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Dimmi quando. O forse no
La notizia, se confermata, sarebbe inquietante: l’Università di scienze mediche di Teheran avrebbe scoperto che basta un esame del sangue per scoprire quando una donna andrà in menopausa.
Anche se, con tutto il rispetto, la fonte accademica non sembra garantire una particolare attendibilità alla dichiarazione, l’ipotesi ha fatto il giro del mondo, suscitando discussioni e riflessioni. Sul Corriere ha commentato la notizia la scrittrice Silvia Avallone, esprimendo un certo scetticismo: «L’idea che un prelievo sia sufficiente a predire il futuro – commenta – può entusiasmare o meno. Del resto ricorriamo ancora agli oroscopi e ai tarocchi per sapere se e quando avremo un figlio, e dovremmo gioire adesso che il responso potrà essere scientifico e non più vaneggiato».
L’incubo del limite
Due notizie. Raccontano storie molto diverse, sono riferite da quotidiani diversi, risultano ambientate in località diverse, eppure sembrano collegate tra loro da un comune denominatore.
La prima vicenda si svolge nelle aule del tribunale di Salerno, dove un giudice ha stabilito con una sentenza la liceità della «diagnosi genetica pre-impianto e all’accesso alle tecniche di fecondazione assistita nei confronti di una coppia fertile, portatrice di una grave malattia ereditaria».
Il nome di Dio
È durato meno di una settimana il sollievo dei cristiani malesi, vessati da un governo ostile alle realtà religiose diverse dalla componente maggioritaria, islamica.
Rispetto ad altri Paesi, in Malesia esiste un problema in più, apparentemente di poco conto: una questione linguistica che da tempo dà ai musulmani un’ulteriore arma – è il caso di dirlo – dialettica.
Quanti muri
9 novembre. Quest’anno è facile ricordarsene, mentre tutti i giornali e le televisioni fanno da cassa di risonanza alle celebrazioni: vent’anni fa, in seguito a un percorso storico e, insieme, per un equivoco, cadeva il muro di Berlino.
Convenzionalmente la caduta del Muro rappresenta la fine di un’ideologia, ma anche di un sistema, di un mondo, di una società.
Poi si vedrà
In Spagna li hanno etichettati come «Generacion “ni-ni”: ni estudia ni trabaja».
I primi dati del Rapporto giovani 2008 raccontano che la “generazione né né” esiste anche in Italia: scrive il Corriere che «tra i 15 e i 19 anni ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavorano (il 9%)… stessa tendenza nei dati relativi ai giovani tra i 25 e i 35 anni: un milione e 900 mila non studia e non lavora. Vale a dire: quasi uno su quattro ».
Verità di troppo
150 ore di registrazioni e 30 mila pagine di documenti inediti, recentemente resi pubblici dalla Biblioteca presidenziale americana di Yorba Linda, in California, gettano nuove ombre su Richard Nixon.
Se il presidente, sul piano pubblico, viene già ricordato per lo scandalo Watergate che lo costrinse a dimettersi, ora si trova a fare i conti anche con rivelazioni su conversazioni private che, certo, non migliorano la sua immagine.
Scrive La Stampa che «Se c’è un filo comune nei documenti declassificati è aggressività e disprezzo di Nixon, verso gli amici come per gli avversari».
Insomma, nastri e carte rivelano un Nixon cinico, spregiudicato, insofferente verso le obiezioni da qualunque parte venissero. Niente di strano per un politico, a dire il vero.
Quel che lascia perplessi è il senso dell’operazione. Andare a pescare nella posta altrui è sempre pericoloso, e scrutare nell’intimità della vita familiare può provocare forti delusioni anche quando si tratta di grandi uomini: figurarsi quando lo si fa con un uomo pubblico che, per arrivare dove è arrivato, deve aver ceduto a una pioggia di compromessi.
È vero che, biblicamente parlando, “nulla è destinato a rimanere segreto”, ma forse dovremmo chiederci se la luce alla quale vogliamo portare il comportamento delle persone sia la luce cristiana o una luce guardona.
Certo, la verità deve emergere. Ma dovremmo chiederci a cosa facciamo riferimento quando parliamo di verità e, soprattutto, quale sia lo scopo della presunta verità di cui ci ergiamo paladini.
Anche chi spettegola, di solito, si difende esclamando “ma è la verità!”: se nulla deve restare segreto, allora il gossip è attività benemerita, e i ficcanaso sono i nuovi moralizzatori.
Nel valutare le persone è certo necessario il buonsenso di una valutazione su larga scala, ma capace di distinguere il grano dal loglio e di dare la giusta priorità alle informazioni raccolte.
