Archivio mensile:giugno 2009

L’oasi antistress

«Una relazione riduce gli effetti negativi dello stress sulla nostra salute. Ma una relazione insoddisfacente, invece, li amplifica»: a questa conclusione è giunta Ann-Christine Andersson Arntén, ricercatrice dell’università svedese di Goteborg: a supporto della sua tesi porta una ricerca che ha preso in considerazione oltre novecento persone, studiate nel loro rapporto familiare e lavorativo.

Che una serena vita di coppia aiuti ad arginare lo stress di una vita lavorativa sempre più intensa era intuibile, come è comprensibile che un rapporto familiare critico sia un elemento destabilizzante di cui anche il lavoro, presto o tardi, risentirà.

La ricerca svedese offre lo spunto per un paio di riflessioni che travalicano l’aspetto scientifico e che potrebbero essere un utile promemoria.

Primo: la vita, nel XXI secolo, è intensa e stressante. È però importante ricordare che lo è per tutti: per noi, ma anche per il nostro partner. Per rendere la vita di coppia un momento di serenità e non una notte dei lunghi coltelli è importante l’impegno di entrambe le parti coinvolte. Ognuno deve fare la sua parte
in termini di comprensione e pazienza, esercitando ragionevolezza, buonsenso e sensibilità.

Secondo: il lavoro non è la vita. Non consacriamo la vita al lavoro. Spesso in ufficio possiamo fare meglio con meno impegno, organizzandoci in maniera più razionale, oppure possiamo dotarci di mezzi che ci permettano di lavorare più serenamente. Anche quando questo non sia possibile e il lavoro risulti una grana, non dimentichiamo che si lavora per vivere, non viceversa. Abbassata la serranda, c’è una famiglia, un gruppo, una chiesa che ci aspetta.

Ah, ci sarebbe anche una terza questione da considerare: per stare bene con la propria famiglia e con il proprio lavoro è necessario in primo luogo stare bene con se stessi.

Se viviamo una fase critica sul piano umano o professionale, forse è il caso di fermarsi e trovare il tempo per guardarsi dentro, guardare in Alto e valutare come procedere.

Non ha senso rassegnarsi a essere il problema quando si può essere la soluzione.

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L'oasi antistress

«Una relazione riduce gli effetti negativi dello stress sulla nostra salute. Ma una relazione insoddisfacente, invece, li amplifica»: a questa conclusione è giunta Ann-Christine Andersson Arntén, ricercatrice dell’università svedese di Goteborg: a supporto della sua tesi porta una ricerca che ha preso in considerazione oltre novecento persone, studiate nel loro rapporto familiare e lavorativo.

Che una serena vita di coppia aiuti ad arginare lo stress di una vita lavorativa sempre più intensa era intuibile, come è comprensibile che un rapporto familiare critico sia un elemento destabilizzante di cui anche il lavoro, presto o tardi, risentirà.

La ricerca svedese offre lo spunto per un paio di riflessioni che travalicano l’aspetto scientifico e che potrebbero essere un utile promemoria.

Primo: la vita, nel XXI secolo, è intensa e stressante. È però importante ricordare che lo è per tutti: per noi, ma anche per il nostro partner. Per rendere la vita di coppia un momento di serenità e non una notte dei lunghi coltelli è importante l’impegno di entrambe le parti coinvolte. Ognuno deve fare la sua parte
in termini di comprensione e pazienza, esercitando ragionevolezza, buonsenso e sensibilità.

Secondo: il lavoro non è la vita. Non consacriamo la vita al lavoro. Spesso in ufficio possiamo fare meglio con meno impegno, organizzandoci in maniera più razionale, oppure possiamo dotarci di mezzi che ci permettano di lavorare più serenamente. Anche quando questo non sia possibile e il lavoro risulti una grana, non dimentichiamo che si lavora per vivere, non viceversa. Abbassata la serranda, c’è una famiglia, un gruppo, una chiesa che ci aspetta.

Ah, ci sarebbe anche una terza questione da considerare: per stare bene con la propria famiglia e con il proprio lavoro è necessario in primo luogo stare bene con se stessi.

Se viviamo una fase critica sul piano umano o professionale, forse è il caso di fermarsi e trovare il tempo per guardarsi dentro, guardare in Alto e valutare come procedere.

Non ha senso rassegnarsi a essere il problema quando si può essere la soluzione.

