Archivio mensile:febbraio 2009
Felicità gonfiate
«Nel mondo dello spettacolo rifarsi è un’ossessione. La plastica in tv mette in moto una reazione a catena: mi arrangio con il botulino, ma non so quanto resisterò»: parole di una starlette nota al pubblico italiano. Ai suoi esordi, nelle interviste, erano per lei motivo di vanto le sue vistose protesi mammarie, dichiarando che aveva deciso di maggiorare le sue misure per per ottenere la notorietà.
Qualche lustro dopo la ritroviamo a lanciare l’allarme: dei suoi pregi acquisiti parla oggi come di un drammatico circolo vizioso, che costringe al rilancio continuo per non cedere ai segni del tempo. I suoi punti di forza sono diventati allo stesso tempo un idolo e una dipendenza (“un’ossessione”).
Una situazione drammatica sul piano umano, perfino disperata sul piano estetico («mi arrangio con il botulino, ma non so quanto resisterò»), che presenta tristemente il conto alle dichiarazioni ammiccanti e sostenute dell’epoca, quando alla soubrette sembrava sarebbe bastata qualche misura in più per essere felice.
Chissà se oggi, risvegliata dall’anestesia cui la celebrità l’ha sottoposta, ha colto la falsità dell’accostamento tra la felicità – quella vera – e fama, denaro, eccessi.
Chissà se, delusa da una vita a fondo cieco, avrà il coraggio di cercare una via alternativa, o se invece vorrà rilanciare fino all’ultimo, nella disperazione di una decadenza che i continui interventi estetici accelereranno.
E chissà se la sua (triste) vicenda potrà essere un monito per chi continua a vedere nel personaggio televisivo un essere che rasenta la perfezione, da mitizzare e invidiare, o per chi aspira a entrare nel rutilante mondo dello spettacolo.
L’ossessione della religione
«A Gerusalemme – racconta il Corriere -, gli psichiatri hanno individuato e pubblicato su una rivista scientifica la loro ricerca sulla “sindrome da preghiera compulsiva”. Una forma d’ossessione che prende seminaristi di collegi rabbinici».
Al momento all’ospedale ci sono «tre casi che definiscono “interessanti”. Uno riguarda un ragazzo di 18 anni: “Questi pazienti sono ossessionati da domande che ripetono: Ho avuto pensieri eretici?, oppure Dio è soddisfatto di come prego?”».
La cura scelta per questi casi è “omeopatica”, legata al problema: «Organizziamo colloqui sulla fede e cerchiamo di cambiare la loro prospettiva, per esempio rimuovendo la paura d’una punizione divina se non s’è pregato come si deve».
«Il problema per i medici, però, è che serve una preparazione teologica profonda, per affrontare discussioni con studiosi dell’ebraismo. “In effetti, dobbiamo essere pronti un po’ su tutto. Quando non ci arriviamo noi, ci facciamo aiutare da alcuni rabbini”».
Quando la fede diventa religione, la spiritualità può diventare psicosi o mania. Faremmo bene a ricordarlo sempre. Non a caso la Bibbia non ci chiama al rispetto di una serie di regole divine, ma a un rapporto personale con Dio: rapporto agevolato da un approccio sano e consapevole alla vita e a un rispetto dei sui suoi principi, ma che non deve mai diventare lo scopo della nostra esistenza.
Confondere fede e religione è come invertire causa ed effetto: amo Dio, e per questo lo seguo, mi adattando alla sua volontà – per il mio bene, oltretutto – facendola sempre più mia. Ma al centro della mia vita non c’è un insieme di norme: c’è Dio.
L'ossessione della religione
«A Gerusalemme – racconta il Corriere -, gli psichiatri hanno individuato e pubblicato su una rivista scientifica la loro ricerca sulla “sindrome da preghiera compulsiva”. Una forma d’ossessione che prende seminaristi di collegi rabbinici».
Al momento all’ospedale ci sono «tre casi che definiscono “interessanti”. Uno riguarda un ragazzo di 18 anni: “Questi pazienti sono ossessionati da domande che ripetono: Ho avuto pensieri eretici?, oppure Dio è soddisfatto di come prego?”».
La cura scelta per questi casi è “omeopatica”, legata al problema: «Organizziamo colloqui sulla fede e cerchiamo di cambiare la loro prospettiva, per esempio rimuovendo la paura d’una punizione divina se non s’è pregato come si deve».
«Il problema per i medici, però, è che serve una preparazione teologica profonda, per affrontare discussioni con studiosi dell’ebraismo. “In effetti, dobbiamo essere pronti un po’ su tutto. Quando non ci arriviamo noi, ci facciamo aiutare da alcuni rabbini”».
