Lo scrupolo del “perché io?”

È passato poco più di un mese, e come tutti i casi di cronaca, per quanto gravi siano, anche questo è stato ormai archiviato. Nessuno ne parla più, e in effetti non ce ne sarebbe motivo: un uomo, roso da un’instabilità mentale e da problemi familiari, ha ucciso la ex moglie e altre due persone con cui aveva un contenzioso, trasformando la Bassa padana in un far west e scatenando il panico tra la popolazione per un pomeriggio intero.

Loro sono morti, lui è in carcere (o in cura), il caso è chiuso. Eppure qualche domanda, a distanza di un mese, bisogna porsela: perché, rispetto a tanti uxoricidi, questo è complicato da due elementi che impensieriscono, o almeno dovrebbero farlo.


Innanzitutto perché il delitto in questione era una tragedia annunciata: l’uomo girava armato, minacciava, e non a caso gli amici del bar lo chiamavano Rambo; tuttavia nessuno si è mosso per fare qualcosa, delegando di fatto ogni possibile azione alle autorità.

Su questi conoscenti si interrogava Paolo Di Stefano sul Corriere: «Non li sfiora nemmeno il dubbio che forse, prima, qualcosa avrebbero potuto dire/fare pure loro, anche senza vestire la divisa della ronda di quartiere?» Nessuno è stato capace di «una segnalazione discreta, un cenno alle autorità. Che valutassero, che controllassero. Niente. E allora ci si chiede: esisterà pure una zona franca di discrezione e di civiltà tra l’essere spia della Stasi… e il mutismo molto italiota del “meglio farsi gli affari propri”, l’alzata di spalle, l’indifferente passività della cittadinanza».

Forse invece è proprio questo che ci manca: la giusta via di mezzo tra la riservatezza e l’invadenza che permette di sapere senza curiosare, di temperare la conoscenza con la discrezione, di essere presenti senza esagerare.
La Bibbia definiva questo atteggiamento “amore per il prossimo”, quando rammentava ai primi cristiani di astenersi dalle “chiacchiere da vecchie”, e allo stesso tempo lodava il Samaritano capace di soccorrere un moribondo superando l’umanissimo scrupolo del “perché dovrei farlo io?”.

Impensierisce l’atteggiamento di chi non interviene, ma fanno riflettere anche le motivazioni di chi, probabilmente, interverrà.
«Non sarà facile capire dove finisce l’invadenza e dove comincia la responsabilità civile», chiosa Di Stefano. E se ci riusciremo, probabilmente sarà non per un afflato etico, ma per un mero interesse personale: non per il bene di tutti, ma per non finire noi stessi in prima persona nel mirino del conoscente (st)Rambo “con qualche conto in sospeso”, in una lotta senza quartiere né alleanze stabili.

Intervenire per egoismo è sempre meglio che non intervenire, si obietterà. Sul piano pratico, forse sì. Ma l’azione che non viene mossa dalla motivazione rischia di non produrre il risultato voluto.
Non dovremmo dimenticare che quello stesso egoismo, fino a oggi, ha convinto tutti a tacere, invece che ad agire. Domani, con la stessa logica, potrebbe spingere a intervenire in maniera abnorme, trasformando di colpo una società paurosa in una giungla. E certo non è questo il futuro che vorremmo.

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Pubblicato il 3 giugno, 2010, in Uncategorized con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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