L’opportunità di una vittoria

Ieri sera chi ha seguito fino alla fine il collegamento di RaiUno con il Sudafrica, dove si svolgeva la finale della Confederations Cup, si sarà accorto di quanti calciatori della nazionale brasiliana, nel festeggiare la vittoria, abbiano comunicato la loro fede cristiana: non solo Ricardo Kakà, con la sua classica canotta “I belong to Jesus”, ma anche il capitano della squadra, Lùcio e altri indossavano la t-shirt con la scritta “I love Jesus”: una maglietta esposta bene in vista perfino mentre alzavano la coppa.

Poco prima, al termine della sfida vinta contro gli Stati Uniti, la nazionale ha ripetuto l’esperienza del mondiale vinto nel 2002: in ginocchio, in mezzo al campo, a pregare insieme.

Era, va detto, un bel colpo d’occhio vedere una ventina di adulti, tutti miliardari e felici, che festeggiano senza folleggiare, ma con sobrietà e riconoscenza verso Dio.

Sia chiaro: Dio avrebbe anche potuto farli perdere, perché non è un Dio che promette il successo o la prosperità secondo i nostri parametri, e a volte la nostra vita cristiana trae beneficio dalle sconfitte più che dalle vittorie.

Quel che conta, nel contesto della partita di Johannesburg, è che i brasiliani non hanno perso l’occasione per parlare della loro fede.

Viene da chiedersi se noi, di fronte alle piccole e grandi sfide di ogni giorno, siamo altrettanto coerenti con la nostra fede, o se di fronte a una vittoria dimentichiamo rapidamente quel senso di gratitudine verso Dio che già di per sé sarebbe una efficace testimonianza della nostra considerazione e dei nostri sentimenti verso di lui.

L'opportunità di una vittoria

Ieri sera chi ha seguito fino alla fine il collegamento di RaiUno con il Sudafrica, dove si svolgeva la finale della Confederations Cup, si sarà accorto di quanti calciatori della nazionale brasiliana, nel festeggiare la vittoria, abbiano comunicato la loro fede cristiana: non solo Ricardo Kakà, con la sua classica canotta “I belong to Jesus”, ma anche il capitano della squadra, Lùcio e altri indossavano la t-shirt con la scritta “I love Jesus”: una maglietta esposta bene in vista perfino mentre alzavano la coppa.

Poco prima, al termine della sfida vinta contro gli Stati Uniti, la nazionale ha ripetuto l’esperienza del mondiale vinto nel 2002: in ginocchio, in mezzo al campo, a pregare insieme.

Era, va detto, un bel colpo d’occhio vedere una ventina di adulti, tutti miliardari e felici, che festeggiano senza folleggiare, ma con sobrietà e riconoscenza verso Dio.

Sia chiaro: Dio avrebbe anche potuto farli perdere, perché non è un Dio che promette il successo o la prosperità secondo i nostri parametri, e a volte la nostra vita cristiana trae beneficio dalle sconfitte più che dalle vittorie.

Quel che conta, nel contesto della partita di Johannesburg, è che i brasiliani non hanno perso l’occasione per parlare della loro fede.

Viene da chiedersi se noi, di fronte alle piccole e grandi sfide di ogni giorno, siamo altrettanto coerenti con la nostra fede, o se di fronte a una vittoria dimentichiamo rapidamente quel senso di gratitudine verso Dio che già di per sé sarebbe una efficace testimonianza della nostra considerazione e dei nostri sentimenti verso di lui.

Verità di troppo

150 ore di registrazioni e 30 mila pagine di documenti inediti, recentemente resi pubblici dalla Biblioteca presidenziale americana di Yorba Linda, in California, gettano nuove ombre su Richard Nixon.

Se il presidente, sul piano pubblico, viene già ricordato per lo scandalo Watergate che lo costrinse a dimettersi, ora si trova a fare i conti anche con rivelazioni su conversazioni private che, certo, non migliorano la sua immagine.

Scrive La Stampa che «Se c’è un filo comune nei documenti declassificati è aggressività e disprezzo di Nixon, verso gli amici come per gli avversari».

Insomma, nastri e carte rivelano un Nixon cinico, spregiudicato, insofferente verso le obiezioni da qualunque parte venissero. Niente di strano per un politico, a dire il vero.

