Scienza (in)esatta
Si fa presto a dare l’allarme: tanto, se il disastro non è imminente, tutti se ne dimenticheranno. Chi, per esempio, ricorda più l’allarme del principe Carlo, quando disse «Abbiamo 99 mesi prima del punto di non ritorno»?
Però stavolta ad Al Gore è andata male: da Copenaghen, con il tono grave di chi esprime una verità ineluttabile, «Al Gore ha lanciato l’allarme sulla possibilità che l’intera calotta polare artica sparisca nei prossimi 5-7 anni».
Una notizia mica da poco: un cambiamento simile potrebbe portare conseguenze disastrose a tutte le latitudini.
Il guru dell’ecologia altrui, fortunatamente, è stato smentito dalla sua stessa fonte: «”Non mi è chiaro come sia arrivato a questa cifra, io non farei mai una stima di probabilità così precisa“, ha dichiarato al “Times” Wieslav Maslowski, lo scienziato esperto di clima che l’ex vice presidente americano ha citato».
Sull’altro fronte Folco Quilici, documentarista di lungo corso, in un’intervista si dice più ottimista dell’ex vice di Clinton: i cambiamenti climatici sono normali, dice, basti vedere com’è oggi la “terra verde” che un tempo chiamarono Groenlandia.
Intanto un gruppetto di scienziati si fa pescare “con le mani sul computer”, come commenta Pierluigi Battista: con una comunella più consona a temi e discipline meno precise della loro si confrontavano sul modo migliore per aggiustare i dati – pardon, utilizzare i modelli di analisi più appropriati – laddove non confermavano le loro teorie.
Insomma, tira una brutta aria, ma a quanto pare non è colpa della natura né dell’uomo.
Che dietro all’ambientalismo politico ci fossero ragioni più convincenti (per il portafogli) della salvezza del pianeta si poteva anche sospettare. Che la scienza – o meglio, lo scienziato – facesse da sponda a queste intenzioni non era prevedibile né auspicabile: ci avevano giurato che i dati sono sacri, che la prova concreta è l’unica valida, che l’unico interesse superiore è quello della conoscenza, e poi eccoli ad addomesticare le informazioni.
Un comportamento poco onesto, poco etico, poco scientifico, che incrina la credibilità dei discepoli dell’analisi: si sa, basta un’irregolarità, un dubbio, un intervento fuori protocollo e anche i risultati ottenuti con il migliore “doppio cieco” perderanno la loro validità. Qualora poi l’imprevisto non venga riconosciuto, compromette l’attendibilità dei ricercatori. Il tentativo di coprire tutto rischia di provocare ripercussioni ancora più pesanti in termini di credibilità.
Se tutto questo è successo, sarà difficile convincere i comuni mortali che la climatologia è una scienza esatta. E che la scienza – in tutte le sue branche – è sempre e comunque una verità inoppugnabile, la religione della realtà, l’unica risposta possibile alle tante domande dell’essere umano.
Allora, prima che sia troppo tardi, ammettiamo che la scienza ha un limite: un limite che non consiste nella realtà fisica oggetto dei suoi studi, ma nei suoi umanissimi, ancorché autocompiaciuti, sacerdoti.
Pubblicato il 17 dicembre, 2009, in Uncategorized con tag Al Gore, allarme, ambiente, analisi, aria, attendibilità, calotta, cambiamenti, Carlo, cifra, cilma, clima, climatologia, Clinton, comportamento, conseguenze, Copenaghen, credibilità, dati, disastro, discepoli, dubbio, Folco Quilici, fonte, Groenlandia, imprevisto, informazioni, intervento, irregolarità, limite, modelli, natura, pianeta, polare, portafogli, probabilità, protocollo, ragioni, ricercatori, riepercussioni, risposta, risultati, sacerdoti, scienziato, stima, tentativo, teorie, uomo, validità. Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.
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