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La giusta cornice
Capita, ogni tanto, di registrare un programma sbagliato. In questo caso, al posto di un telefilm, un programma di approfondimento. Capita di dargli un’occhiata, prima di cancellarlo, e di trovarci un servizio che non si sarebbe voluto vedere, se non riguardasse una vicenda vera.
Si parla di Africa e di stregoneria. Si parla di bambini lasciati alla mercè di stregoni: considerati per qualche motivo specioso portatori di maledizioni di ogni genere, molte famiglie affidano a persone di dubbia serietà uno dei figli, nella speranza che serva a liberare la famiglia dal malocchio.
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Tolleranza a tempo
Al mondo un umano su quattro è di religione islamica: lo rivela una indagine del Pew Forum in Religion & Public Life, istituto che propone spesso indagini e sondaggi su tematiche legate alla spiritualità.
I cristiani – almeno quelli nominali – hanno ancora la maggioranza (2 miliardi e 250 milioni, contro un miliardo e 570 milioni di islamici), ma la stima sui seguaci di Maometto ha stupito lo stesso istituto di ricerca: «Ovunque il numero è più alto di quanto non ci aspettassimo».
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Dall'Eden al Caucaso
“In principio fu il Caucaso”, titolava nei giorni scorsi La Stampa presentando i risultati di una scoperta che potrebbe cambiare i libri di storia (o, meglio, di paleontologia): in un remoto sito della Georgia (già URSS) sono stati scoperti cinque teschi di un milione e ottocentomila anni fa.
La portata del ritrovamento è presto detta: se la datazione fosse confermata, potrebbe significare che i primi esseri umani vissero nell’Asia centrale e non, come si era ipotizzato in base ai precedenti riscontri, in Africa.
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Dall’Eden al Caucaso
“In principio fu il Caucaso”, titolava nei giorni scorsi La Stampa presentando i risultati di una scoperta che potrebbe cambiare i libri di storia (o, meglio, di paleontologia): in un remoto sito della Georgia (già URSS) sono stati scoperti cinque teschi di un milione e ottocentomila anni fa.
La portata del ritrovamento è presto detta: se la datazione fosse confermata, potrebbe significare che i primi esseri umani vissero nell’Asia centrale e non, come si era ipotizzato in base ai precedenti riscontri, in Africa.
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Un bisogno a tutto tondo
L’alzheimer? Si combatte lavorando. È la conclusione di una equipe britannica che ha analizzato oltre milletrecento persone in relazione al progresso del morbo, incrociando i dati con significative vicende della vita.
Si è così scoperto che andare in pensione presto è deleterio: non è il riposo che ci salva, ma il lavoro, che andrebbe portato avanti per tutta la vita, possibilmente senza cambiarlo.
Sorvolando su questo ultimo dettaglio, che mette in difficoltà le nuove generazioni (un giovane oggi difficilmente potrà mantenere lo stesso impiego per tutta la vita), la ricerca rivela una verità: non siamo nati per battere la fiacca, ma per renderci utili.
Che la nostra sia la società delle contraddizioni ormai è evidente: i settantenni competono per forma fisica con i trentenni e si offendono se vengono definiti “anziani”, ma aspirano al pensionamento come alla terra promessa, fine di tutte le pene. La vedono come una vacanza a vita, che però dopo i primi mesi comincia a rivelarsi una gabbia dorata.
Fa una certa pena vedere persone ancora valide sprecare il loro tempo giocando a carte al bar, o commentando i fatti politici sulle panchine dei giardini.
Una condizione innaturale cui alcuni (rari) trovano rimedio reinventandosi missionari laici in Africa per periodi più o meno lunghi, altri dedicandosi anima e corpo alla famiglia. Pochi invece, sempre troppo pochi sono coloro che mettono con regolarità le proprie competenze a disposizione della società: vicini di casa, quartiere, chiesa.
Gioverebbe agli altri, e anche per la salute di chi dona il proprio impegno. La ricerca britannica tutto sommato non fa altro che confermare una verità biblica: non possiamo fare a meno gli uni degli altri.