Quel che lascia perplessi è il senso dell’operazione. Andare a pescare nella posta altrui è sempre pericoloso, e scrutare nell’intimità della vita familiare può provocare forti delusioni anche quando si tratta di grandi uomini: figurarsi quando lo si fa con un uomo pubblico che, per arrivare dove è arrivato, deve aver ceduto a una pioggia di compromessi.

È vero che, biblicamente parlando, “nulla è destinato a rimanere segreto”, ma forse dovremmo chiederci se la luce alla quale vogliamo portare il comportamento delle persone sia la luce cristiana o una luce guardona.

Certo, la verità deve emergere. Ma dovremmo chiederci a cosa facciamo riferimento quando parliamo di verità e, soprattutto, quale sia lo scopo della presunta verità di cui ci ergiamo paladini.

Anche chi spettegola, di solito, si difende esclamando “ma è la verità!”: se nulla deve restare segreto, allora il gossip è attività benemerita, e i ficcanaso sono i nuovi moralizzatori.

Nel valutare le persone è certo necessario il buonsenso di una valutazione su larga scala, ma capace di distinguere il grano dal loglio e di dare la giusta priorità alle informazioni raccolte.

Proprio come i sondaggisti che, in attesa dei risultati elettorali definitivi, non si basano acriticamente su tutti i dati, ma organizzano le proiezioni per dare un senso a quei dati.

Non tutte le sezioni elettorali sono ugualmente rappresentative e permettono di farsi un quadro attendibile della realtà generale. Proprio come le parole, le azioni, i comportamenti delle persone.

Parole a vuoto

Ieri il Corriere, oggi Repubblica: la stampa italiana celebra Twitter, il nuovo sistema di comunicazione che – secondo qualche esperto – rende antichi siti, blog e perfino Facebook.

Twitter, spiega il Corriere, è una “rete basata su micromessaggi” di 140 caratteri al massimo con i quali ognuno può raccontare «”in diretta” a gruppi di amici, genitori o a fan (nel caso dei messaggi inviati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola».

Insomma, come il Corriere stesso ammette, una noia profonda, salvo che in occasioni eccezionali: come quando un utente di Twitter comunicò per primo bruciando perfino la CNN, l’ammaraggio sul fiume Hudson, o quando gli studenti iraniani comunicano gli sviluppi del loro dissenso, attraverso questo sistema, unica voce non imbavagliabile da parte del potere di Teheran.

Strumento utile, ma nei confronti del quale è necessaria la giusta cautela: si fa presto a parlare di citizen journalism, ma al volontariato giornalistico proposto dai cittadini deve corrispondere un’azione di verifica da parte del lettore, impegno che sulle testate tradizionali si sobbarcano (se lo facciano bene o male è un altro discorso) i giornalisti. Leggere un post su Twitter non è come leggere un giornale, e non solo per una questione di metodo.

In ogni caso il fenomeno andrebbe ridimensionato: non capita tutti i giorni di trovarsi testimoni casuali di un fatto storico e di avere i mezzi per raccontarlo. A fronte di queste eccezioni, come detto, il resto della comunicazione partecipata è solo noia.

Twitter per lo più è un ammasso di parole scritte senza convinzione per un pubblico quasi inesistente, e d’altronde solo una persona molto annoiata può passare la giornata a crogiolarsi negli insignificanti dettagli della vita altrui.

Il successo di Twitter dovrebbe preoccuparci: è l’ennesimo indizio della nostra tendenza sociale all’isolamento, a parlare senza ascoltare, a pontificare anziché imparare.

«Ho un’opinione su tutto, e se non ce l’ho me la faccio», mi ha scritto anni fa una baldante giovane che, pur in assenza di competenze specifiche, si candidava al ruolo di editorialista.

A parte rari casi di blog e canali che si distinguono per la loro specializzazione, la maggior parte dei fenomeni di interattività – dai siti ai social network – vengono sfruttati dagli utenti solo per tamburellare sulla tastiera anziché farlo a vuoto sul tavolo.

Latita la competenza, ma anche il buonsenso e la coerenza: un giorno si annunciano i propri spostamenti descrivendo percorsi e movimenti, il giorno dopo si protesta contro le telecamere in centro. Un giorno si inseriscono online le foto private, il giorno dopo ci si lamenta per l’assenza di privacy.

Si dimentica che la riservatezza impone di tacere quando non si ha niente da dire, e riflettere quando si intende parlare. Solo così il discorso ci guadagna, il confronto diventa proficuo, la parola ritrova il valore che aveva perso.

