La storia che passa

Un vecchietto trasandato cammina sotto la pioggia sulle strade di Long Branch, in New Jersey. Agli occhi di chi lo vede il suo atteggiamento è “strano” – pare che negli USA, ormai, tutti siano sospetti – e per questo chiama la polizia.

Arriva una giovane agente, gli chiede i documenti ma l’uomo non li ha, anche se si identifica senza difficoltà: «Sono Bob Dylan», deve aver detto, o qualcosa di simile.

Niente da fare: l’agente lo carica in auto e lo accompagna al suo albergo, dove «quello che credeva solo un “vecchio eccentrico” era davvero Bob Dylan».

La notizia è trapelata in questi giorni e suona quasi come un’ironia della sorte il fatto che succeda proprio nei giorni in cui si celebra il quarantennale del festival di Woodstock, dove Dylan – ricorda Aldo Grasso – non era presente ma della cui filosofia è diventato un’icona.

Per molti sarà un delitto di lesa maestà verso un mito. Eppure, al di là del sorriso che la curiosa vicenda ci provoca, non riusciamo a stupirci.

Innanzitutto per una questione molto concreta:  chissà, magari Dylan sotto la pioggia non sembra lui. O magari dal vivo è molto diverso, anche se il suo sguardo e il suo naso dovrebbero essere inconfondibili.

Magari, in un afflato di modestia, si è anche presentato prima con il suo vero nome, Robert Zimmerman, e solo in un secondo momento con il suo nome d’arte, favorendo con la doppia presentazione l’equivoco (l’agente potrebbe aver pensato: “questo qui non sa nemmeno come si chiama”).

O magari è solo segno che ci eravamo illusi. Sì, una ventiquattrenne può non conoscere Bob Dylan. Oppure può confonderlo con Bob Geldof: in fondo sono cantanti che hanno raggiunto l’apice del successo prima che lei raggiungesse l’età della ragione.

Già negli anni Ottanta gli Stadio vaticinavano una vicenda simile nella loro “Chiedi chi erano i Beatles”: «chiedilo a una ragazza di quindici anni d’età/ chiedi chi erano i Beatles, lei ti risponderà/ i Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco/ sì, sì: conosco Hiroshima, ma del resto ne so molto poco, ne so proprio poco…»

La storia che non viviamo in prima persona la vediamo in prospettiva, si appiattisce su testo scolastico. Noi potevamo confonderci posizionando vicende del Medioevo nel Rinascimento, potevamo ritrovarci incerti nel datare le gesta di Federico Barbarossa e Federico II, ma non avremmo mai confuso la Prima con la Seconda guerra mondiale: troppo vicini i drammi, i lutti, i racconti di chi le aveva vissute. Man mano che i testimoni vengono a mancare e l’epoca delle vicende si allontana, a ricordarci il nostro passato resta solo la storiografia (e le polemiche: ma quella è, in tutti i sensi, un’altra storia).

Quindi non stupiamoci: tra qualche anno non sarà così assurdo veder confondere la caduta del Muro di Berlino con il crollo le Torri Gemelle, Sadat con Arafat, Obama (Barack) con Osama (Bin Laden).

E se succede alla storia, tanto più alla musica. Sic transit gloria mundi.
Ci illudiamo di poter lasciare un segno eterno del nostro passaggio, e invece anche ai migliori bastano pochi anni – un’inezia, nella storia del mondo – per farsi dimenticare.

La vita è un vapore che appare per un po’ di tempo e poi svanisce, dice la Bibbia con una tra le metafore più pregnanti e poetiche delle Scritture. E questo dovrebbe farci riflettere in almeno due direzioni.

Quando consideriamo che la nostra vita è un attimo, tutte le occupazioni contingenti perdono il loro significato: tutte le azioni, ma anche le dispute, le tensioni, le attese, i piccoli drammi quotidiani di un’esistenza imperfetta si smarriscono nel quadro globale di un’esistenza tra le esistenze in  un’epoca tra le epoche. Ritrovano così il loro ruolo di meri dettagli, e ci rendiamo conto di come vengano ingigantiti solo da una prospettiva falsata.

Gli elementi che oggi consideriamo essenziali – casa, lavoro, famiglia, beni materiali – si consumeranno insieme a noi: solo il bene può lasciare una traccia degna del nostro passaggio.

E soprattutto, nell’ottica dell’eternità, dovremmo imparare a non guardarci attorno, ma a guardare in Alto. Perché, alla fine dei conti (e dei tempi), chi scriverà la parola fine non saremo noi.

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Pubblicato il 17 agosto, 2009, in Uncategorized con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 4 commenti.

  1. …e pensare che per tanto tempo ho creduto che Gesù fosse solo il capo dei preti e che se lo avessi incontrato per strada gli sarei passato accanto come tutti quelli che hanno incontrato Dylan per strada, sotto la pioggia…

  2. Magistrale, Paolo. Meriterebbe, meriteresti una visuale più ampia.

  3. “…solo il bene può lasciare una traccia degna del nostro passaggio”… è vero pero’ vedi anche quando la gente parla i piu saggi arrivano a dire ‘l’importante è la salute, quando c’e la salute c’e tutto’, raramente si sente dire (mai?) l’importante è l’amore. La salute è qualcosa che serve a te l’amore è qualcosa per gli altri. (anche se è vero che se non c’e l’amore non c’è neanche la salute perchè la rabbia fa ammalare ma non so se lo dicono per questo). ciao laura

  4. È vero tutto passa e viene dimenticato, ma Ti ringrazio, Signore, perché Tu non ci dimentichi !

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