Quando la fede diventa religione, la spiritualità può diventare psicosi o mania. Faremmo bene a ricordarlo sempre. Non a caso la Bibbia non ci chiama al rispetto di una serie di regole divine, ma a un rapporto personale con Dio: rapporto agevolato da un approccio sano e consapevole alla vita e a un rispetto dei sui suoi principi, ma che non deve mai diventare lo scopo della nostra esistenza.
Confondere fede e religione è come invertire causa ed effetto: amo Dio, e per questo lo seguo, mi adattando alla sua volontà – per il mio bene, oltretutto – facendola sempre più mia. Ma al centro della mia vita non c’è un insieme di norme: c’è Dio.
Desideri senza limiti
Chissà perché, nella nostra società, esistono personaggi che non sono disposti a fermarsi nemmeno di fronte ai drammi umani.
Del caso di Eluana Englaro si è voluto fare un simbolo, un paradigma, travalicando l’interesse della paziente e il suo diritto a un dignitoso silenzio. Non sono mancati, attorno al padre, personaggi più o meno attendibili, pronti ad affannarsi con dichiarazioni avventate – o quantomeno dubbie – in cerca di una visibilità pelosa che odora di sciacallaggio.
Ora emerge il caso di una donna che vuole un figlio dal marito in coma, malato di tumore al cervello. Poteva essere l’occasione per dimostrare che dal caso Englaro si era imparato qualcosa, e invece no.
La Repubblica scrive che «Antinori è arrivato come un ciclone al Policlinico San Matteo di Pavia, dopo che l’ospedale aveva dato l’ok al prelievo di liquido seminale».
Si tratta, spiega il quotidiano, del «professor Severino Antinori, il ginecologo-star, esperto di fecondazione assistita».
Se sia lecito, legale, etico non conta molto per il luminare, che – stando a Repubblica – ha espresso un bellicoso: «E adesso si va avanti. Voglio vedere come ci possono fermare».
Se sono davvero parole sue, il quadro è preoccupante. Una vicenda simile richiederebbe delicatezza e tatto.
Forse sarebbe stato il caso di chiedersi se la visibilità, i riflettori, il rumore dei media facciano l’interesse del paziente o del medico.
Forse bisognerebbe chiedersi se, magari inconsciamente, dietro a una dichiarazione come «procederemo alla fecondazione, secondo una nuova tecnica che ho sviluppato io stesso» non ci sia brama di apparire, più che interesse scientifico.
Per il momento nessuno si chiede nulla. Tutti a rivendicare i propri diritti e a perseguire i propri desideri, a costo di forzare i limiti, pur di raggiungere l’obiettivo. Come in un dibattito, il risultato finisce per non contare più: l’importante è ribadire le proprie ragioni a prescindere da una serena riflessione sulle motivazioni che spingono in una direzione, e le conseguenze che le scelte potranno avere a breve, medio, lungo termine.
Vale la logica del talk show, dove chi parla più forte ha ragione, e chi tace ha torto. E ad avere torto è il nascituro, che per ora esiste solo nei pensieri dei contendenti e che pare al centro dell’attenzione, ma sul cui triste futuro da orfano annunciato nessuno si interroga.
Luca, Povia e la polemica inutile
Il brano di Povia? Tanto rumore per nulla, avrebbe sintetizzato Shakespeare.
Per chi non fosse al corrente delle vicende sanremesi, in questi mesi si è fatto un gran parlare di Giuseppe Povia, giovane (ma non giovanissimo) cantautore di moderata ispirazione cristiana, portatore di una salutare vis polemica capace di far riflettere chi lo ascolta.
Lanciato da Bonolis qualche anno fa fuori concorso con la celebre “I bambini fanno ooh”, è tornato a Sanremo l’anno successivo cantando “Vorrei avere un becco”, inno all’amore coniugale che, quando è maturo, sa superare con disincanto le difficoltà.
Povia quest’anno è tornato a Sanremo con un brano dal titolo scioccante: “Luca era gay”. Prima di sentire una sola nota, e perfino prima di aver letto il testo (diffuso solo nei giorni scorsi), l’Arcigay ha scatenato una violenta polemica, tacciando l’artista di omofobia per aver parlato di “guarigione” dalla condizione omosessuale.
Martedì sera verso mezzanotte, finalmente, il momento della verità. Povia sale sul palco e propone un brano dal testo molto poco scandaloso. O, almeno, molto meno volgare degli eccessi riscontrati alle parate di settore.
Nel testo il protagonista del brano precisa: «questa è la mia storia, solo la mia storia/ nessuna malattia, nessuna guarigione».