L’uomo si dimostra ancora una volta un essere sociale: l’interazione con gli altri caratterizza non solo i suoi desideri e le sue necessità ma, scopriamo ora, anche la sua salute.
Sogni benefici
Il Resto del Carlino (grazie a Marco per la segnalazione) racconta la storia di una mamma bolognese, Laura Neri, che ha vinto 45 mila euro partecipando al quiz più visto di RaiUno, l’Eredità.
La particolarità della vicenda? Che la signora Neri, d’accordo con il marito, ha deciso di non tenere per sé se non una minima parte della vincita, e devolvere il resto in beneficenza: ai bambini dell’Africa, ai pluriminorati seguiti dall’Istituto serafico di Assisi, e – ultimo, ma non meno importante – alla loro parrocchia di appartenenza, che necessita di qualche restauro.
Si tratta, racconta il Resto del Carlino, di una scelta meditata, tanto che ha segnalato la sua intenzione di vincere già sulla scheda con cui ha richiesto di partecipare al quiz.
Una scelta che solleva curiosità, e cui Laura e il marito Paolo rispondono senza scomporsi: «Non abbiamo sogni materiali nel cassetto, ma ogni giorno ci chiediamo cosa possiamo dare alla vita. Così abbiamo deciso di sostenere un progetto di solidarietà, anzi tre, ai quali collaboriamo già da tempo. Non avevamo la possibilità di farlo diversamente, dato i nostri stipendi. Quindi partecipare all’Eredità poteva essere una soluzione».
Ci sono tre fatti che colpiscono, nelle parole della coppia. Innanzitutto la dichiarazione “non abbiamo sogni materiali nel cassetto”: non sappiamo quanti di noi sarebbero disposti ad affermarlo a cuor leggero. Tutti, probabilmente, abbiamo qualche progetto in corso: l’arredamento da cambiare, l’auto da sostituire, le rate da pagare, i soldi da accantonare per dare un futuro ai figli. Sono rari coloro che davvero possono affermare di “non avere sogni materiali”. Materiali, si badi, perché la coppia dimostra, con il suo gesto, di avere più di qualche sogno: aiutare il prossimo, sostenere chi soffre, condividere i drammi di chi si trova in gravi difficoltà. Non è questione di possibilità economiche: l’amore si dimostra quando i nostri sogni lasciano il posto ai bisogni degli altri.
La seconda affermazione riguarda la decisione di partecipare con lo scopo di fare beneficenza: “non avevamo la possibilità di farlo diversamente, dato i nostri stipendi”. Segno che, per quanto possibile, aiutano da tempo le organizzazioni e le realtà che ora hanno deciso di sostenere in maniera più massiccia. Si è trattato quindi di un exploit, ma che non nasce dal nulla e non muore in sé.
Facile dire “se vincessi un premio, darei una mano”: la generosità nasce dal cuore, non dal portafogli, e si dimostra attraverso da piccoli gesti, non con donazioni eclatanti.
La terza questione interessante riguarda il fatto che hanno destinato la vincita a progetti “ai quali collaboriamo già da tempo”. Non si tratta di beneficenza generica, senza radici, ma di un coinvolgimento di lunga data nei problemi, nei traguardi, nella vita di tre realtà benefiche. Forse non saranno andati in Africa, ma seguono regolarmente le vicende dell’Amref. Forse non fanno quotidianamente la spola con Assisi, ma non dimenticano l’Istituto serafico. Forse non sono in grado cambiare le sorti di una parrocchia, ma fanno quel che possono. Chissà se possiamo dire la stessa cosa, se condividiamo un progetto di aiuto umanitario o un’opera missionaria, oppure se ci limitiamo a tacitare la nostra coscienza di tanto in tanto, quando qualche missione ci commuove più di altre.
Più di qualcuno, nel leggere la notizia, avrà pensato a quanto sarebbe piacevole unire l’utile al dilettevole, partecipando ai telequiz a scopo benefico. Qualcun altro avrà arricciato il naso di fronte alla scelta anomala della coppia bolognese.
