Quel mistero chiamato vita
Sul delicato tema si era cimentato, di recente, anche il dr House: il celebre medico televisivo, per un giorno ricoverato fuori dal suo reparto, si trovava a contestare le opinioni del primario secondo il quale uno dei ricoverati era ormai irrecuperabile e destinato al trapianto.
Per una volta la realtà ha, se non superato, quantomeno raggiunto le iperboli della sceneggiatura: un uomo, Rom Houben, reduce da un incidente automobilistico nel 1983 e ritenuto irrecuperabile, è tornato a vivere. O, come dice lui ora, “sono nato un’altra volta”.
Per i medici, riporta la Stampa, era in stato vegetativo persistente, uno stato che non ammette ritorno. A quanto pare però l’uomo, pur non potendo esprimersi, era vivo e ricettivo: «Urlavo senza che nessuno potesse sentire – è riuscito a dire -. Sono stato il testimone della mia sofferenza mentre i dottori cercavano di parlarmi, sino al giorno in cui ci hanno rinunciato».
Inevitabile che, a un certo punto, i medici si rassegnassero all’incomunicabilità. Così sono passati 23 anni, in paziente attesa di sviluppi indefinibili e, per i pessimisti, improbabili.
“Cercavo di evadere sognando”, racconta ora l’uomo. Un sogno necessariamente lungo, se quando è cominciato – era il 1983 – era un giovane di 23 anni e attorno a lui il mondo era completamente diverso da quello di oggi.
Un sogno concluso – o, se preferite, divenuto realtà – grazie alla costanza di un neurologo e alle nuove tecnologie attraverso le quali Rom ha potuto riprendere i contatti con l’esterno.
Ora Steven Laureys, il neurologo dell’Università di Liegi che lo ha seguito e che ha reso pubblica la vicenda, scrive che «al 41 per cento di chi è in stato di minima incoscienza viene diagnosticato erroneamente uno stato vegetativo mentre sappiamo che tutti coloro che risultano consapevoli possono essere curati e compiere progressi significativi».
Il medico punta ad «attirare l’attenzione sui tanti casi di coma che, a suo avviso, potrebbero essere stati erroneamente diagnosticati in tutto il mondo» e «auspica che Rom sia il simbolo della sua battaglia contro il coma irreversibile diagnosticato troppo alla leggera».
Se queste sono le premesse, è facile prevedere che Rom Houben diventerà il principale testimonial della lotta all’eutanasia.
Il suo caso verrà propagandato da un lato, minimizzato dall’altro; verrà assediato dai media e dagli opposti estremismi, pronti a coprire con il chiacchiericcio delle arene televisive la sua flebile voce.
Nelle discussioni sulla sua vicenda verranno spese migliaia di parole, mentre ne basterebbero due: non sappiamo.
Sì, perché la voce di Rom, il suo lungo silenzio e la sua gioia per una vita ritrovata sono infatti lì a dirci che ancora oggi, all’alba del XXI secolo, abbiamo solo un labile barlume di conoscenza sui processi che regolano la nostra esistenza biologica.
Non sappiamo cosa succeda, come succeda, perché succede. Sappiamo solo che succede: e questo, nella nostra illusione di onnipotenza, ci basta per elaborare le nostre pretenziose teorie, sostenere le nostre posizioni, combattere le nostre guerre.
Invece non sappiamo. Non sappiamo come e quando comincia la vita, né come e quando finisce. Se la nostra risposta è che tutto dipende dal caso, allora per onestà intellettuale dovremmo astenerci dal dare una risposta definitiva, lasciando che il caso faccia il suo corso.
Se altresì crediamo che tutto dipenda da un abile architetto che ci ha creato in modo stupendo, dovremmo avere l’onestà intellettuale di astenerci dal prendere il suo posto decidendo noi, in base alle nostre scarse competenze, quale sia l’inizio o il termine di una vita.
In entrambi i casi, anche se non possiamo stabilirne l’inizio o la fine, dovremmo fare di tutto per valorizzarne il percorso. Sta infatti a noi far sì che nessuno trascorra la sua esistenza nell’apatia o nel terrore dell’ineluttabile, ma che tutti possano, un giorno, provare quella meravigliosa sensazione di rinascita vissuta da Rom, dopo 23 anni di prigionia.
Pubblicato il 24 novembre, 2009, in Uncategorized con tag apatia, architetto, assedio, attenzione, battaglia, biologia, coma, competenze, consapevolezza, costanza, diagnosi, discussioni, dottori, Dr. House, esistenza, esterno, estremisti, eutanasia, evasione, fine, giovane, guerre, improbabili, incidente, incomunicabilità, incoscienza, indefinibili, inizio, irrecuperabile, Liegi, media, medici, medico, Morte, nascere, neurologo, onestà, opinioni, parlare, parole, paziente, percorso, pessimisti, premesse, progressi, rassegnazione, reparto, ricettivo, rinascita, rinuncia, risposta, ritorno, Rom, Ron Houben, sceneggiatura, silenzio, sofferenza, sogno, stato vegetativo, Steven Laureys, tecnologie, Televisione, tema, teorie, terrore, testimone, testimonial, trapianto, università, uomo, urlare, Vita, vivere, vivo. Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.
Come ho avuto modo di affermare in altre occasioni, come cristiano sono contrario all’eutanasia, ma sono anche e soprattutto contrario ad ogni forma di accanimento terapeutico.
Sono certo che questa vicenda sarà sfruttata dai soliti talebani, travestiti da cristiani, che complottando col potere politico, stanno cercando di imporre cure non richieste a persone tenute in vita artificialmente, infliggendo loro una sorta di lunghissima e disumana tortura.
La vita è sacra, il Signore ce l’ha donata e abbiamo tutti il diritto-dovere di viverla pienamente e di viverla fino in fondo, e dobbiamo farlo anche quando la sofferenza la fa divenire meno comoda e meno bella; ma coloro che sono morbosamente legati alla vita terrena, che si rifiutano di tenere conto dei suoi limiti e della sua fragilità (che Dio ha permesso), dimostrano di non essere cristiani, o quantomeno di essere dei cristiani carnali, che hanno un sentimento diverso da quello di Gesù, diverso da quello di Paolo, e diverso da tutti i veri cristiani, che guardano al cielo e all’aldilà con serenità e con speranza, e non con paura.
Personalmente ho già dato disposizione ai miei a riguardo; se toccasse a me sanno che che dovranno adoperarsi per non permettere a nessuno di praticarmi cure e alimentazione forzata, con la speranza che i talebani facciano un passo indietro.
P.S. A prevenire inutili obiezioni ricordo che nella maggior parte dei casi quello che viene dato ai soggetti interessati non è cibo, non è pane o acqua, ma un intruglio chimico con farmaci di vario genere.