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Si può dare di più
I Salwen sono una classica famiglia americana, di quelle che i film hanno reso un simbolo degli Stati Uniti: padre, madre, due figli (ovviamente maschio e femmina), una villa comoda con quattro stanze e altrettanti bagni, e poi il giardinetto, un’auto confortevole e tutto il resto.
In questo resto era compresa anche una vita da buoni cristiani, di quelle che noi dovremmo guardare sentendoci inadeguati: facevano beneficenza, il padre organizzava aste di abiti usati per raccogliere fondi da dare ai poveri, i figli svolgevano ore di volontariato (da noi, invece, se un figlio si propone di dedicare tempo ai bisognosi, perfino il cristiano più maturo è tentato di replicare: “cosa ci guadagni?”. Segno che la cultura materialistica forse è un problema più marcato di quanto vorremmo credere).
Insomma, come sopra: la classica famiglia americana. Fino a quando una domanda ha attraversato la loro mente e (soprattutto) la loro vita.
Telecomandi e telecomandati
Gli adolescenti che esagerano con tv e internet sono più problematici degli altri: lo rivela una ricerca della Società italiana di pediatria, che nei giorni scorsi ha reso pubblici i risultati di un’indagine condotta su 1300 studenti tra i 12 e i 14 anni.
Se Internet, con i suoi social network, i messaggi istantanei e le chat, è ormai un must per i teenager, la tv è tornata in auge dopo un periodo di minore attenzione: i ragazzi navigano in rete e si fanno compagnia con la tv. Ma non, come si potrebbe pensare, mentre chattano con gli amici: la televisione, per la maggior parte di loro, si accende alla sera, a cena. Quando, probabilmente, sono lasciati soli da genitori troppo presi dal lavoro, o sono in loro compagnia ma hanno, evidentemente, poco da dire e all’assordante silenzio di una tavola senza parole preferiscono lo sciapo sottofondo di un programma.
Un quadro sconsolante, che offre alcuni dati interessanti. Internet, ormai, è il mezzo di interazione più gettonato, ma la televisione resta ben presente nel loro immaginario: la guardano a cena, ma anche direttamente sullo schermo del pc, attraverso i filmati che quasi tutti scaricano dalla rete.
Se per loro la rete è il mondo di relazione, la televisione è maestra di vita: attraverso i suoi programmi assorbono valori e trovano battaglie da combattere, atteggiamenti da sostenere, mode da seguire, guru da ascoltare, personaggi da imitare.
Se il consumo resta nella modica quantità, la televisione sarà solo una delle voci, e attraverso il confronto i ragazzi potranno trovare una posizione equilibrata. Quando però la fruizione deborda oltre il buonsenso e la televisione diventa l’unica voce, il suo universo invade l’immaginario dello spettatore: può succederci allora di fare nostri i suoi valori, di chiamare i personaggi televisivi per nome, di scambiare gli amici con i protagonisti dei talk show, di dare credito a chi non lo merita, di crearci un mondo di immagini, egoismi e consumi dove le parole d’ordine sono “prenditi cura di te”, “tutto intorno a te”, “perché io valgo”, e via degradando.
Si fa presto a dire “a me non succede”, “posso smettere quando voglio”. La dipendenza è sempre in agguato e il rischio, ancora più grave in quanto subdolo, non è di perdere la salute, ma la consapevolezza di ciò che conta. Che, a ben guardare, è anche peggio.
La fatica di sentirsi vivi
Stando a una ricerca riportata dalla Stampa e basata sulle risposte di 1500 ragazzi, l’alcol è l’ultima frontiera dei giovanissimi. Cominciano a bere presto, già a undici anni, e a quindici sono esperti di intrugli ad alta gradazione.
Lo fanno «per non pensare alle cose brutte», «per sentirsi invincibile», «sciolto, libero, felice», addirittura «più bello», perché «è una cosa da duri», «si ha l’impressione che niente può andare storto». Ma anche «per una botta di vita», «per divertimento», «per fare colpo», «per essere figo».
Paola Nicolini, l’esperta che ha curato la ricerca, l’ha chiamata “sbronza preventiva”: «non ci si ubriaca più per dimenticare ma per vivere». Capovolgendo, di fatto, la prospettiva dei bevitori delle precedenti generazioni.