Proprio come i sondaggisti che, in attesa dei risultati elettorali definitivi, non si basano acriticamente su tutti i dati, ma organizzano le proiezioni per dare un senso a quei dati.
Non tutte le sezioni elettorali sono ugualmente rappresentative e permettono di farsi un quadro attendibile della realtà generale. Proprio come le parole, le azioni, i comportamenti delle persone.
Appuntamento al centro
Che ormai al supermercato si trovi di tutto non è una novità: sono lontani i tempi delle botteghe, i negozietti sotto casa dove andare a fare due chiacchiere, informarsi sulle novità del quartiere e comperare il necessario ben consigliati dal negoziante.
Ma ormai sembra passato un sacco di tempo anche da quando il supermercato era un semplice esercizio commerciale dove acquistare beni di consumo: dopo essersi reinventato nella veste di centro commerciale, circondandosi di decine di negozi, ora ha abbattuto un’altra frontiera, passando dai prodotti ai servizi.
Segnala la Stampa che varie sedi della catena Ipercoop offrono ai clienti-soci «il consulente fiscale, l’avvocato, il cardiologo e il ginecologo… la vendita di biglietti per i concerti, gli sportelli per pagare le bollette, la consulenza previdenziale e il calcolo della pensione, l’assistenza nelle pratiche di disoccupazione e di infortuni sul lavoro… i servizi finanziari e le assicurazioni. Ma anche iniziative rivolte agli stranieri, come le pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno e di ricongiungimento familiare per chi lavora». Chi bazzica altri supermercati potrà aggiungere all’elenco il servizio a domicilio, i contratti telefonici, le carte di credito. In qualche centro commerciale, poi, sono presenti anche sale di culto.
Tra i servizi aggiuntivi dell’Ipercoop ne spicca però uno, che si distingue per la diversità rispetto agli altri e la particolarità rispetto al luogo: la presenza di uno psicoterapeuta. Il (anzi, la) professionista offre ai soci una micro-terapia in tre sedute che ovviamente non pretende di dare risposte, ma quantomeno a inquadrare se i problemi del cliente-paziente siano seri, oppure siano ipocondrie.
Il servizio ha dapprima sorpreso il pubblico, per poi venire subissato dalle richieste. La sede dei colloqui non si può definire troppo accogliente, stretta com’è in uno spazio non troppo ampio accanto al servizio clienti; nemmeno il contesto è di quelli che invita alla distensione, tra rumore di carrelli e annunci all’altoparlante. Forse, e comprensibilmente, viste le premesse la terapia offerta non sarà del tutto efficace, ma tant’è: alla gente piace parlare di sé, e ogni occasione è buona. Se poi ad ascoltare non è una persona normale ma un dottore, capace di scovare nelle nostre parole in libertà qualche accenno di malattia, tanto meglio: questo confermerà che abbiamo una ragione per non essere felici, che la nostra insoddisfazione ha una radice lontana, che sono i nostri traumi ad averci ridotto così.
Viene da pensare che se in qualche supermercato c’è posto per uno psicoterapeuta, in altri centri potrebbe esserci spazio per un consulente spirituale. Non è solo una boutade: proposto nella giusta prospettiva e seguito da persone adatte al ruolo, potrebbe dimostrarsi un servizio utile.
Forse suonerà strano, ma non dobbiamo dimenticare che Gesù incoraggiò i suoi discepoli ad andare, non ad aspettare comodamente le anime oltre la soglia della chiesa.
I discepoli, per portare a termine la loro missione nel modo migliore, proclamarono il messaggio di speranza di Cristo nelle piazze, i luoghi più frequentati dell’epoca.
I centri commerciali sono le piazze del nostro tempo: il luogo migliore per incontrare le persone, le loro frustrazioni, i loro problemi, e venire incontro alla loro fame di spiritualità.
L’appuntamento con la gente, oggi, è proprio lì. Non sarebbe carino deludere chi ci aspetta, e tanto meno chi ci manda.
Otto secondi per decidere
«La velocità è nemica del senso morale, che ha bisogno per sua natura dei suoi tempi di decantazione. A sostenere questa verità non è solo il buon senso, ma uno studio di neuroscienziati del Brain and Creativity Institute della University of Southern California»: lo rivela il Corriere.
Stando agli studi in questione, per formulare “una risposta completa a emozioni profonde di ammirazione o di sofferenza” il cervello umano impiega sei-otto secondi.
