Archivio mensile:marzo 2018

Botti in rete

È bastato un botto – potente, a dire il vero – per rivelare i limiti di tutto questo dibattito. Giovedì mattina, poco dopo le 11, la Lombardia è stata scossa da un colpo secco che ha fatto temere il peggio. Molti sono scesi nelle strade e qualche ufficio pubblico è stato evacuato; alla fine si è scoperto che si era trattato di una manovra di emergenza da parte di due caccia italiani che, per un allarme poi rientrato, hanno superato il muro del suono sui cieli della Lombardia, provocando il fragore che si diceva.

Mentre sui social quasi tutti si interrogavano con inquietudine, cercando di capire le cause e l’estensione della presunta esplosione – di questi tempi, ormai, si teme sempre il peggio – più di qualcuno aveva il coraggio di intromettersi nel dialogo tra utenti con battute che denotavano un’immaturità degna di altre fasce anagrafiche; uno sciagurato utente ha addirittura annunciato con sicurezza un’esplosione, squadernando perfino città e via in cui sarebbe accaduta, senza pensare alle conseguenze delle sue parole (si chiama “procurato allarme” ed è perseguibile legalmente. Sì, anche sui social).

L’episodio, come si diceva, ha riportato i discorsi di questi giorni sui binari di una realtà molto più banale e penosa: i social, nell’occasione, hanno infatti dimostrato di poter essere un utile strumento di comunicazione orizzontale, fungendo all’occorrenza anche da rete di primo soccorso. A inquinarne l’utilizzo virtuoso non sono tanto aziende dalle intenzioni opache o i vituperati pirati telematici, ma il capitale umano che frequenta quelle stesse piattaforme senza prima accendere il buonsenso.

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Il problema dei social

Il fenomeno social comincia a mostrare le prime crepe: le piattaforme che sembravano il futuro della socialità, dell’interazione umana e commerciale, della vita privata e pubblica sono diventate, improvvisamente, il male assoluto. È bastato uno scandalo sollevato dai media, ossia la scoperta che un’azienda privata, avvalendosi dei dati ottenuti impropriamente dal maggiore social network, fornisce servizi quantomeno spregiudicati in grado di cambiare le sorti della società e (forse, in parte) della democrazia, e nel giro di qualche giorno sono diventati tutti sospettosi. Coloro che condividevano senza ritegno i propri viaggi, le preferenze musicali, i ristoranti visitati, i gusti in fatto di abbigliamento, le scelte politiche, sono diventati di colpo gelosi della propria privacy, tanto da annunciare perfino l’intenzione di abbandonare i social (date loro qualche giorno e vedrete che il proposito lascerà spazio all’astinenza). Forse quindi la vicenda, alla fine, avrà un risvolto salutare: dopo questa lezione almeno i più accorti cominceranno a usare le piattaforme in maniera più responsabile.

Certo, resta una questione di fondo, e non da oggi: come porsi di fronte ai possibili abusi, alla potenziale razzia di dati, all’eventuale utilizzo improprio da parte di chi li detiene. Perché, riflette Daniele Bellasio su Repubblica, «il problema non sono i Big Data, le tracce di noi che lasciamo in Rete, ma come sono usati e da chi». Se i depositari di questi dati non vogliono autoregolarsi, non rimane che sperare in una legislazione efficace e, non ultimo, nella saggezza degli utenti. Confidando che siano maturi abbastanza da capire fino a che punto vale la pena di cedere porzioni della propria libertà in cambio di una maggiore comodità.

Via Fani, quarant’anni fa

Sono passati quarant’anni dall’agguato di via Fani, che vide il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, inizio di un dramma che culminerà, cinquantacinque giorni dopo, nell’omicidio dello statista. Nel corso della settimana sui quotidiani e nei programmi televisivi si è ampiamente rievocata la vicenda, che viene ricordata unanimemente come il momento più odioso della strategia brigatista. Si commemorano i cinque uomini della scorta, servitori dello Stato caduti in servizio e troppo spesso lasciati sullo sfondo (come sottolinea Claudio Magris sul Corriere); si ripropongono le testimonianze dei terroristi (persone che, commenta Aldo Grasso, si dimostrano «di una povertà intellettuale disarmante: parlano ancora di rivoluzione, di controinformazione, sono convinti di aver partecipato a una guerra nel nome del popolo oppresso. Mai un refolo di contrizione»).

