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Presenze luminose
“Turisti senza bon ton“: di questo si lamentano i sindaci delle località turistiche, dalle città d’arte alle stazioni balneari. I primi cittadini, interpellati da un periodico, si rammaricano per l’abbigliamento succinto dei visitatori, gli schiamazzi notturni, l’abuso di alcol, e un senso di libertà che sfiora la mancanza di rispetto per i residenti (e, probabilmente, per gli altri villeggianti).
La storia si ripete ogni anno, e riguarda allo stesso modo gli stranieri in Italia e gli italiani all’estero: l’assenza di obblighi lavorativi (e, talora, familiari), la lontananza dalle abitudini e dalla consuetudine dei gesti quotidiani, l’ebbrezza del viaggio e della permanenza in una località mai vista prima è una miscela entusiasmante, ma che se non viene equilibrata nel modo giusto rischia di scatenare un circolo vizioso di esagerazioni. Con rischi per la salute, per la convivenza, e anche per la dignità.
Meglio un furgone oggi
Il Corriere racconta la storia di Aaron Heideman, un artista dell’Oregon che, come tanti altri, è rimasto travolto dalla crisi e si ritrovato, da un mese all’altro, a dormire in un furgone.
Al contrario di tanti altri, Heideman ha messo la sua arte al servizio di chi, come lui, ha visto la propria tranquilla esistenza naufragare in meno di un anno. Lo ha fatto diventando, a modo suo, portavoce delle tante piccole grandi tragedie causate dal tracollo del credito: ha investito i suoi ultimi soldi in carburante e girando l’America per farsi raccontare le storie della gente qualunque colpita dalla crisi.
L'ultimo spettacolo di Jacko
«Il re del pop deve ora piegare le ginocchia davanti al Re dei re»: così il pastore Lucius Smith ha concluso ieri sera a Los Angeles il memorial dedicato a Michael Jackson.
Niente da dire: in fatto di show gli americani sono maestri, e la cerimonia di commiato dedicata a Jacko è stata sobria, ma allo stesso tempo coinvolgente e a tratti perfino commovente, come si conviene a un addio.
L’ultimo spettacolo di Jacko
«Il re del pop deve ora piegare le ginocchia davanti al Re dei re»: così il pastore Lucius Smith ha concluso ieri sera a Los Angeles il memorial dedicato a Michael Jackson.
Niente da dire: in fatto di show gli americani sono maestri, e la cerimonia di commiato dedicata a Jacko è stata sobria, ma allo stesso tempo coinvolgente e a tratti perfino commovente, come si conviene a un addio.
Trattamento da vip
Che favola deve essere stato quel 26 maggio 1969 per Jerry Levitan: all’epoca era un ragazzo di 14 anni con una forte dose di inventiva, tanto da improvvisarsi giornalista e presentarsi nell’albergo del suo idolo, John Lennon. Era così convincente, nel suo travestimento, che non solo riuscì a entrare, ma Lennon gli dedicò quasi un’ora parlando della sua carriera artistica.
Il Corriere rievoca che «Mentre i giornalisti veri aspettavano fuori dalla porta della suite, John regalò al suo nuovo amico un disco, autografò la copia di «Two Virgins»… Poi lo mandò a un concerto, quella sera, al posto suo: “Date al mio amico il trattamento da vip che avreste riservato a me“, disse Lennon».
Non sappiamo se Levitan – che oggi si divide tra il suo ruolo di avvocato e impegni di attore e intrattenitore – dopo il bluff dell’intervista abbia trovato quella sera anche il coraggio di presentarsi a quel concerto, ma immaginiamo cosa possa significare trovarsi a un concerto per conto di un personaggio di quel livello: un trattamento che difficilmente si potrebbe provare altrimenti.
Al di là dell’immagine da guru che Lennon scelse nell’ultima fase della sua breve vita, e sorvolando sulla più celebre fanfaronata del personaggio («Adesso noi Beatles siamo più famosi di Gesù», disse scherzosamente nel 1966), la richiesta dell’artista nel congedare Levitan ha qualcosa di familiare.
«Date al mio amico il trattamento da vip che avreste riservato a me» è, in fondo, una buona parafrasi di quello che Gesù chiede di fare a ogni cristiano coerente. Riecheggia quella chiosa promettente e minacciosa, quel «… lo avrete fatto a me» che chiude la raccomandazione a dimostrare amore verso il bisognoso.
“Trattatelo come avreste trattato me”: come si sarebbero comportati gli organizzatori di quel concerto, se Lennon si fosse presentato? Gli avrebbero riservato la prima fila, lo avrebbero scortato al suo posto, gli avrebbero offerto tutti i comfort disponibili, si sarebbero fatti in quattro per venire incontro alle sue esigenze. In poche parole, il proverbiale trattamento da vip.
“… lo avrete fatto a me”. Superfluo chiedersi cosa faremmo se Gesù ci chiedesse un bicchere d’acqua, o qualche spicciolo per un panino: probabilmente lo accompagneremmo personalmente, ci assicureremmo che trovasse le condizioni ideali, e all’occorrenza ci impegneremmo in prima persona per garantirgliele. Anche qui, un trattamento da vip.
Non so voi, ma a me fare scivolare una moneta nel bicchiere di un indigente non è un trattamento da vip. E non lo è lo sguardo scocciato che spesso abbiamo nei confronti di chi ci chiede aiuto. Non lo è nemmeno il tentativo di evitare qualcuno che ci potrebbe chiedere aiuto per un trasloco, un passaggio, un prestito.
Trattatelo come trattereste me: nel 1969 sarebbe stato più facile – e di maggiore soddisfazione – farlo direttamente per Lennon, e oggi sarebbe più comodo e piacevole farlo direttamente per Gesù. Non è semplice stare vicino a chi soffre, a chi è in difficoltà, a chi non emana un odore gradevole. Ma siamo chiamati a farlo, e a farlo “come avreste fatto a me”.
Nel 1969 gli organizzatori di quel concerto non avrebbero mai osato screditarsi bistrattando un amico di John Lennon, quantomeno per non rischiare l’imbarazzo di vederselo comparire a metà serata e di dovergli dare improbabili spiegazioni sui perché di un tale comportamento.
Viene da chiedersi come mai invece noi, che pure consideriamo ancora Gesù Cristo più famoso – e importante – di John Lennon, ci permettiamo di deluderlo, offrendo ai suoi “amici” un trattamento diverso da quello che, certamente, riserveremmo a lui.
Chissà, forse siamo troppo sicuri che non comparirà a breve termine per chiedere spiegazioni.