Messaggi chiari e risposte coerenti: «il di più viene dal maligno», concludeva tranchant Gesù Cristo. Uno che di comunicazione si intendeva.

Fuori bersaglio

A Milano si è aperto il processo a Google: il noto motore di ricerca è finito alla sbarra per la nota vicenda della pubblicazione su Youtube (di cui Google è proprietario) del video in cui quattro ragazzotti torinesi vessavano un compagno di classe disabile. Il filmato ha fatto il giro del mondo, provocando indignazione nell’opinione pubblica e infinite discussioni tra gli addetti ai lavori, concludendo la sua corsa con l’odierno strascico legale.

In aula si discuterà sulla responsabilità oggettiva di chi offre un servizio online, come Google: fino a dove può spingersi l’obbligo di controllo preventivo o di filtraggio dei contenuti? Quali sono i margini ragionevoli entro i quali si può stemperare la responsabilità grazie alla buona volontà di una rimozione solerte, anche se non immediata?

È intuibile però che la portata del processo è più ampia, e giunge a toccare un cardine del diritto come il rapporto tra responsabilità e libertà, tutela della sfera privata e diritti della sfera pubblica, con tutto ciò che ne segue. Per questo motivo al tribunale di Milano sono giunte cinque testate straniere, tra cui il New York Times.

Il Corriere stesso dedica mezza pagina alla notizia, ripercorrendo la vicenda e dando conto della prima udienza (per la cronaca è slittata per assenza dell’interprete).

La causa in corso sarà utile. Utile a stabilire alcuni punti fermi, utile a dare indicazioni concrete a chi opera nel settore.

In questa baraonda, però, si rischia di spostare l’attenzione dal vero problema. Che non è Google – anche se farebbe più notizia – e non è nemmeno l’impossibile gestione umana dei ponderosi archivi video di Youtube.

Il problema non è il servizio offerto, ma il modo in cui è stato usato. Perché tutto  nato da quattro giovani.

Giovani bullotti che un giorno hanno deciso di maltrattare un loro coetaneo.

Giovani imbecilli che, per il loro ignobile gesto, hanno preso di mira un disabile.

Giovani bacati che hanno deciso di filmare la scena, dimostrando la premeditazione, tradendo un atteggiamento esibizionista, oltre che delinquenziale.

Giovani meschini che hanno provato un tale compiacimento dalla loro azione da pensare di condividerla con il mondo intero attraverso un servizio nato per scopi ben diversi.

Nella disgustosa sequenza si avverte una percezione distorta dei valori, dove bene e male si scambiano i ruoli. Qualcuno parlerà della solita infanzia difficile, ma probabilmente sarebbe più corretto chiamare in causa un’educazione latitante.

E allora, riflettiamoci su: la colpa, alla fine, è davvero di Youtube?

C’è bisogno di noi

«Sentiamo che in questa crisi economico-finanziaria globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori: se guardiamo alle cause e anche agli sforzi da mettere in atto per superarla, ci rendiamo conto che è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati largamente assenti dalle determinazioni dei soggetti economici e politici»: lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di qualche giorno fa di fronte ai 129 leader religiosi convenuti in Italia per il consueto summit pre-G8.

Se fino a qualche anno fa la fede veniva vista quasi con fastidio e relegata a un affare privato, e l’etica nel mondo del lavoro era un surplus per credenti particolarmente puntigliosi, dopo la crisi che ha squassato il mondo dell’economia i valori tornano in primo piano.

Fino a quando tutto va bene si tende a dimenticare il dovere a favore del piacere: e il piacere, per decenni, è stato l’edonismo di un sistema dove consumare significava tutto e tutto aveva un prezzo, dove l’imperativo era arricchirsi e ogni mezzo era lecito per farlo.

C’era bisogno di un terremoto per comprendere che l’economia non può essere un valore assoluto, che i valori non sono solo quelli di borsa, che l’arricchimento esteriore è arido senza un corrispondente arricchimento interiore.

A quel punto, disorientati, anche i famelici manager di Wall Street si sono dovuti fermare. Alcuni di loro, di fronte a una crisi economica e morale, hanno percorso di nuovo le navate delle chiese dopo anni spesi nel sacro tempio della Borsa.

Di fronte alla desolazione, ci si è concentrati di nuovo su quel mondo di piccole cose che si erano perse di vista: la famiglia, i gesti, i pensieri.