E, naturalmente, si ricorda Aldo Moro. Moro uomo di dialogo (dialogo di cui in particolare oggi, si legge tra le righe, si sente un grande bisogno), “uomo delle complessità, non amante delle soluzioni semplici, delle scorciatoie” (così il nipote Renato, docente universitario). Moro uomo di fede: «Non ha mai fatto esibizione della sua fede, che pure era profondissima», credente cattolico e allo stesso tempo “uno dei politici più laici della storia repubblicana”.

Un ritratto cui Avvenire aggiunge un dettaglio inedito: alla vigilia di quei fatti, inconsapevole del suo destino, «Aldo Moro fu scoperto dal figlio Giovanni, all’una di notte, ancora immerso nella lettura di un testo di teologia: Il Dio crocefisso del protestante Jürgen Moltmann».

La religione dell’io

Arriva al cinema a fine mese un film che parla di religione. Ma di una religione nuova che (formalmente) non esiste: lo ionismo. Si tratta di una pellicola italiana che, partendo dalla commedia all’italiana, ironizza sulle religioni creandone una che metta al centro l’esaltazione dell’ego. «Un concetto questo che – spiega il regista -, traslato su ogni aspetto della nostra vita, religioso, politico o sociale che sia, mi sembra estremamente contemporaneo». E racconta che «leggevo, mentre scrivevo il film, che in Brasile, il più grande Paese cattolico del mondo, i cattolici sono ormai solo il cinquanta per cento della popolazione. La maggior parte dei brasiliani si sta convertendo alla Assembleia de Deus, un movimento evangelico che sostiene che Dio si può manifestare attraverso chiunque, non solo i pastori. Volendo, in tale approccio si potrebbe leggere una sorta di democratizzazione della religione. Del resto, nell’epoca in cui viviamo, se un blogger si crede uno scrittore e uno youtuber un opinionista, perché mai un fedele non può riconoscere in se stesso un profeta?».

Il passo indietro

«Una donna, per quanto in vista, deve sempre dare luce al suo uomo. E la luce, il sostegno, la vicinanza, spesso si danno arretrando»: fanno discutere le parole di Elisa Isoardi, conduttrice Rai nonché compagna di Matteo Salvini, che in un’intervista a Oggi ha annunciato un passo indietro per non rubare i riflettori nel momento culmine della carriera politica del suo uomo (o magari, semplicemente, per non approfittarne professionalmente). Gesto di solidarietà ammirevole in una coppia solida o scelta fuori dal tempo e dal sentire comune?

È doverosa una premessa: la questione riguarda, in ultima analisi, il rapporto tra due persone e farsi gli affari altrui non è mai educato. Volendo però elevare il discorso a una questione di principio (l’alibi preferito dei ficcanaso) forse il dilemma che attanaglia i dibattiti tra posizioni tradizionaliste e femministe si potrebbe risolvere semplicemente guardando la questione dal versante opposto: quando in passato le cronache ci hanno raccontato di un uomo che ha fatto un passo indietro per tirare la volata alla carriera di sua moglie, quali sono state le reazioni dei benpensanti? Se all’epoca sui media avete letto conclusioni diametralmente opposte a quelle odierne, allora le parole di questi giorni non esprimono buone intenzioni ma un problema ideologico. Come se l’unico modo di agevolare il progresso consistesse nel mettere all’angolo, sempre e comunque, l’uomo.

