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Favole di Montana
Addio ad Hannah Montana, la ragazzina che per quattro anni ha accarezzato l’immaginario delle preadolescenti americane (e locali): conclusa la fortunata sitcom per limiti d’età, la ormai diciottenne attrice che la interpretava ha dimostrato di avere le idee chiare sul futuro. Così almeno si direbbe dal titolo dedicatole dal Corriere: “Miley Cirus, svolta sexy: finora mi hanno censurata”. E insiste, con vaghi accenti pensosi: “ogni donna deve poter diventare come vuole”.
Insomma, Miley-Montana “cerca di smarcarsi dall’immagine della brava ragazza-buoni sentimenti che la Disney le ha costruito addosso”, e comincia passando per “la nuova immagine aggressiva, i video sexy e le paparazzate studiate ad arte che la mettono su quel (pericoloso) percorso già fatto da Britney Spears, pure lei uscita dalla stessa fabbrica di idoli per teen”.
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Piccoli regali quotidiani
Era un periodo nero per Neil Pasricha: a trent’anni, improvvisamente, si trovava ad affrontare un divorzio, vivere problemi sul posto di lavoro, scoprire un amico seriamente malato.
Le disgrazie non vengono mai da sole, e sembravano addensarsi sulla sua testa con una intensità pericolosa. E poi si sa: i fatti condizionano la nostra percezione, e rischiano di portarci in un circolo vizioso di pessimismo e autocommiserazione.
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Donna a metà
Quando pensi di aver capito come gira il mondo, ti ritrovi al punto di partenza.
La Corte di Cassazione ha sancito che “Per questo lavoro serve un uomo” è una frase discriminatoria meritevole di sanzione: nel caso specifico, settemila euro che un giornalista di casertano, insieme al sindacalista che aveva intervistato, dovrà versare alla direttrice del carcere di Arienzo. A indispettire era stato il titolo dell’articolo: “Carcere, per dirigerlo serve un uomo”, e la Cassazione ha dato ragione alla donna, in quanto si tratterebbe di un «gratuito apprezzamento contrario alla dignità della persona perché ancorato al profilo che deriva dal dato biologico».
Trattamento da vip
Che favola deve essere stato quel 26 maggio 1969 per Jerry Levitan: all’epoca era un ragazzo di 14 anni con una forte dose di inventiva, tanto da improvvisarsi giornalista e presentarsi nell’albergo del suo idolo, John Lennon. Era così convincente, nel suo travestimento, che non solo riuscì a entrare, ma Lennon gli dedicò quasi un’ora parlando della sua carriera artistica.
Il Corriere rievoca che «Mentre i giornalisti veri aspettavano fuori dalla porta della suite, John regalò al suo nuovo amico un disco, autografò la copia di «Two Virgins»… Poi lo mandò a un concerto, quella sera, al posto suo: “Date al mio amico il trattamento da vip che avreste riservato a me“, disse Lennon».
Non sappiamo se Levitan – che oggi si divide tra il suo ruolo di avvocato e impegni di attore e intrattenitore – dopo il bluff dell’intervista abbia trovato quella sera anche il coraggio di presentarsi a quel concerto, ma immaginiamo cosa possa significare trovarsi a un concerto per conto di un personaggio di quel livello: un trattamento che difficilmente si potrebbe provare altrimenti.
Al di là dell’immagine da guru che Lennon scelse nell’ultima fase della sua breve vita, e sorvolando sulla più celebre fanfaronata del personaggio («Adesso noi Beatles siamo più famosi di Gesù», disse scherzosamente nel 1966), la richiesta dell’artista nel congedare Levitan ha qualcosa di familiare.
«Date al mio amico il trattamento da vip che avreste riservato a me» è, in fondo, una buona parafrasi di quello che Gesù chiede di fare a ogni cristiano coerente. Riecheggia quella chiosa promettente e minacciosa, quel «… lo avrete fatto a me» che chiude la raccomandazione a dimostrare amore verso il bisognoso.
“Trattatelo come avreste trattato me”: come si sarebbero comportati gli organizzatori di quel concerto, se Lennon si fosse presentato? Gli avrebbero riservato la prima fila, lo avrebbero scortato al suo posto, gli avrebbero offerto tutti i comfort disponibili, si sarebbero fatti in quattro per venire incontro alle sue esigenze. In poche parole, il proverbiale trattamento da vip.
“… lo avrete fatto a me”. Superfluo chiedersi cosa faremmo se Gesù ci chiedesse un bicchere d’acqua, o qualche spicciolo per un panino: probabilmente lo accompagneremmo personalmente, ci assicureremmo che trovasse le condizioni ideali, e all’occorrenza ci impegneremmo in prima persona per garantirgliele. Anche qui, un trattamento da vip.
Non so voi, ma a me fare scivolare una moneta nel bicchiere di un indigente non è un trattamento da vip. E non lo è lo sguardo scocciato che spesso abbiamo nei confronti di chi ci chiede aiuto. Non lo è nemmeno il tentativo di evitare qualcuno che ci potrebbe chiedere aiuto per un trasloco, un passaggio, un prestito.
Trattatelo come trattereste me: nel 1969 sarebbe stato più facile – e di maggiore soddisfazione – farlo direttamente per Lennon, e oggi sarebbe più comodo e piacevole farlo direttamente per Gesù. Non è semplice stare vicino a chi soffre, a chi è in difficoltà, a chi non emana un odore gradevole. Ma siamo chiamati a farlo, e a farlo “come avreste fatto a me”.
