Cristiani a Terra

Le recenti vicende dei cristiani in Marocco, contro i quali si è registrato un rinnovato rigore da parte delle autorità, continua a far parlare l’Occidente: non quanto altre vicende, ma è sempre meglio di niente.

La scorsa settimana se n’è occupato anche Terra, settimanale di approfondimento di Canale 5, che ha dedicato una puntata agli “Infelici come una pasqua”, i cristiani perseguitati. Dopo un servizio dalla Nigeria – fronte sempre caldo, purtroppo – e dal Kosovo delle intolleranze serbe, è toccato appunto ai fatti marocchini.

Ed è emersa una situazione difficile, dove la libertà di culto è di fatto limitata nei confronti dei cristiani a una tolleranza, che devono muoversi con costante cautela per evitare l’accusa di proselitismo.

Tanto che, per qualche chiesa, la presenza cristiana è diventata ormai la constatazione notarile di una inevitabile estinzione, la conservazione di uno status quo, la rappresentanza di una ragione sociale, più che un impegno a trasmettere la speranza di Cristo.

È comprensibile e rispettabile la paura di chi vive in partibus infidelium. E sono giustificabili anche le parole, fin troppo soppesate e neutrali, nei confronti delle autorità marocchine.

A vederlo da fuori, il quadro della presenza cristiana in Marocco non è per niente confortante. Specie quando, nel mettere le mani avanti per garantire la sopravvivenza di un locale di culto, si finisce per sottolineare distinzioni confessionali laddove ci sarebbe invece bisogno di quell’unità così spesso invocata in altre latitudini.

Nel servizio di Terra, al di là della consueta ignoranza dei giornalisti nostrani, che non conoscono la differenza tra evangelici per evangelisti, spiace sentire il parroco cattolico di Meknes dire che, per motivi di sicurezza e di opportunità, il battesimo viene rifiutato a qualunque marocchino, non solo a coloro che possono essere in odore di forzatura o vittime di plagio, ma anche a quanti dimostrano di aver fatto una profonda esperienza spirituale cristiana.

Ma spiace ancora di più sentire don André Jouguet, vicario generale dell’arcivescovado cattolico di Rabat, affermare che «con le persone espulse per motivi di proselitismo non abbiamo niente a che fare. Sono cristiani che non conosciamo perché sono gruppi protestanti e anche la stessa chiesa protestante ufficiale non li conosce…
per contro siamo stati ugualmente toccati per l’esplusione di un giovane francescano egiziano, aspettiamo che le autorità, se possibile, ci diano spiegazioni».

Si tratta di distinguo speciosi e piuttosto pavidi, ossequi gratuiti verso autorità locali che, a quanto pare, non guardano alle denominazioni, irridendo le puerili obiezioni di chi, per un utile contingente, vorrebbe tracciare un solco tra “noi” e “loro”, distinguendo tra i “sommersi” che si assumono i rischi di una testimonianza cristiana propriamente detta e i “salvati” che si adeguano senza “se” e senza “ma” a una presenza mutilata nella sua componente evangelistica.

Avrà le sue ragioni, indubbiamente, il presule. Probabilmente anche valide e ponderate. Ma viene davvero da chiedersi quale sia il senso e quale possa essere il futuro di una chiesa cristiana – parliamo della chiesa marocchina, ma anche di quella europea – se, per quieto vivere, accetta la condizione di restare una enclave in terra straniera, anziché radicarsi con sobrietà e tatto, ma anche fiera della sua cultura e del suo Messaggio, nel luogo in cui è stata posta.

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Pubblicato il 8 aprile, 2010, in Uncategorized con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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