Spiega l’esperta che tra i teenager «nessuno associa l’ubriachezza al timore di essere scoperto, al senso del proibito, alla trasgressione. La birra, il vino, la vodka, il rum, il limoncello sono la stampella di un Io fragile che cerca conferme nel gruppo. Tutti vogliono essere simpatici, spiritosi, brillanti. E bere aiuta».
Di fronte ad abitudini così poco raccomandabili le famiglie sono in difficoltà: la ricerca rivela «il disorientamento e il senso d’impotenza delle famiglie» che sanno del vizio dei figli, vogliono capirne i motivi e si ripromettono anche decisioni di polso, ma poi scaricano la responsabilità sulle autorità, facendo appello a “leggi” e “controlli” e ammettendo, così, la loro sostanziale incapacità.
A quanto pare, quindi, il problema non è solo dei figli. Se il massimo che i genitori sanno fare è minacciare provvedimenti o rivolgersi a “chi di competenza”, evidentemente non hanno argomenti migliori. Argomenti che dovrebbero passare per termini come educazione e disciplina, e che presuppongono concetti come valori e morale.
Trovarsi di fronte a un figlio adolescente brillo dovrebbe portare un moto d’orgoglio e di responsabilità. Dovrebbe risvegliare nei genitori il buonsenso sopito, riattivare l’attenzione verso i punti di riferimento di cui, negli ultimi decenni, si è fatto strame a beneficio di una malintesa libertà. Una libertà che, se non ha limiti e obiettivi, è solo un’autostrada per l’autodistruzione.
È curioso notare che genitori si appellano alle leggi e ai controlli, senza ricordare che sono stati loro, quando avevano l’età dei loro figli, a chiedere a gran voce l’abolizione di ogni limitazione.
In parte avevano ragione: non sono le leggi esteriori a poter offrire una vita degna di essere vissuta, ma quella legge interiore che si fonda sulla fede, sulla coscienza, sull’esperienza. Una legge che decade quando perde i suoi presupposti, quando non le si riconosce più un valore intrinseco. Le conseguenze sono più ampie di quanto si potrebbe pensare: la fede cristiana, che porta con sé un comportamento e un’etica degni di questo nome, comporta anche un obiettivo, uno scopo, una speranza nella vita.
Come in un effetto domino, perdere di vista i valori porta a perdere anche il senso della vita, e i risultati sono sotto i nostri occhi: figli disorientati, famiglie che non sanno da che parte guardare, paura generalizzata di guardare al futuro.
Se, per i giovanissimi, perdere il senso della realtà è l’unico modo per sentirsi vivi, non possiamo non dirci preoccupati.
Esiste una soluzione? Sì, ma non si può limitare a un nuovo passatempo, a una moda più salutista delle precedenti, a una campagna di sensibilizzazione, a un buon proposito di capodanno.
Una soluzione efficace non può limitarsi a increspare la superficie, deve andare in profondità. Deve partire dalla consapevolezza di un bisogno, ma ancora non basta: funziona solo se siamo disponibili a un cambiamento radicale sul piano personale, capace di riportarci – riportare ognuno di noi – nella direzione della Speranza.
Perché non possiamo pretendere di cambiare la società, i giovani, il futuro, se prima non siamo disposti a cambiare noi stessi.
Quel reality formativo
Assume una risonanza europea il caso del nuovo reality tedesco che punta a mettere in una casa alcune coppie di adolescenti: obiettivo, accudire un neonato per quattro giorni e quattro notti.
Si scandalizza l’associazione delle ostetriche tedesche (per loro il reality è “una nuova forma di prostituzione“), gli psicologi (“tutte le ore passate in trasmissione produrranno grande stress nei più piccoli e le drammatiche conseguenze di questa scelta potrebbero manifestarsi col passar degli anni sulla psiche dei bambini”) e perfino la normalmente taciturna chiesa protestante (secondo cui la televisione “ha chiaramente superato qualsiasi limite di decenza“).
Insomma, una bella polemica che, come sempre, finirà per portare acqua al mulino dell’emittente interessata, RTL. Certo, il programma potrà anche non essere di buon gusto, ma non sarà il peggiore tra quelli partoriti in questi anni da autori senza troppi scrupoli.
