Sanremo in parole

Quella che si apre è la settimana di Sanremo: da martedì 4 a sabato 8 febbraio il Teatro Ariston tornerà al centro delle cronache nazionali. E, nonostante i tentativi di boicottaggio, lo snobismo di chi non lo guarda da decenni, le critiche preventive di chi avrebbe saputo fare meglio, le invidie di chi non è stato invitato, il candore di chi improvvisamente scopre che è tutta una messinscena (il fatto che si parli di “spettacolo”, però, aveva già sollevato qualche sospetto nei più avvertiti), il Festival – giunto alla sua 70ma edizione – è ancora un momento di condivisione, uno dei pochi rimasti, sopravvissuto alle epoche, a se stesso e alla cannibalizzazione della tecnologia (che, anzi, dopo un momento di disorientamento pare stia cavalcando egregiamente). Se a far parlare della kermesse è prevalentemente il contorno – gli esclusi, gli ospiti, le gaffe, i cachet – è pur sempre la musica il fulcro delle cinque giornate, e con i brani bisogna fare i conti. Nel nostro piccolo abbiamo voluto dare un’occhiata in anteprima ai testi, per vedere di che cosa parlano quest’anno gli artisti in gara. Naturalmente lo facciamo senza la pretesa di dare patenti sociologiche, né avrebbe senso considerare Sanremo lo specchio dell’Italia che cambia, per quanto, nel suo piccolo, anche Sanremo qualcosa può dire. Per esempio sorprende che la categoria dei big presenti 24 proposte, e tra queste siano almeno una dozzina i nomi sconosciuti a chi è nato prima degli anni Novanta: una novità che pare in linea con la smania di rinnovamento che si vuole leggere nel Paese.

Ma questo in fondo è solo colore: a Sanremo, si sa, si giudicano (o si dovrebbero giudicare) i brani. E allora vediamoli, in rapida carrellata, i temi di questi brani che cantano l’impegno, il disimpegno e – naturalmente – l’amore.