Nel 1969 gli organizzatori di quel concerto non avrebbero mai osato screditarsi bistrattando un amico di John Lennon, quantomeno per non rischiare l’imbarazzo di vederselo comparire a metà serata e di dovergli dare improbabili spiegazioni sui perché di un tale comportamento.
Viene da chiedersi come mai invece noi, che pure consideriamo ancora Gesù Cristo più famoso – e importante – di John Lennon, ci permettiamo di deluderlo, offrendo ai suoi “amici” un trattamento diverso da quello che, certamente, riserveremmo a lui.
Chissà, forse siamo troppo sicuri che non comparirà a breve termine per chiedere spiegazioni.
Farewell, mr. President
Ultimo giorno di lavoro per George Walker Bush: martedì, dopo il giuramento di Obama, verrà portato in Texas, dove comincerà per lui una nuova vita da ex presidente. La Stampa spiega che si impegnerà «alla guida del “Freedom institute”, presso l’Università metodista del sud», istituto da lui fondato ad hoc per il dopo-Casa Bianca.
Prima di dare spazio a Obama – che, a dire il vero, in questi ultimi mesi si è già impadronito della ribalta – e chiudere il capitolo dell’era Bush ci sembra corretto ricordare un presidente che negli ultimi mesi è stato fatto oggetto di un intenso e ingeneroso tiro al bersaglio.
Secondo la vulgata benpensante la reazione è stata inevitabile conseguenza delle decisioni sbagliate prese da Bush nel corso del suo mandato, ma probabilmente la verità è un’altra, ed è legata all’immagine del suo successore. Nel suo ultimo anno di mandato, infatti, Bush è stato oscurato dalla stella di Obama: nero e giovane, brillante e tecnologico come nessun altro, fin dagli inizi della campagna elettorale 2008 Obama ha finito per incarnare agli occhi del mondo l’immagine del nuovo e della novità. Bush, di conseguenza, è apparso a un tratto banale, antico, demodé, diventando all’improvviso padre di tutte le colpe e le nevrosi dell’Occidente.
Eppure, nel suo conservatorismo solidale, nella sua ordinarietà, in quella mediocrità che tanto ha fatto discutere il mondo, Bush è stato un presidente innovativo. In un paese dove Dio e la fede stanno diventando qualcosa di cui vergognarsi, Bush ha invertito la tendenza, dichiarandosi serenamente cristiano. Ha raccontato senza remore il suo passato da rampollo viziato e dipendente dall’alcol, e come Dio lo avesse ripescato, alla soglia dei quarant’anni, servendosi di quel Billy Graham che per i Bush è un amico di famiglia.
Una scelta, spirituale e morale, confermata anche alla Casa Bianca: a voler essere onesti si deve riconoscere che la presidenza Bush non ha visto scoppiare scandali personali, dopo l’allegra gestione cui ci aveva abituati Bill Clinton.
Esattamente quattro anni fa, alla vigilia della cerimonia di insediamento (la seconda, dopo quella del gennaio 2001), Bush aveva dichiarato «non vedo come si possa essere presidente senza avere uno stretto rapporto con il Signore», e il suo secondo mandato più del primo ha confermato questo “filo diretto con Dio”, come ebbe a definirlo, raccontandoci della preghiera comunitaria alla Casa Bianca, gli inni cantati insieme ai suoi ministri, la lettura dei salmi al mattino, i culti domenicali, i mille riferimenti cristiani nei suoi discorsi.
Questa sua esposizione – troppo controproducente, sul piano dell’immagine, per non essere sincera – ha avuto le sue ripercussioni anche da noi: perfino le testate più influenti si sono dovute interrogare su chi siano questi evangelici, ribattezzati spesso evangelisti, evangelicali, rinati, a seconda della fantasia del giornalista di turno.
Non è mancata da parte dei media una buona dose di malizia, come ha rilevato a suo tempo il suo consigliere (cattolico) James Towey: «Secondo me, su questo punto si fanno due pesi e due misure. Il presidente Kennedy ha più volte invocato Dio nei suoi discorsi. Il presidente Carter ha perfino provato a convertire al Cristianesimo il presidente sudcoreano. Anche Bill Clinton non nascondeva mai la sua partecipazione a riti religiosi. Pensiamo a Lincoln: è impossibile comprendere la sua presidenza, distaccandola dalla sua fede personale. Ma quando si parla di Bush le cose cambiano. Ritengo che chi lo attacca su questo aspetto è in realtà a disagio con la propria fede. Porto un esempio: se il presidente ha un incontro con la comunità musulmana o ebraica, nessuno dice niente. Se però riceve un gruppo cristiano evangelico, ecco che subito qualcuno lancia l’allarme: che cosa starà facendo? Li sta favorendo? Questo è semplicemente falso».
Il tempo ci dirà se sarà opportuno ricordare Bush per aver detronizzato Saddam Hussein o per le conseguenze drammatiche delle lotte tra bande irachene; se gli afghani avranno saputo sfruttare la cacciata dei taliban o l’impegno americano sarà stato inutile; se le drastiche misure di Guantanamo saranno servite a prevenire nuovi attacchi terroristici contro l’Occidente.
Per il momento, ci piacerà ricordarlo con una sua confessione di qualche anno fa: «Ho pianto molto, [di lacrime] ne ho versate molte di più di quanto si possa pensare che accada a un presidente… In quei momenti mi sono appoggiato alla spalla di Dio».