La conclusione degli scienziati è che «i tempi delle scelte», considerati lunghi per i parametri odierni (ma otto secondi sono davvero un lasso di tempo così lungo?) «hanno una valenza etica, partendo proprio da quello che è il tempo fisiologico di reazione del cervello umano a fronte di un’emozione legata a una scelta morale».
Possiamo quindi rassegnarci: «i tempi della comunicazione digitale non sempre rispettano quelli umani e nel caso di azioni e reazioni con implicazioni etiche questa disparità diventa particolarmente vistosa».
Insomma, i neuroscienziati ci confermano quello che già sospettavamo: non basta uno sguardo di massima per farsi un’idea concreta, né basta una lettura superficiale per assumere una scelta ragionata e matura, per non dire etica.
Non sarà un caso se siamo tempestati da richieste di risposta “in tempo reale”: per qualcuno dei nostri interlocutori probabilmente è solo una questione di impazienza (“hai letto la mia mail? Te l’ho spedita già cinque minuti fa!”), ma non dovremmo ignorare che la fretta può essere usata come un’arma psicologica.
Le aziende più attente all’impatto con i potenziali clienti e si servono del fattore fretta: i ritmi incalzanti fanno capitolare gli interlocutori con maggiore facilità, e per questo è proprio nei primi istanti che bisogna vincere le eventuali resistenze. Se una persona dice sì subito, sarà più semplice vendergli qualcosa, si tratti di un’aspirapolvere, un abbonamento o una carta di credito: alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è lasciato abbindolare da un venditore che ci ha spiazzato, o che ha saputo conquistare la nostra fiducia fin dai primi istanti.
Cinque secondi non bastano per prendere una decisione consapevole. Dovremmo tenere conto di questo nostro limite: e non solo esercitando una sana diffidenza nei confronti del piazzista di turno. Spesso l’entusiasmo o l’impulsività ci portano a fare scelte radicali, nella nostra sfera personale, nel giro di pochi secondi.
Ci bastano pochi secondi per aderire a un progetto, rispondere piccati a chi ci ha offeso, reagire malamente nei confronti di chi ha una prospettiva diversa dalla nostra.
Le neuroscienze confermano ciò che la saggezza popolare insegna da tempo immemorabile: la fretta è cattiva consigliera. E molto spesso è proprio delle decisioni troppo rapide che dobbiamo pentirci. Talvolta, ahinoi, non è nemmeno possibile rimediare, e ci troviamo a rammaricarci per mesi, anni, o per una vita di quei pochi secondi di follia che hanno mandato in frantumi un’amicizia, una collaborazione, un rapporto di fiducia. O che hanno rovinato la nostra reputazione, la nostra serenità, la nostra vita spirituale.
Bastano pochi secondi per compromettere anni di paziente lavoro, impegno, attesa. La Bibbia, tra i doni dello spirito, cita la temperanza: quell’autocontrollo che, se esercitato, ci tiene lontano da molti grattacapi.
Forse allora è il caso di investire qualche secondo in più nelle nostre decisioni, resistendo al vortice dell’istantaneità. Perché tra una risposta rapida e una risposta affrettata la differenza iniziale è minima; le conseguenze, purtroppo, no.
Jannacci, il laico imprudente
Interessante l’intervista di Enzo Jannacci pubblicata oggi sul Corriere in relazione al caso di Eluana Englaro: il cantautore, di professione medico, nonostante si definisca “ateo laico molto imprudente” offre alcune riflessioni profonde e, nella loro sostanza, molto cristiane.
«Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l’alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale», spiega a Fabio Cutri. Non se ne può fare una questione di tempo: diciassette anni di coma sono tanti, riflette Jannacci, «ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».
Jannacci avverte anche che, quando si parla di casi come questo, si fa un uso superficiale e irresponsabile dei termini: «Piano, piano… inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l’idea di non potergli più stare accanto».
Lo dice senza dimenticare la sofferenza di Beppino Englaro («Bisogna stare molto vicini a questo padre»), ma ricordando anche che «la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque».
Da laico, Jannacci non rifiuta l’idea di anticipare la morte per alleviare il dolore, «ma – confessa – anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover “staccare una spina”: sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».
E a chi mette in dubbio la propria dignità di uomo a causa della malattia cercerebbe «di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza».
Sarà che, per carattere, è l’antitesi del dr. House («In reparto mi rimproveravano: “Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c’entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti”»), però si percepisce, in questa sua posizione, anche qualcosa di più, una sensibilità particolare per “la figura del Cristo” che, spiega Jannacci, «In questi ultimi anni è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l’idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».
Sì, più si rileggono e più ci si rende conto che sono parole decisamente inusuali per un “ateo laico molto imprudente”. E, forse, anche per qualche cristiano.