L'amore ai tempi di Almodovar

«Il Papa dovrebbe abbandonare la visione tradizionale della famiglia, uscire dal Vaticano e mescolarsi fra la gente per rendersi conto di come funzionano le famiglie moderne». L’invito polemico – segnala Repubblica – arriva da uno dei registi più celebri e ammirati della scena internazionale, Pedro Almodovar.

Secondo il regista «non ha alcun significato il fatto che il Papa riconosca solo la variante cattolica della famiglia… Da oltre vent’anni – dice il regista – faccio film in cui la famiglia è composta da un gruppo di persone, al centro delle quali c’è un piccolo essere, di cui tutti si occupano, un essere che amano e del quale soddisfano i bisogni, a prescindere dal fatto che il gruppo sia formato da genitori separati, travestiti, transessuali o monache malate di Aids».

Per questo Almodovar ritiene che le sue famiglie siano «più reali di quelle del Papa perché non vivono secondo qualche dogma ma fanno i conti con i compromessi dell’esistenza».

Almodovar può piacere o non piacere, questo è logico; nessuno impone di apprezzarlo, e nessuno può imporre una censura alle eventuali critiche sul suo lavoro con l’alibi che l’arte non si giudica.

A leggere le parole di Almodovar l’impressione è che abbia un’idea della famiglia – e della società – ancora più vaga di quella espressa da Benedetto XVI.

Almodovar, nei suoi film, racconta una società diversa, estrema, surreale nel concentrato di situazioni anomale che descrive: “genitori separati, travestiti, transessuali o monache malate di Aids” popolano storie in cui, però, “c’è un piccolo essere, di cui tutti si occupano, un essere che amano e del quale soddisfano i bisogni”.

Ed è proprio questo il punto. Che le famiglie ordinarie siano ormai una specie in via di estinzione è risaputo; ed è altrettanto evidente che “i compromessi della vita” portino a compagini di socializzazione nuove (ma saremmo cauti a definirle “moderne”, nel senso migliorista del termine): seconde nozze, convivenze, affettività diverse portano a una riedizione riveduta e (s)corretta delle famiglie allargate del tempo che fu.

Però non sembra per niente scontato che queste nuove realtà, un po’ tribù e un po’ comuni, abbiano a cuore un piccolo essere. Anzi. Innanzitutto a ben guardare, i “piccoli esseri” latitano, ai nostri giorni: se il contesto sociale è così frastagliato e diverso rispetto al passato – e la famiglia ne è un esempio lampante – è perché la società insegna a soddisfare se stessi e solo se stessi, in un individualismo sfrenato dove ogni limite – si tratti di un matrimonio o di una maternità – viene visto con fastidio: legami stabili e “piccoli esseri” sono solo un ostacolo alla propria “realizzazione”, da evitare fino a quando non “ci sentiremo pronti”, se mai succederà.

Ma a volte questi benedetti figli non si fa in tempo a scansarli: e in quel caso eccoli qua, ostaggi di situazioni che non hanno scelto, disorientati da una società che quarant’anni fa ha abiurato i valori tradizionali ma finora non ha saputo sostituirli con niente di altrettanto convincente.

Anche l’educazione neutrale, quella che tenta di tirare su i piccoli senza influenze morali o spirituali “perché dovranno decidere da sé quando saranno grandi”, è solo la pilatesca testimonianza di un vuoto di valori e di serenità con cui gli adulti si confrontano. Se siamo felici saremo contenti di trasmettere ai nostri figli le basi di questa felicità; in assenza, trasmetteremo ai posteri la ruggine del nichilismo che ospitiamo dentro di noi travestita da obiettività.

In un contesto come questo l’amore non è sufficiente. Perché l’amore, per non restare solo poesia, ha bisogno di gesti e di scelte, di posizioni e di obiettivi. Senza di questi è solo simpatia o complicità. Che ai più piccoli, si sa, non basta.

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Pubblicato il 6 agosto, 2009, in Uncategorized con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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