, percorso di fede, appartenenza denominazionale di trovare un comune denominatore in Cristo.
Proprio come dovrebbero fare sempre i cristiani, direte voi. Esatto. Proprio come dovrebbero, e come raramente fanno. Non sono molte, purtroppo, le occasioni di incontro tra cristiani di realtà diverse che si sentono uniti da uno scopo comune; sono rare le riunioni, talvolta anche di grande impatto, che non siano mere celebrazioni di una unità ancora solo teorica, e siano invece mirate alla concretezza di una comunione spicciola e quotidiana.
Christian Artists è così: dialoghi con il performer battista, chiacchieri con il tecnico pentecostale, scherzi con l’oratore “dei fratelli”, in un clima di sintonia che potrebbe suonare quasi irreale, o forse falso, a leggere le cronache evangeliche del nostro tempo.
Non solo. Da quando si è trasferito in Umbria, ospite di un borgo medievale che i bravi presentatori definirebbero “splendida cornice”, Christian Artists ha una marcia e un impegno in più: dimostrare concretamente quell’amore, quella nuova vita, quella gioia che – almeno a parole – caratterizzano il cristiano “nato di nuovo”, quel cristiano che – per intenderci – ha vissuto un’esperienza di fede e in seguito a questa ha fatto una scelta di vita cristiana.
Perché è facile parlare di fede tra noi, in una autoreferenzialità che si autoalimenta e che, giorno dopo giorno, ci chiude al “mondo”, impedendoci di comprendere le necessità e le speranze di chi ci sta attorno. È facile autocompatirsi su quanto poco siamo compresi o su come sia difficile il terreno di casa nostra (fateci caso: avete mai sentito una chiesa dire che nella sua città la gente è sensibile e ben disposta verso il messaggio di speranza della fede?).
Il difficile è sforzarsi per farsi capire. Perché, per farsi capire, è necessario prima capire. Capire gli altri, quegli “altri” da cui ci astraiamo per immergerci nelle oasi dei ritiri spirituali o dei campi biblici.
A volte, con il nostro modo di fare, ricordiamo da vicino la pubblicità di quella coppia che, tornata dalla crociera, vive con disperazione la banale quotidianità ritrovata a casa propria. Anche noi cristiani torniamo a casa dai ritiri spirituali e ci sentiamo “ristorati”, ma ben presto il ristoro si trasforma in frustrazione per il contesto ostile con cui dobbiamo fare nuovamente i conti ogni giorno. La quotidianità è un contesto troppo diverso dall’atmosfera delle giornate felici passate lontane dal “mondo”, specie se il ritiro spirituale non ci ha arricchito di elementi nuovi, capaci di cambiare la nostra prospettiva sulle cose e quindi la nostra capacità di intervenire sul contesto in cui viviamo.
Christian Artists, al contrario di molti ritiri, non è una vacanza: forse per questo non è così popolare. A Christian Artists ci si riposa, ma è un riposo attivo, dove gli stimoli sono continui. Scomodo? Certo, un ritiro spirituale è più comodo: ad Acquasparta siamo chiamati a rendere conto della nostra fede – per dirla con San Paolo – ogni giorno. Al bar del paese, in lavanderia, in piazza. La gente ci guarda, sa chi siamo, e aspetta di vedere se quella fede di cui parliamo è proprio qualcosa che vale la pena vivere, o se è solo un’altra forma di religiosità, magari un po’ più intensa, ma che non cambia davvero la vita.
Sta a noi dimostrare che la nostra vita è differente. Ma non a parole: con i fatti. Aiutati certamente da un contesto di seminari, corsi, incontri, ma da applicare poi alla vita di tutti i giorni. E subito. A Christian Artists la vita non viene sospesa artificiosamente per una settimana, ma continua giorno per giorno in un contesto umano fatto di incontri, di contatti, di sorrisi, di parole.
Per questo Christian Artists mi piace. Mi dispiace solo che pochi abbiano compreso il valore del progetto, perdendo l’occasione per un ritiro spirituale diverso dal solito, ma non per questo meno intenso. Anzi.
Il predicatore della A3
Istruttiva, come spesso accade, la puntata di “La Storia siamo noi” sulla Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada infinita, interessante specchio del nostro paese tra ritardi, incapacità, approssimazione.
Tra le tante vicende umane raccontate – protezione civile e carri attrezzi sempre presenti sul percorso, autisti inviperiti, code pazienti – compare anche “un predicatore evangelico”, che – spiega il servizio «ha individuato la Salerno-Reggio Calabria, vista la sua altissima densità umana, come luogo ideale per diffondere la parola del Signore».
Si ferma su una delle piazzole di sosta con il suo furgone bianco caratterizzato sui lati dalle scritte “Solo Gesù salva” e “Gesù è la via, la verità e la vita” e aspetta: «Quando mi fermo in qualche area di servizio ognuno fa una domanda, e io gli do la risposta. Sono uno che crede in Gesù Cristo, e ho fede in lui; il Signore ci ha dato anche il compito di distribuire la sua Parola», spiega l’anonimo e bonario evangelizzatore, che poi riassume in breve la sua esperienza di fede davanti alla telecamera. E, parlando di un’autostrada in costruzione, non può non concludere con una battuta: «ci saranno sempre interruzioni» sulle strade, dato che «vanno sempre allargate; ma se parliamo delle strade, a noi interessa una unica strada: Gesù».
Niente da dire: ruspante ma efficace.