Poi si vedrà
In Spagna li hanno etichettati come «Generacion “ni-ni”: ni estudia ni trabaja».
I primi dati del Rapporto giovani 2008 raccontano che la “generazione né né” esiste anche in Italia: scrive il Corriere che «tra i 15 e i 19 anni ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavorano (il 9%)… stessa tendenza nei dati relativi ai giovani tra i 25 e i 35 anni: un milione e 900 mila non studia e non lavora. Vale a dire: quasi uno su quattro ».
I giovani “né né” non studiano perché si sono accorti che non aiuta a trovare lavoro, e non cerca lavoro perché “tanto non si trova“. Smarriti in questo circolo vizioso trascorrono le loro giornate senza un progetto, un obiettivo, uno scopo. Senza troppa convinzione tirano a sera e al futuro pieni di vuoto, disillusi da una vita che non promette niente di buono.
Si definiscono quasi tutti “soddisfatti della loro vita privata”: poi però, a parlarci, dietro alla felicità di facciata emerge amarezza verso una società “che non accetta quelli che cercano una strada diversa”, e si scopre che il rifiuto preconcetto di ogni patto porta a un malessere interiore (“Io a me non rinuncio, ma così sto male”).
C’è chi ha voluto anticipare i tempi e invertire i fattori: ha già una famiglia – compagna e pargolo – ma non ha lavoro né prospettive: “prendo quello che viene”, dice, e al bimbo pensano «mia madre e mio padre. Per ora viviamo con loro, poi si vedrà»
Già, “poi si vedrà” sembra essere diventata la parola d’ordine dei giovani. E non è solo colpa loro.
È da almeno vent’anni che film, pubblicità, manuali di autoaiuto hanno riscoperto l’oraziano “Carpe diem”, e lo propongono in tutte le salse. Cogliere il momento si è trasformato da opportunità in necessità, imperativo morale, esigenza vitale.
Un tambureggiare continuo e disorientante che ha fatto saltare ogni cautela, sostituendo il timore del rimorso con la paura del rimpianto.
Una volta, almeno, c’erano i genitori a fare da pompieri per spegnere gli eccessivi entusiasmi dei figli. Un ruolo mantuenuto fino a quando da notai della normalità si sono trasformati in sponsor delle speranze adolescenziali.
Sentendosi in colpa per non aver fatto di testa propria, hanno incoraggiato i figli a tentare la loro strada, e la nuova generazione si è ritrovata, per la prima volta nella storia, a decidere da sé il proprio destino.
Ne ha approfittato per fare qualcosa di inedito: dare al sogno dignità di speranza. D’altronde la tv non ci ha insegnato che “impossible is nothing”, che non bisogna lasciar morire i propri sogni, anche a quelli più improbabili?
Peccato che i posti per il profilo di scrittori, cantanti, astronauti, ballerine ci sia il numero chiuso. E che – come cantava Morandi – uno su mille ce la fa. Così, frustrati i sogni, i giovani si sono ritrovati soli con la loro incertezza.
Non studiano, non lavorano: d’altronde nulla corrisponde al loro sogno, e i sogni – per quanto ormai stinti – non si tradiscono nemmeno quando giunge l’alba delle scelte concrete.
Dicono che non trovano, e hanno ragione. Non riescono a trovare la terra promessa, perché in realtà cercano il paese delle meraviglie.
Così la vita continua e i giovani – da sempre il motore della società – restano desolatamente fermi. Chi si muove al posto loro sono ancora i genitori. Che forse, ora, vorrebbero suonare la campanella di fine ricreazione, dire che di sogni non si vive e che la realtà va affrontata a occhi ben aperti.
Ma si rendono conto che è un discorso da vecchi, e loro non sopporterebbero di sentirsi deridere come tali in una società dove la maturità è il peggior difetto.
Allora, realismo per realismo, ricacciano in gola il sospiro e continuano a spingere il carretto in attesa di una svolta. Per ora va così. Poi si vedrà.
Pubblicato il 16 luglio, 2009, in Uncategorized con tag accettazione, adolescenza, amarezza, anticipazione, astronauti, attesa, ballerine, buono, cantanti, carpe diem, cautela, dati, derisione, destino, difetto, discorso, disillusioni, entusiasmi, esigenza, famiglia, fattori, felicità, frustrati, futuro., Generacion, generazione, Giovani, imperativo, incertezza, inedito, Italia, Lavoro, madre, male, malessere, manuali, Maturità, milioni, Morale, Morandi, necessità, ni-ni, obiettivi, osti, padre, pargoli, patto, paura, pompieri, progetti, realismo, realtà, rifiuto, rimorso, rimpianto, rinuncia, ruolo, scopi, scrittori, società, sogno, sospiro, Spagna, speranza, speranze, sponsor, statistiche, strada, studio, tendenza, Tv, Vita. Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.
La battaglia di chi è genitore per non ritrovarsi con dei figli nè-né incomincia molto presto. Già a dieci anni i messaggi che arrivano ai nostri ragazzi sono demoralizzanti. La scuola non privilegia più il merito (qundi perché studiare di più), spesso nel mondo del lavoro si entra per conoscenza e per raccomandazione (quindi se i lavori migliori vanno ai più “furbi” perché sbattersi in giro per trovare solo lavori precari e poco redditizi). Ma in realtà è la nostra società a essere malata, malata di troppo benessere. Nelle comunità straniere che vivono in Italia non funziona così. I loro sogni sono fatti di cose concrete: un lavoro, magari in proprio, possibilità di studio per i propri figli, una casa e, contemporaneamente, si ricordano di mandare anche qualche soldo ai chi è rimasto là, nel bisogno. Per realizzarli non risparmiano fatica, impegno e si appoggiano ad una rete di solidarietà: famigliare, sociale,etnica che noi non conosciamo più perché implica almeno il ricordo di cosa sia il bisogno, conoscere che cosa sia la vera povertà, sapere cosa sia la difficoltà reale e non solo emotiva di vivere.