E, non ultima, la fede. Che non è un valore come gli altri, ma un valore aggiunto in qualsiasi sistema.

Ora questo ruolo è stato riconosciuto anche da Napolitano. I media non hanno enfatizzato le sue parole, anche se suona strano sentire un gentiluomo laico e di tradizione comunista sdoganare la spiritualità e i valori che ne discendono: «Nella visione che ispira la Costituzione della Repubblica italiana noi riconosciamo pienamente che hanno una dimensione pubblica e un valore pubblico il fatto religioso e la presenza religiosa. Senza pericolose confusioni tra politica e religione nella piena autonomia dell’una e dell’altra sfera abbiamo bisogno di tale apporto».

C’è bisogno di fede. Una fede viva, vissuta, coerente. Una fede che, applicata, porta a una morale convinta, non ipocrita ma profonda, nella vita del credente. Una morale che si trasforma in etica, un comportamento corretto fatto di serietà e onestà nel campo professionale.

Ora è ufficiale: anche il Capo dello Stato ne riconosce il bisogno e chiama i credenti a una presenza cristiana concreta, quotidiana, capace di restituire dignità a un mondo senza valori.

“… E voi mi sarete testimoni”, disse Gesù ai suoi discepoli. Oggi il mondo, la società, le autorità – quel mondo, quella società, quelle autorità che fino a ieri sottovalutavano la fede  – ci invitano a non dimenticare quella raccomandazione.

C'è bisogno di noi

«Sentiamo che in questa crisi economico-finanziaria globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori: se guardiamo alle cause e anche agli sforzi da mettere in atto per superarla, ci rendiamo conto che è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati largamente assenti dalle determinazioni dei soggetti economici e politici»: lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di qualche giorno fa di fronte ai 129 leader religiosi convenuti in Italia per il consueto summit pre-G8.

Se fino a qualche anno fa la fede veniva vista quasi con fastidio e relegata a un affare privato, e l’etica nel mondo del lavoro era un surplus per credenti particolarmente puntigliosi, dopo la crisi che ha squassato il mondo dell’economia i valori tornano in primo piano.

Fino a quando tutto va bene si tende a dimenticare il dovere a favore del piacere: e il piacere, per decenni, è stato l’edonismo di un sistema dove consumare significava tutto e tutto aveva un prezzo, dove l’imperativo era arricchirsi e ogni mezzo era lecito per farlo.

C’era bisogno di un terremoto per comprendere che l’economia non può essere un valore assoluto, che i valori non sono solo quelli di borsa, che l’arricchimento esteriore è arido senza un corrispondente arricchimento interiore.

A quel punto, disorientati, anche i famelici manager di Wall Street si sono dovuti fermare. Alcuni di loro, di fronte a una crisi economica e morale, hanno percorso di nuovo le navate delle chiese dopo anni spesi nel sacro tempio della Borsa.

Di fronte alla desolazione, ci si è concentrati di nuovo su quel mondo di piccole cose che si erano perse di vista: la famiglia, i gesti, i pensieri.

E, non ultima, la fede. Che non è un valore come gli altri, ma un valore aggiunto in qualsiasi sistema.

Ora questo ruolo è stato riconosciuto anche da Napolitano. I media non hanno enfatizzato le sue parole, anche se suona strano sentire un gentiluomo laico e di tradizione comunista sdoganare la spiritualità e i valori che ne discendono: «Nella visione che ispira la Costituzione della Repubblica italiana noi riconosciamo pienamente che hanno una dimensione pubblica e un valore pubblico il fatto religioso e la presenza religiosa. Senza pericolose confusioni tra politica e religione nella piena autonomia dell’una e dell’altra sfera abbiamo bisogno di tale apporto».

C’è bisogno di fede. Una fede viva, vissuta, coerente. Una fede che, applicata, porta a una morale convinta, non ipocrita ma profonda, nella vita del credente. Una morale che si trasforma in etica, un comportamento corretto fatto di serietà e onestà nel campo professionale.

Ora è ufficiale: anche il Capo dello Stato ne riconosce il bisogno e chiama i credenti a una presenza cristiana concreta, quotidiana, capace di restituire dignità a un mondo senza valori.

“… E voi mi sarete testimoni”, disse Gesù ai suoi discepoli. Oggi il mondo, la società, le autorità – quel mondo, quella società, quelle autorità che fino a ieri sottovalutavano la fede  – ci invitano a non dimenticare quella raccomandazione.