Pretese digitali

Negli ultimi giorni sono salite ai (dis)onori delle cronache le proteste degli utenti abusivi di Spotify, una piattaforma che consente l’ascolto di musica online. Il problema si è posto quando l’azienda ha avuto l’ardire di sollecitare quanti utilizzavano la versione premium (10 euro al mese) senza pagare: gli utenti si sono scatenati contro quella che hanno visto come un’ingiustizia o una truffa, ribaltando la prospettiva tra vittima e carnefice e ribadendo, di fatto, l’orgoglio di derubare la società, in nome di un teorico diritto alla gratuità. Un atteggiamento assurdo che non tocca solo Spotify, ma l’approccio degli utenti a ogni aspetto della rete: «a furia di regalare contenuti nel digitale – riflette Gigio Rancilio – il sistema non ha fatto crescere degli utenti o un pubblico ma ha fatto regredire molti adulti nel ruolo di bambini viziati che devono avere tutto ciò che desiderano senza alcuno sforzo o esborso. Gente che pretende. E se non ottiene subito ciò che vuole alle sue condizioni, protesta, offende, attacca, stronca. Senza mai sentire ragione. Senza mai farsi non dico un esame di coscienza ma almeno una domanda: non è che stavolta ho torto?». E persone di questo genere, conclude con una punta di amarezza, «spesso si comportano così in ogni ambito della vita».

Il tramonto di un’epoca

Le elezioni politiche si sono rivelate un vero terremoto: oltre la metà dei votanti ha scelto il cambiamento – se non proprio la protesta – confermando così i sentori della vigilia. Un ribaltone che sembra ricalcato sulle dinamiche da reality show, dove la comunicazione efficace fa premio sulle competenze e le eliminazioni penalizzano chi non ha saputo raccontare, convincere, far sognare. Forse non si poteva sperare andasse diversamente, dopo una campagna elettorale senza contenuti; o forse il responso è il frutto di un approccio social alla politica, in una ritrovata, ancorché anomala, dinamica orizzontale che permette a tutti di esprimere le proprie opinioni politiche o pre-politiche, spesso senza contraddittorio e condite da insulti (ma evidentemente è il prezzo da pagare all’agorà telematica). Se, nel bene o nel male, ci stiamo avviando verso una nuova democrazia diretta – come sarebbe piaciuto a Gianroberto Casaleggio – avremo tempo di scoprirlo; per ora si registra uno stravolgimento nel modo di intendere la rappresentanza e, si parva licet, il senso di comunità.

Il tramonto di una fase politica, infatti, è anche l’occasione per riflettere sull’estinzione di un modo di vedere la società: sono scomparsi, rileva Pierluigi Battista sul Corriere, i corpi intermedi come i partiti, le cooperative, i sindacati, le banche popolari, tutti gli elementi che creavano coesione ed erano fondamentali per tenere in vita il tessuto sociale. La disintermediazione li ha lasciati dietro di sé, ma senza offrire altre soluzioni: oggi si fatica a percepire l’appartenenza a un corpo sociale, dalla famiglia in su. «C’è qualcosa di sbagliato nel modo con cui abbiamo concettualizzato l’ingresso nella tumultuosa post-modernità», conclude Battista. Volevamo sentirci liberi, e invece ci siamo ritrovati soli.

Secondi fini

Il comune pensa di tassare le attività commerciali gestite dalle comunità religiose cittadine, e le chiese indignate chiudono per protesta: succede a Gerusalemme, dove lo scorso fine settimana il Santo Sepolcro è rimasto chiuso contro l’ipotesi di sospendere l’esenzione delle tasse sulle pertinenze (non sui locali di culto) delle chiese cittadine. Il patriarca greco ortodosso e il suo omologo armeno hanno denunciato “una campagna sistematica di Israele volta a danneggiare la comunità cristiana”, scomodando peraltro esempi storici decisamente fuori scala. La questione si è risolta mercoledì: di fronte al passo indietro del Parlamento israeliano, i responsabili delle chiese hanno annunciato che la Chiesa del Santo Sepolcro riaprirà a breve.

A quanto pare, dunque, la sfida non sfiorava la libertà religiosa né influenzava l’autodeterminazione delle confessioni religiose, ma era solo una questione economica: non il modo migliore per promuovere il messaggio di cui le comunità in questione si considerano testimoni.