Cominciamo da Achille Lauro – l’elemento scandalo dell’edizione 2019, normalizzato a tempo di record – che prosegue nel suo approccio maudit raccontando una storia ermetica e disperata con qualche sprazzo di lucidità sulla ricerca irrisolta dell’essere umano (“Lei che dice a me “voglio te”/ ma vuole quello che non sa di sé”).
Alberto Urso, voce lirica di Amici, si cimenta in un brano d’amore emigrante (“nel mondo ovunque vada mi ricorderà la strada che porta fino a te”).
La rabbia e la frustrazione pervadono invece il rap di Marco Anastasio (nato nella fucina di X Factor) sospeso tra attentati falliti e rivoluzioni auspicate.
L’inedito duo Bugo/Morgan denuncia l’abito troppo stretto del perbenismo velato di ipocrisia che ingessa la loro vita (“volevo vestirmi male e andare sempre in crisi, e invece faccio sorrisi a ogni scemo”).
Alla poesia – e al rumore, titolo del suo brano – si affida Diodato per dare voce al suo amore (“Capisco che, per quanto io fugga, torno sempre a te”).
Disimpegno e baccano caratterizzano Elettra Lamborghini (se ve lo state chiedendo: no, non è un nome d’arte), che in un italiano con inserti spagnoli ripete allo sfinimento il titolo del brano (“Musica, e il resto scompare”) tra disinvoltura millennial, antico rammarico (“sì, mi hai chiamato con il nome di un’altra”) e piccole rivalse («anche se non mi hai detto mai “quanto sei bella” io non ho mai smesso di sorridere»).
Stesso filone, ma con riferimenti più alti, per i Pinguini tattici nucleari, esponenti di una generazione incompiuta e malinconica che si sente perennemente nell’ombra e si descrive citando i Beatles: “In un mondo di John e Paul io sono Ringo Starr”. E, in attesa di decidere che strada prendere, si stordisce ballando.
Fragilità interiore e una storia al capolinea, invece, nelle parole di Elodie, pronta a un distacco, ancorché poco convinto (“Non sarai mio marito, no… ti prego giurami che non mi dirai mon ami“).
Invoca effusioni risolutive Enrico Nigotti (“baciami adesso”), mentre suona complesso come sempre Francesco Gabbani, in gara con un testo d’amore dall’approccio alternativo, colmo di rimandi, che ruota attorno a un concetto basilare in ogni relazione: “sei tu che mi fai stare bene quando io sto male e viceversa”.
Giordana Angi (altro rappresentante di Amici) canta l’importanza di sua (e di ogni) madre; la musica è invece al centro del testo sanremese di Irene Grandi (scritto ancora una volta da Vasco Rossi), autoritratto di una ragazza “da sempre arrabbiata, da sempre sbagliata, e ancora così”, “innamorata della libertà” e a suo agio, contenta lei, solo sul palco (“lo sai che quando canto… finalmente io”).
Junior Cally, l’elemento-scandalo di questa edizione, si propone – prevedibilmente – come elemento di rottura; nella sua canzone seppellisce il divismo, il politicamente corretto e il razzismo dietro una raffica di “no grazie”.
Ricerca minimalista di serenità, equilibrio e felicità nel testo delle Vibrazioni (“chiedimi qualsiasi cosa basta che mi dici dov’è la mia gioia”).
Vaghi riferimenti spirituali tra accettazione e rassegnazione per Levante (“siamo chiese aperte a tarda sera… siamo l’amen di una preghiera”).
Marco Masini torna a trent’anni dall’esordio (quando graffiava sulle note di “Disperato” correva l’anno 1990) con una canzone in cui si guarda dentro e fa il punto tra disincanto, fallimenti e nuove chance di rialzarsi («Ma cosa aspetti a dire basta e in quello specchio a urlare “cambia faccia”»).
Michele Zarrillo nel suo brano parla a un amico confessando il desiderio di serenità (una costante, tra i temi di quest’anno) in una società confusa che smarrisce il proprio senso di umanità.
Delicato il testo di Paolo Jannacci, che confessa le paure e le speranze di un padre per una figlia che cresce (“Tu resti un po’ mia. Non sarà mai pronto a dirti sì, ma quando vai, sai che mi trovi qui”); parla invece di suo nipote – il tempo passa per tutti -, ma senza allontanarsi dal suo stile, anche il veteroribelle Piero Pelù, che in “Gigante” travolge il pargolo con un approccio motivazionale (“Tu sei molto più di quello che credi, di quello che vedi… spacca l’infinito e rubagli un minuto al mondo”).
Parte da una mela invece il rap di Rancore, che sciorina una raffica di riferimenti che vanno dall’Undici Settembre alla mitologia greca, passando per Newton, Magritte, Guglielmo Tell e la Genesi; tutta un’altra musica rispetto alle parole rarefatte di Raphael Gualazzi e al suo sogno carioca.
Riki ripercorre una storia al tramonto su cui aleggia l’incomunicabilità, e pare rivisitare in chiave digitale il celebre “ti telefono o no” della Nannini (“ti scrivo e dopo cancello, non ti scrivo che tanto è inutile”) mentre, tra i messaggi mai spediti e i silenzi assordanti, si susseguono partenze e ritorni.
Rilegge la sua vita con un retrogusto amaro, invece, Rita Pavone (in gara con un brano scritto da suo figlio), delusa dalla vita dagli amici ma nonostante tutto battagliera come sempre (“non hai mai saputo spezzarmi, travolgermi. Resto qui nel fitto di un bosco e il tuo vento non mi piegherà”).
Chiude il cerchio Tosca, che prova a bissare il successo ottenuto nel 1996 insieme a Ron cantando, quest’anno, l’amore di una vita (“Se tu mi chiedi in questa vita che cosa ho fatto io ti rispondo ho amato, ho amato tutto”).

Fin qui i testi. Da martedì la parola passa alla musica.


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Pubblicato il 31 gennaio, 2020 su editoriali. Aggiungi ai preferiti il collegamento . Lascia un commento.

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