Fino a oggi, purtroppo, il format del reality non è riuscito a prendere una piega educativa: eppure, tutto sommato, non sarebbe difficile inculcare qualche nozione utile, o allargare le prospettive, a pupe, secchioni, contadini di finte fattorie e grandi fratelli. Basterebbe dare una prospettiva diversa al programma: meno scandalistica, più culturale.
Sarebbe un disastro sul piano dell’audience? Forse no, perché anche la cultura può avere il suo fascino, e ben lo sanno i tanti docenti che, ogni giorno, catturano l’attenzione dei loro studenti con lezioni in cui trasmettono non solo concetti, ma soprattutto passione.
Vale per le materie scolastiche, per le attività extracurriculari (si chiamano ancora così?), per le faccende domestiche e così via.
In quest’ottica, un reality di questo genere potrebbe essere formativo. Naturalmente, nel caso, dovrebbe offrire le dovute garanzie di serenità agli infanti, ma non sembra difficile: i genitori veri potrebbero essere presenti dietro le quinte, a pochi passi dalle telecamere.
Fatto questo, sarebbe decisamente interessante vedere due adolescenti imparare il duro mestiere di genitori cimentandosi tra pappe e pannolini. Sarebbe utile per i protagonisti e per i loro coetanei che, da casa, potrebbero acquisire qualche informazione utile su un ruolo in cui, probabilmente, prima o poi si ritroveranno.
In fondo anche questa è vita, ed è importante conoscerne i vari aspetti per non trovarsi, un giorno, spiazzati.
A chi di dovere il compito di saperla presentare nel modo giusto, senza scadere nel cattivo gusto o nella volgarità ma, piuttosto, trasmettendo al pubblico un messaggio positivo.
Quel futuro che non arriva
I conservatori inglesi si fanno combattivi: motivo del contendere, nientemeno che il futuro della società, messo in pericolo dalla crisi della famiglia. Si divorzia troppo e ci si sposa poco, questo in sintesi il pensiero dei Tory, e questo comporta una società sempre più frammentata, che alleva bambini sempre più disorientati da genitori ondivaghi dalla vita sentimentale sempre più provvisoria.
Anche a non voler dare troppo credito alle parole dei conservatori, sono sotto gli occhi di tutti le cronache che parlano di una Gran Bretagna assediata da gang di adolescenti ribelli, mentre le gravidanze sono in aumento tra le giovanissime; ora si aggiungono anche bambini che vengono cacciati in numero sempre maggiore (nell’ultimo anno addirittura quattrocento) dagli asili in quanto risultano ingestibili.
Le soluzioni adottate? Coprifuoco serale per i minorenni; somministrazione di anticoncezionali alle tredicenni; psicologi e cure per l’iperattività agli enfant terrible. In una parola: palliativi.
Non esiste cura senza diagnosi. E la diagnosi nessuno ha il coraggio di stilarla. D’altronde c’è da capirlo: ammettere il fallimento della propria teoria educativa è difficile. È difficile riconoscere che non ha funzionato l’idea di tirare su una generazione senza rispetto per le regole e le persone – tantomeno per le autorità -, senza valori e principi, senza limiti e paletti.
Di correre ai ripari non sembra esserci la minima intenzione: i paladini dell’anarchia infantile continuano imperterriti per la propria strada, atteggiandosi a piccoli Galilei incompresi e maltrattati; in attesa che la storia dia loro ragione proseguono i loro esperimenti contro ogni evidenza e continuano a tacciare di moralismo chi solleva qualche obiezione al loro metodo.
Con la superiorità di chi è convinto di incarnare il progresso discettano, si lanciano in improbabili distinguo, si arroccano dietro al comodo concetto di fatalità di fronte a vicende che, invece, sarebbero state più che prevedibili.
Accettare un presente di sacrifici come dazio per un futuro radioso è comprensibile e accettabile. Purché, nel cammino, non ci si lasci accecare dall’ideologia.
