La grande sfida dell'accoglienza

La Stampa con un servizio alza il velo su una pratica inquietante: a Torino «almeno quattro future mamme sottoposte nell’ultimo anno a fecondazione assistita hanno deciso di selezionare i loro feti, facendo venire al mondo soltanto due dei figli di una gravidanza trigemellare. È successo al Sant’Anna, l’ospedale torinese delle mamme e dei bambini, ma probabilmente è quanto accade anche altrove».

Normalmente nell’ambito della fecondazione assistita è previsto l’impianto di tre embrioni nell’utero della donna, in modo da garantire al concepimento maggiori margini di riuscita. Le percentuali di successo, spiega La Stampa, si posizionano tra il 22 e il 35%, e in alcuni di questi casi la riuscita può essere anche superiore alle aspettative: due, o addirittura tutti e tre gli embrioni possono svilupparsi, portando appunto a un parto gemellare o trigemino.

La legge prevede l’eventualità di una embrioriduzione – la soppressione di uno dei nascituri – in caso di grave pericolo di vita per la madre o gli altri embrioni. In questi casi, però, alla base della decisione c’è stata una consulenza che sanciva la minaccia per la “salute psichica della futura madre”: scrive Accossato che «in tutte le relazioni psichiatriche indispensabili per autorizzare le embrioriduzioni, al Sant’Anna le difficoltà della donna ad accettare l’idea di essere madre di tre gemelli sono state determinanti».

Se le cose stanno così, l’interruzione di gravidanza si è basata sulla paura. Paura di vedere stravolta la propria vita, timore di inadeguatezza per un ruolo troppo impegnativo, dubbi sulla possibilità di reggere un bilancio dove le esigenze del bimbo tanto desiderato si moltiplicano per tre.

La scelta dell’embrioriduzione pone interrogativi anche a chi “ha finora dato il consenso a praticare senza preconcetti interruzioni volontarie di gravidanza”: «donne che hanno fatto di tutto per diventare madri, che hanno speso denaro ed energie fisiche ed emotive, decidono di sopprimere una vita diventata improvvisamente di troppo».

Un paradosso, conclude il giornalista. Che però, a ben vedere, non è l’unico.

In fondo, osservata da un punto di vista scientifico, la vita stessa è un paradosso: nasciamo per morire. E, in assenza di punti di riferimento etici, di una scala di valori, di uno scopo significativo, di una riflessione che ci porti a guardare oltre alla materialità, è indubbiamente così: la vita senza il valore aggiunto della fede diventa una corsa effimera e ingorda alla soddisfazione personale, senza limiti per sé e rispetto per gli altri. Con un unico imperativo: possedere tutto, subito e solo per noi.

La scelta dell’embrioriduzione è un trauma, indubbiamente. Una scelta che, vogliamo credere, non è stata fatta a cuor leggero e che speriamo possa venir superata prima possibile dalle vittime (sì, vittime: in questa storia non ci sono vincitori ma solo vinti).

L’unico vantaggio dei drammi è che ci aprono gli occhi e ci spingono a riflettere.

Fa specie pensare che una donna fino a ieri disposta a tutto per garantirsi una gravidanza, oggi si trovi paralizzata di fronte a una opzione che, si immagina, era stata comunque prospettata, come la possibilità di un parto trigemino.

Un imprevisto che cambia la vita, che crea qualche disagio – già due gemelli sono un impegno non indifferente – ma che non è una missione impossibile.

Sull’altro fronte, la sola idea di aborto selettivo mette i brividi. Il fatto che possa essere preceduto da una selezione – sopprimere il più piccolo, il più debole, il più svantaggiato – riporta alla mente incubi eugenetici di cui non vorremmo più sentir parlare.

E quindi? Forse sarebbe il caso di ripensare l’intero sistema legato alla fecondazione assistita: allo stato attuale delle cose «più che una consulenza psichiatrica – riflette un esperto – per decidere di eliminare uno dei futuri figli, occorrerebbe una consulenza più attenta prima di sottoporre la donna a Fivet: bisogna spiegare più chiaramente alle donne qual è la relazione tra embrioni impiantati e possibilità di sviluppare gravidanze multiple».

Forse, però, bisognerebbe andare ancora più in là: preparare i neogenitori a ogni eventualità, certo, ma anche creare un contesto umano e sociale adeguato che consenta loro di sviluppare la loro nuova vita familiare in maniera serena.

Certo, oggi sarebbe difficile tornare ai villaggi di una volta, dove l’aiuto reciproco era all’ordine del giorno.

Tuttavia qualcosa si potrebbe, e si dovrebbe, fare. Tirare su tre bebè può essere difficile e frustrante per una neomamma e un neopapà. Le cose però cambiano se si riesce a vivere questa esperienza in un contesto solidale e incoraggiante.

Creare le opportune condizioni dipende dalle amministrazioni pubbliche, ma dipende anche da noi, dal nostro approccio, dal nostro rapporto con gli altri.

A volte, in fondo, basta poco per creare un contesto accogliente, capace rendere anche una genitorialità impegnativa ciò che, alla fine, dovrebbe essere: una benedizione. Per tutti.

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Pubblicato il 27 ottobre, 2009, in Uncategorized con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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