L’ultimo spettacolo di Jacko
«Il re del pop deve ora piegare le ginocchia davanti al Re dei re»: così il pastore Lucius Smith ha concluso ieri sera a Los Angeles il memorial dedicato a Michael Jackson.
Niente da dire: in fatto di show gli americani sono maestri, e la cerimonia di commiato dedicata a Jacko è stata sobria, ma allo stesso tempo coinvolgente e a tratti perfino commovente, come si conviene a un addio.
Le parole spese nei confronti del personaggio sono state forse iperboliche – Jackson è stato definito in più riprese “il più grande di tutti i tempi”, un epiteto un po’ azzardato – ma si sa, a un funerale è concesso allargarsi un po’ nei confronti del defunto.
Eppure, al di là dei dignitosi lustrini e di un’organizzazione ineccepibile, la cerimonia di ieri non si è limitata a una passerella di star dimesse e commosse di fronte a un feretro lussuoso. Non era, tecnicamente, un vero funerale – che si è svolto qualche ora prima in forma privata -, ma un ricordo: un ricordo che, nella migliore tradizione statunitense, non ha mancato di abbinare secolare e sacro, arte e fede, business e spiritualità. E non necessariamente stravolgendo i secondi a beneficio dei primi. A partire dal coro gospel che ha introdotto la cerimonia intonando il classico “We are going to se the King”, che recita “presto, molto presto noi andremo a vedere il Re“.
Sul palco, tra cantanti, attori e politici, è salito anche il reverendo Al Sharpton; accanto ai familiari c’era un altro pastore noto, Jesse Jackson, che è stato loro vicino fin dai primi momenti del lutto.
Forse però il discorso più significativo, sul piano spirituale, non è stato espresso da Sharpton, ma da un vecchio amico e mentore di Jacko: Smokey Robinson, stella ormai settantenne del rhythm and blues e soul, ha parlato di fede, di speranza, di vita meglio di un predicatore. Perfino uno dei fratelli Jackson, nel congedare in lacrime i presenti, ha usato parole evangeliche di speranza e accettazione: «Non sappiamo perché Dio abbia voluto portarti via da noi così presto, ma siamo certi che ci sia un motivo».
E poi, i brani: Lionel Ritchie ha intonato “Jesus is love”, vecchio successo dei Commodores, un intenso soul dal testo particolarmente chiaro: «Padre, aiuta i tuoi figli e non lasciarli andare fuori strada. Insegna loro ad amarsi, che il Cielo trovi un posto nei loro cuori, perché Gesù è amore… so la verità, e le sue parole saranno la nostra salvezza… Gesù è amore, so che è mio nel profondo della mia anima».
Soprattutto, sul piano musicale, è stato sorprendente riscoprire “Will You be there” (“Sarai lì”), brano che lo stesso Michael Jackson scrisse nel 1991 e che ieri è stato interpretato da Jennifer Hudson, con in coda la voce registrata di Jackson a recitare lo struggente appello finale: «Nella mia disperazione più cupa/ ti curerai ancora di me?/ Sarai lì?/ Nelle mie prove e tribolazioni/ attraverso i nostri dubbi/ e le frustrazioni… attraverso la mia paura… nella mia angoscia e nel mio dolore/ nella promessa di un altro domani/ non ti lascerò/ perché sei sempre nel mio cuore».
Le notizie sulle condizioni fisiche di Michael Jackson nei suoi ultimi giorni di vita sono controverse, tanto più le voci sulle sue scelte spirituali. Certo, di fronte a un testo come questo viene da pensare che l’artista vivesse una ricerca interiore quasi angosciosa, provando un pressante desiderio di trovare un Padre vero: quel padre che, nella sua vicenda umana, è sempre stato assente o carente.
Al di là delle scelte sbagliate, di una vita smodata, di un’infanzia mai superata, di eccessi e stranezze, un giorno Jacko quel Padre potrebbe averlo trovato.
Potrebbe essere successo. Potrebbe essere stato vent’anni fa a margine di quella canzone, oppure tre mesi fa attraverso Andrae Crouch, quindici giorni fa nel segreto della sua stanza.
Ci piace pensarlo. E ci piace pensare che quella canzone, le parole di Smokey Robinson o del reverendo Lucius Smith, al di là della circostanza e dell’emozione contingente, possano aver toccato in profondità qualcuno dei 50 mila presenti allo Staples center di Los Angeles, o del miliardo di persone che hanno seguito il memorial in diretta tv da tutto il mondo.
La cerimonia si conclude, il feretro viene accompagnato fuori, il pubblico lentamente raggiunge l’uscita mentre l’orchestra suona “Man in the mirror” e un fascio di luce illumina un microfono, quel microfono che Jacko non prenderà più in mano.
Sì, il re del pop si è dovuto inginocchiare al Re dei re. La speranza è che lo abbia potuto fare davanti al Padre, e non davanti al Giudice.
Pubblicato il 8 luglio, 2009, in Uncategorized con tag addio, Andrae Crouch, angoscia, anima, appello, arte, assenza, beneficio, business, canzone, cerimonia, circostanza, commiato, Commodores, commozione, cuore, cuori, defunto, dolore, domani, eccessi, epiteto, evangelici, fede, feretro, fratelli, frustrazione, funerale, ginocchia, giudice, infanzia, Jacko, Jesus is love, Lionel Ritchie, Los Angeles, Lucius Smith, lustrini, maestri, Man in the mirrow, memorial, Michael Jackson, miliardo, mondo, motivo, notizie, organizzazione, padre, parole, passerella, paura, pop, predicatore, profondo, promessa, prove, re, recita, sacro, salvezza, scelte, secolare, show, sobrietà, spiritualità, Staples, star, strada, stranezze, testo, Tradizione, tribolazioni, Tv, Vita, Will you be there_ Jennifer Hudson. Aggiungi il permalink ai segnalibri. 6 commenti.
Alla fine c’è solo un Re! Quello che qualcuno, durante tutto questo bailamme di notizie (vere o presunte) abbia potuto riconoscere come Re della propria vita.
Bravo Paolo per le tue parole equilibrate
bellissimo articolo, sobrio ed equilibrato. Complimenti
Riguardo all’ultimo spettacolo di Mr.Jackson segnalo che Paolo l’apostolo delle genti avrebbe detto: Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunziato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora… Shalom a tutti
Certo. Aggiungerei che l’unico piccolo neo è stato la scelta delle tv italiane di mandare in onda la cerimonia con i commenti da studio: questo ha inevitabilmente tagliato fuori alcune parti interessanti.
Per il resto, mi è piaciuto vedere Giorgio Mulè assistere alla preghiera finale di Lucius Smith a capo chino (anche se poi l’ha definita “speech”, discorso).
Gran bel pezzo, ragazzo! Gran bel pezzo…