Rissa continua
Apr 20
Pubblicato da pj
Il Corriere segnala che l’associazione Comunicazione perbene «ha monitorato le reti nazionali per individuare che spazio hanno litigi e risse nei programmi tv quotidiani. Secondo l’analisi ogni 8-10 minuti su uno dei principali canali, si può ascoltare un insulto oppure vedere un dibattito che diventa rissa verbale o che si trasforma in lite. Il tutto aggravato dal fatto, come evidenzia il 75% degli esperti, che questo avviene anche in fascia protetta».
Nello specifico, le categorie a maggiore rischio sono «i reality show e i talent show, dove la rissa sembra sia un vero e proprio ingrediente: in media una ogni 8 minuti di trasmissione».
A seguire, in termini di rissosità, i talk show e i programmi di informazione: «la rissa è per lo più verbale e immancabilmente scoppia ogni 10-11 minuti di trasmissione».
In questa speciale classifica si piazzano solo in terza posizione «quelle trasmissioni che un tempo erano considerate il simbolo della rissa tv: le trasmissioni sportive. In media qui scoppia ogni 12-15 minuti e per la maggior parte si tratta di sopraffazione verbale, seguita da accuse e insulti personali».
In coda «i programmi di intrattenimento, soprattutto i contenitori domenicali, dove la rissa scoppia ogni 18-20 minuti».
Sui reality, nulla quaestio: spesso il genere raccoglie appositamente personaggi invadenti, maleducati, scontrosi, e il carattere dei singoli viene selezionato in maniera da stabilire dinamiche di scontro. Naturalmente i programmi che riassumono le giornate dei nullafacenti puntano a proporre i momenti più significativi, ed è inevitabile che questo alzi la frequenza della rissosità.
In merito ai talent show si potrebbe sperare in un approccio diverso: gli sviluppi di questi ultimi mesi hanno visto prendere il largo il confronto tra allievi, insegnanti, giudici. Una tendenza troppo sospetta e improvvisa per non sospettare una scelta precisa da parte degli autori.
In fondo alla classifica, invece, troviamo due sorprese. Se qualche anno fa ci avessero detto che nel giro di poche stagioni i programmi domenicali si sarebbero conquistati la palma di trasmissioni meno rissose, probabilmente avremmo riso: sono ancora vivide (e disponibili su youtube) le patetiche scene dove protagonisti e commentatori si cimentavano in un triste “tutti contro tutti”.
Allo stesso tempo sarebbe stato difficile credere che un giorno non lontano i programmi sportivi sarebbero risultati tra i meno polemici: e in effetti ancora oggi, collegandosi a una di queste trasmissioni, l’impressione è che liti e insulti avvengano ben più spesso di quattro o cinque volte l’ora.
La categoria che sorprende di più, in questa classifica, è l’informazione. Un programma della testata giornalistica dovrebbe raccontare i fatti con obiettività, o quantomeno con equilibrio e sobrietà; i conduttori dovrebbero saper mantenere alta l’attenzione senza cavalcare le polemiche, esercitando la loro autorevolezza per impedire alle discussioni di degenerare.
E invece, eccoli a pari(de)merito con i talk show, a superare la soglia delle sei risse per ogni ora di trasmissione.
Probabilmente qualche benpensante sosterrà che anche la rissa comporta lo sviluppo di una discussione, che è semplicemente un’esposizione meno garbata e più vivace di una tesi, garantita anch’essa dal diritto all’informazione. Non può che essere così, altrimenti dovremmo chiederci come mai la tendenza all’insulto e alla sopraffazione prosegua implacabile, con il benestare degli anchorman e degli ascolti.
Che non sia solo una questione di stile e di etica, ma anche un problema concreto, lo si evince dai commenti preoccupati di molti esperti interpellati da Comunicazione perbene: la situazione è giudicata “molto rischiosa”, e «secondo il 64% potrebbe avere serie ripercussioni sui comportamenti quotidiani del pubblico, a partire da bambini e adolescenti che crescono convinti che aggredire e sopraffare gli altri sia normale».
Continuare il gioco al rilancio per accaparrarsi gli spettatori puntando sui toni forti probabilmente garantirà un futuro ai programmi, ma rischia di rubarlo a chi quei programmi, per interesse o per noia, li guarda.
Sarebbe meglio uscire dal circolo vizioso prima che le conseguenze, sul piano sociale, si facciano serie.
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