Non possiamo dare ragione agli aspiranti missionari da quiz: la solidarietà e la compassione non si dimostrano con i soldi degli altri.
Detto questo, non possiamo nemmeno condividere la posizione di chi critica la scelta di Laura e Paolo: se la decisione nasce da premesse convincenti e convinzioni solide come quelle della coppia bolognese, ben venga un’idea originale come la partecipazione all’Eredità.
Nord dimenticato
«Il popolo dei ghiacci sente che la sua storia rischia di finire e si perde tra alcol e droga», scrive il Corriere raccontando la storia degli inuit e di un alpinista italiano che si è trasferito in Groenlandia per recuperarli.
A scuola li chiamavamo “eschimesi”: nel nostro immaginario di bambini che vivevano in un’Italia provinciale, senza Internet a disposizione, vedevamo le popolazioni della Groenlandia (e del Circolo polare artico in generale) in maniera un po’ pittoresca, persone dai tratti orientali sempre sorridenti che abitavano in igloo e giravano con i cani da slitta salutandosi con uno sfregamento di nasi.
La vita degli inuit negli ultimi decenni è cambiata rispetto a quella che leggevamo e sognavamo sui libri: sono diventati prevalentemente stanziali – a parte alcuni nomadi dell’estremo nord – e hanno i loro villaggi costieri che ricordano quelli dei paesi nordici, con le casette basse e colorate in stile Ikea.
Sembrerebbe un quadretto glaciale ma idilliaco, eppure «per i 56 mila uomini dagli occhi a mandorla che abitano la più grande isola del mondo la vita oggi non è facile». Lo racconta al Corriere Robert Peroni, alpinista ed esploratore che nel 1992 a Tasiilaq, il centro principale della Groenlandia orientale, ha creato la Fondazione Progetto Casa Rossa, «un centro di assistenza per giovani inuit sbandati o dipendenti da droga e alcol».
«Avvertono che la loro civiltà è giunta al capolinea – spiega Robert Peroni – e reagiscono abbandonandosi alla pulsione autodistruttiva. L’alcolismo è la piaga più grave. E può accadere che in un villaggio di 100 abitanti, si contino 6-7 suicidi all’anno, quasi tutti giovani tra i 18 e i 20 anni, che si impiccano in bagno o alla trave di casa. Se le stesse percentuali interessassero le grandi città europee o americane, sarebbe allarme rosso. Qui invece tutto continua nell’indifferenza generale».
Peroni si è impegnato nel recupero delle dipendenze e nel reinserimento lavorativo: creando occasioni nel settore turistico, ma anche riportando i giovani alle attività tradizionali, la caccia e la pesca.
Un impegno ammirevole, quello di Peroni, che però non basta: «È un popolo che sta morendo, nel silenzio e nell’indifferenza», ammette amaramente.
Una popolazione intera ha perso la sua ragione di vita, vede la propria cultura giunta al capolinea, e si autodistrugge con alcol e droga. Ce n’è per sollevare l’interesse mondiale, eppure non abbiamo mai sentito parlare di missionari che si addentrano nel profondo nord. Forse, anche qui, è una questione di immaginario: il “missionario” per definizione è quello che va a sud, in Indocina, in Africa, in Sudamerica. Quasi nessuno considera le popolazioni del nord come bisognose di un aiuto a tutto tondo: umano, pratico, spirituale.
Peroni è ammirevole, nel suo tentativo di stare vicino agli inuit: che hanno bisogno di aiuto, ma soprattutto di speranza. Chissà se qualcuno gliela porterà.
Legalità e incoerenze
Gen 13
Pubblicato da pj
Gian Antonio Stella non delude, e sui fatti di Rosarno propone una riflessione non convenzionale ma appropriata. Il giornalista del Corriere ha scritto ampiamente su una pagina del nostro passato che vorremmo dimenticare, ricorda che «Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno. Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo».
Insomma, «L’abbiamo già vissuta questa storia, dall’altra parte», emigrando dove non c’era lavoro, vivendo in clandestinità tra fame ed emarginazione.
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