Un messaggio chiaro, che disinnesca di fatto buona parte delle polemiche sviluppate sul nulla di un’ipotesi.
L’ascolto però non è bastato a sgonfiare il caso. Né è bastato a rabbonire Grillini, presidente onorario dell’Arcigay, che in sala ha avuto modo di dissentire dapprima a gesti – enfatizzati ampiamente dall’occhio attento delle telecamere – e poi con un intervento vero e proprio.
A guardare la serata nel suo complesso, pare quasi si sia voluto creare attorno a Povia un cordone sanitario: verso le 23 Benigni ha voluto chiudere il suo exploit con un richiamo alla dignità di ogni tipo di affettività, recitando una lettera di Oscar Wilde; poi, una volta terminato il brano di Povia, è stato l’onorevole Grillini a chiedere la parola per un commento sviluppato con garbo e concluso purtroppo rinfocolando la stanca polemica.
Curiosamente il caso Povia è stato costruito sul nulla, ma ci hanno guadagnato tutti: l’Arcigay, che ha guadagnato altra visibilità; il cantante, che fino all’ultimo ha mantenuto il riserbo sul testo dando la stura a una ridda di ipotesi sui contenuti del brano; e ci ha guadagnato ovviamente Bonolis, bravo a costruire, montare e mantenere una storia nella storia capace di catalizzare l’attenzione del pubblico, con ripercussioni positive sugli ascolti televisivi.
Mentre il caso mediatico si avvia alla conclusione, la polemica offre lo spunto per una constatazione. Sul metodo, più che sul merito.
Ormai è assodato: non si può uscire dal coro per esprimere posizioni non convenzionali, su qualsiasi differenza e minoranza, senza il rischio di passare per razzisti.
Forse è vero che la normalità non esiste, o quantomeno che ormai è solo una tra le tante minoranze. Se è così, però, non si può non notare che si tratta dell’unica minoranza a non avere il diritto di esprimere liberamente i propri pensieri, i propri timori, i propri valori.
Sarà anche una questione libertà. Ma suona tanto come un paradosso.
Quella vita negata
Scusate se parlo di nuovo di lutti, evidentemente è un periodo un po’ così.
Ieri ho assistito a un funerale: un ragazzo di diciassette anni, mancato in seguito a una complicazione cardiaca.
Si chiamava Maurizio, e non lo conoscevo personalmente. L’ho conosciuto attraverso le parole di chi gli voleva bene: i suoi familiari, innanzitutto, e poi i compagni di scuola, gli amici, gli educatori che lo hanno seguito negli anni di oratorio.
Hanno ricordato un ragazzo pieno di vita, dolce, simpatico, di una fisicità imponente ma innocua: il classico gigante buono cui non si poteva non volere bene.
Al cimitero mi ha colpito una scena in particolare: la madre in lacrime, sola sul bordo della fossa che si andava riempiendo, quasi a voler abbracciare fino all’ultimo, anche solo con lo sguardo, il feretro del figlio.
Deve essere dura. Allevi un figlio, soffri con lui, gioisci dei suoi progressi. A diciassette anni, nel pieno dell’età, quando i progetti cominciano a farsi realtà e la sua vita sta per spiccare il volo, si conclude improvvisamente il suo percorso terreno. E tu non puoi che piangere.
Maurizio mi ha fatto riflettere. Descritto da tutti come solare e pieno di vita, mi ha fatto riflettere su quanti giovani, alla sua età, trascinano le giornate senza scopo, in compagnie balorde cimentandosi in prodezze volgari o addirittura criminali; oppure si isolano nella loro realtà virtuale, finendo per perdersi nel loro mal di vivere.
Talvolta la chiamiamo ironia della sorte: da un lato i giovani che buttano via la loro vita, fino al gesto estremo di rifiutarla definitivamente; dall’altro i loro coetanei che, anche di fronte a gravi malattie, alla sera sono soddisfatti per il fatto di aver spostato ancora una volta il confine della loro vita, guadagnando un altro giorno.
Il celebrante ha riferito che Maurizio, prima della delicata operazione cui era stato sottoposto pochi giorni prima di mancare, aveva chiesto ai medici di fare presto: «voglio tornare a scuola prima possibile», aveva detto.
Avrebbe voluto essere ancora qui: senza particolari obiettivi, solo per vivere qualche altra giornata – si vive sempre un giorno alla volta – insieme ai suoi amici, sui banchi di scuola, nella semplicità dei soliti gesti quotidiani.
Sì, sarebbe stato bello potergli concedere qualche giorno in più. E sarebbe stato bello presentarlo ai tanti che non sanno apprezzare il privilegio della vita.