Se lo fanno tutti

Rubare in azienda di norma è reato. Non lo è in quel di Livorno, dove due dipendenti presi con le mani nel sacco – o con il diesel nel serbatoio dell’auto, spillato dal rimorchiatore dell’azienda – sono stati licenziati dall’azienda ma poi reintegrati dal giudice del lavoro.

La motivazione non è, come spesso accade, la mancanza di prove. Anzi: forse, semmai, è l’eccesso di prove. Il giudice, dopo un’accurata indagine, ha stabilito che la sottrazione di carburante è un comportamento generalizzato e, oltretutto, tollerato: «l’azienda sapeva, ma non è mai intervenuta con sanzioni».

Poco serve all’azienda dire che non aveva mai preso provvedimenti disciplinari «perché non li avevamo mai presi in flagrante» e non è giusto avviare «processi per un sospetto».

Insomma: se rubano tutti, è lecito farlo. Parola di giudice.

Certo, le dinamiche aziendali non sono sempre così chiare: la tacita accettazione di un comportamento poco trasparente può essere data da disinteresse o da rassegnazione, o magari può essere tollerato come forma impropria di benefit per il dipendente.

Il giudice avrà sicuramente indagato per comprendere quale sfumatura avesse il comportamento reiterato degli imputati e il silenzio del datore di lavoro, e certamente avrà tratto le sue conclusioni in base a dati inequivocabili.

Quel che in questa vicenda stupisce – e un po’, diciamolo, turba – è la percezione esterna, che segna un inatteso rovesciamento di ruoli.

I due dipendenti ladri (absit iniuria) si considerano vittime di un’ingiustizia, e quasi si offendono per essere stati accusati di qualcosa che, per tutti, era più che lecito.

L’azienda si ritrova nel ruolo del magistrato: di fronte al rilievo sul suo silenzio, si stupisce: “non si fanno processi su sospetti”, afferma. Più garantista di un politico sotto processo: avercene, di giudici così equilibrati.

Il giudice, a sua volta, si ritrova a rappresentare più l’opinione pubblica che la giustizia: se tutti rubano, è lecito farlo.
“Così fan tutti”, sembra quindi dire il giudice, e manca solo la chiusa “ben altri sono i problemi del nostro Paese” per chiudere il cerchio.

Se poi il comportamento dei dipendenti sia morale, se le parole dell’azienda siano oneste, se la sentenza del giudice sia giusta, questo interessa poco, quasi si tratti di un’altra faccenda: una faccenda che – incidentalmente – prende il nome di etica e che è meglio non sollevare, visto che le coscienze pulite non sono più di moda.

Ma forse c’è qualcosa d’altro. Dubitiamo infatti che il giudice fosse interessato a far parlare di sé con una sentenza bizzarra.

Piuttosto l’impressione è che, arrivando a questa conclusione, si sia tentato di trovare una via alternativa, una giustizia che prescinda da riferimenti etici tradizionali, e si sia invece voluto muovere un primo passo verso un sistema di valori relativi, dove tutto si riferisce al contesto specifico e gira attorno alla situazione contingente: un sistema che non ha bisogno di anticaglie come la morale, il buonsenso, il rispetto, l’onestà.

Se davvero è così, il futuro non si prospetta rassicurante. Soprattutto per gli onesti.

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Pubblicato il 17 luglio, 2009, in Uncategorized con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.

  1. ISAIA 5:20-23

    20 Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene,
    che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre,
    che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!
    21 Guai a quelli che si ritengono saggi
    e si credono intelligenti!
    22 Guai a quelli che sono prodi nel bere il vino,
    e abili nel tagliare le bevande alcoliche;
    23 che assolvono il malvagio per un regalo,
    e privano il giusto del suo diritto!

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