La tentazione del virtuale

La tecnologia ha cambiato l’uomo contemporaneo, le sue relazioni e le sue abitudini: come rifletteva l’antropologo Franco La Cecla su Avvenire, parlando dell’ultima frontiera – i navigatori satellitari – abbiamo ormai perso l’abitudine di affidarci al prossimo, al passante che ci indica la via. Ormai, scrive, viviamo nella nostra “solitudine autosufficiente”.

Potremmo aggiungere che forse – ed è perfino peggio – siamo convinti di essere progrediti, moderni, aggiornati.

E invece a guardarci da fuori, se ne converrà, facciamo solo ridere: ci perdiamo per stradine sterrate ponendo cieca fiducia nelle indicazioni di una macchinetta elettronica; camminiamo, guidiamo, riposiamo, lavoriamo, dando l’idea di parlare da soli, in compagnia virtuale di un interlocutore lontano che la tecnologia ci fa sentire più vicino del nostro prossimo.

È il progresso, bellezza: per gli amici c’è facebook, per allargare la cerchia di contatti c’è la chat, per i familiari lontani ci sono i sms, per rispondere ai nostri dubbi c’è wikipedia, per trovare l’introvabile c’è google, per azzeccare la strada c’è il navigatore satellitare.

Viviamo un’autosufficienza di marca edonistica, dove l’altro non serve più. Né serve la conoscenza: con il risultato che le nozioni non si imparano (tanto c’è Internet), che le strade non si ricordano (tanto c’è il navigatore), con i vicini non si dialoga (tanto i nostri amici sono in tutt’altra parte del mondo).

Poco importa che ci sfugga l’esistenza di un palazzo accanto al nostro, di una via secondaria, di un negozio o di un ufficio a poche decine di metri da dove abitiamo.

Poco importa che, ormai, il nostro dirimpettaio può sparire per settimane senza che noi ce ne accorgiamo, mentre conosciamo in tempo reale le mosse dei nostri contatti elettronici.

Poco importa che il vero amico si riconosca dalla presenza fisica, e che una parte importante dell’amicizia consista nel sopportare i difetti dell’altro, quelli che si manifestano quando si chiude la connessione.

Non abbiamo più bisogno degli altri, o almeno vogliamo farlo credere. Viviamo il nostro aureo isolamento, convinti che sia una inevitabile conseguenza progresso, dimenticando che la macchina è creata per l’uomo, e non viceversa.

Sia chiaro, non è sbagliato usare la tecnologia. Semmai è sbagliato abusarne, confondendo la vita reale con la sua proiezione virtuale dove mostriamo solo il meglio di noi, dove siamo quel che vogliamo senza limiti e confini, dove la fantasia si lascia blandire dal mistero e il desiderio completa a modo nostro quel che non sappiamo su chi ci sta di fronte, tratteggiandolo nei nostri pensieri con la perfezione di un essere quasi soprannaturale.

È sbagliato rifiutarsi di vivere la propria vita, la propria realtà, il proprio mondo, rifugiandosi nell’utopia che un altro mondo sia possibile.

Per istinto di sopravvivenza tendiamo a evitare le brutte sorprese, e la realtà che ci costruiamo tende a tutelarci dagli imbarazzi di incontri non voluti e situazioni indesiderate.

Giungere a destinazione per la via più rapida e veloce ci permette di risparmiare tempo, fatica, impegno. Ma non è detto che l’imprevisto debba per forza avere l’aspetto di un disagio. Non è detto che la necessità di fermare la propria esistenza virtuale per qualche ora, al di là della frustrazione che può provocare, debba essere qualcosa di negativo.

Perdersi comporta disagi, ma ha anche i suoi vantaggi. Uscire di casa ci isola dalla realtà virtuale che ci siamo creati, ma allo stesso tempo ci consente di scoprirne una nuova. Vera, stavolta.

E allora, evitiamo di usare la tecnologia come un alibi per non tuffarci nella vita reale. Abbiamo uno scopo nella vita da portare avanti (o da scoprire). Non è questione di bit, ma di cuore. Usiamolo.

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