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La “cosa giusta” che ci manca
«Come mai in Italia l’espressione “fare la cosa giusta“, di tutte quelle importate dagli Stati Uniti, è l’unica che non ha avuto alcun successo, o almeno non è entrata nella lingua parlata?», si chiede Filippo La Porta oggi sul Corriere.
Mentre Obama ha rilanciato la formula proprio di recente citando Lincoln, e nonostante da noi un film l’abbia introdotta nel linguaggio parlato già nel 1989, questa «locuzione dal sapore evangelico-coscienziale molto diffusa oltreoceano» non trova estimatori dalle nostre parti, al contrario di esclamazioni come “alla grande!” o frasi fruste come “fare la differenza”.
Generosità a termine
“Italiani generosi, ma meno di prima“: un’indagine del Corriere segnala come sia calata da parte dei privati la disponibilità a sostenere associazioni benefiche.
A risentirne di più sono state le realtà che si occupano di sanità e di ricerca scientifica, che hanno subito anche il contraccolpo di una minore generosità da parte di aziende e fondazioni.
Non che manchi l’interesse per il bene altrui: 9 milioni e 200 mila contribuenti, nel 2008, hanno destinato il loro cinque per mille alle onlus convenzionate con lo Stato, e in particolare alle realtà coinvolte nel sociale (ai primi posti Medici senza Frontiere, Emergency, Unicef).
Benvenuti in paradiso
Le dispute sul paradiso, finora, riguardavano le religioni, i guru, i teologi, al massimo qualche pensoso letterato. I dibattiti riguardavano questioni annose (chi ci entrerà?) e temi concreti (ci annoieremo?), a volte utili, in altri casi oziosi, ma comunque frutto di un’esigenza personale, intima, diretta: capire.
Che a contendersi il paradiso fossero due aziende e non due religioni, però, non era ancora accaduto: a colmare la poco significativa mancanza sono state la Lavazza e la Nespresso, aziende concentrate nello stesso settore merceologico (il caffè) e quindi direttamente concorrenti.
Il profumo dell'altruismo
In Piemonte si sono inventati il Bosco del silenzio. L’idea è venuta a Oscar Farinetti, imprenditore «noto per aver creato Unieuro e poi Eataly. Quello che aveva convinto anche Tonino Guerra a parlare in pubblico, a dire in tv “L’ottimismo è il sale della vita“».
Lasciati da parte (temporaneamente?) i suoi affari, Farinetti ha acquistato tredici ettari di bosco, «l’ultimo vero bosco di bassa Langa, l’unico che si sia salvato dall’invasione della vite». E per questo, spiega ha deciso «non solo di conservarlo, ma di dargli una destinazione particolare. Di farlo diventare il regno del silenzio e della riflessione».
In un percorso a tappe in due versioni, adatto a tutti, è possibile incontrare la natura, la letteratura con citazioni di grandi autori («da Leopardi a Baudelaire, da Fenoglio a Pavese a Whitman, da Maupassant a padre Turoldo») e se stessi.
Il percorso è gratuito, unica richiesta per essere ammessi nel bosco: impegnarsi a camminare in silenzio. Nessun divieto, beninteso, ma solo la richiesta di non interrompere i pensieri altrui con la propria voce.
Non ci soffermeremo a parlare del silenzio e dei suoi privilegi, dato che lo abbiamo fatto altre volte.
Ciò che fa riflettere è l’impegno di questo affermato professionista: un imprenditore di successo che non si limita a curare le sue aziende, ma ricava del tempo per creare qualcosa di bello, utile, da condividere con gli altri.
Probabilmente non ha molto più tempo dei suoi colleghi – e di ognuno di noi -, i problemi non gli mancano, gli imprevisti saranno anche per lui all’ordine del giorno. Eppure ha deciso di non lasciarsi travolgere da un diktat egoistico – il successo professionale – e lasciare il segno realizzando qualcosa di buono.
Viene da chiedersi come sarebbe il nostro Paese se fossero meno rari i personaggi come Farinetti, e non solo tra i professionisti. Chissà come sarebbe la nostra città se prendessimo sul serio quel mandato relazionale che Cristo ci ha assegnato, e decidessimo di dedicare una parte delle nostre risorse (tempo, energie, denaro) al benessere altrui.
Potremmo farlo come e meglio degli altri, ben sapendo che il benessere nasce dal profondo e non dai beni materiali; riusciremmo dare qualche consiglio non solo teorico, ma sperimentato in prima persona su cosa significhi affrontare le difficoltà con il conforto della fede.
Un bosco del silenzio, una casa della speranza, una scuola di valori, una sala di riflessione, un consultorio per un aiuto: tutte idee buone, che non dovremmo lasciare sempre agli altri.
Perché anche un bosco dove riflettere e trovare ispirazione può risultare efficace. Talvolta perfino più efficace dell’ennesima chiesa.
Il profumo dell’altruismo
In Piemonte si sono inventati il Bosco del silenzio. L’idea è venuta a Oscar Farinetti, imprenditore «noto per aver creato Unieuro e poi Eataly. Quello che aveva convinto anche Tonino Guerra a parlare in pubblico, a dire in tv “L’ottimismo è il sale della vita“».
Lasciati da parte (temporaneamente?) i suoi affari, Farinetti ha acquistato tredici ettari di bosco, «l’ultimo vero bosco di bassa Langa, l’unico che si sia salvato dall’invasione della vite». E per questo, spiega ha deciso «non solo di conservarlo, ma di dargli una destinazione particolare. Di farlo diventare il regno del silenzio e della riflessione».
In un percorso a tappe in due versioni, adatto a tutti, è possibile incontrare la natura, la letteratura con citazioni di grandi autori («da Leopardi a Baudelaire, da Fenoglio a Pavese a Whitman, da Maupassant a padre Turoldo») e se stessi.
Il percorso è gratuito, unica richiesta per essere ammessi nel bosco: impegnarsi a camminare in silenzio. Nessun divieto, beninteso, ma solo la richiesta di non interrompere i pensieri altrui con la propria voce.
Non ci soffermeremo a parlare del silenzio e dei suoi privilegi, dato che lo abbiamo fatto altre volte.
Ciò che fa riflettere è l’impegno di questo affermato professionista: un imprenditore di successo che non si limita a curare le sue aziende, ma ricava del tempo per creare qualcosa di bello, utile, da condividere con gli altri.
Probabilmente non ha molto più tempo dei suoi colleghi – e di ognuno di noi -, i problemi non gli mancano, gli imprevisti saranno anche per lui all’ordine del giorno. Eppure ha deciso di non lasciarsi travolgere da un diktat egoistico – il successo professionale – e lasciare il segno realizzando qualcosa di buono.
Viene da chiedersi come sarebbe il nostro Paese se fossero meno rari i personaggi come Farinetti, e non solo tra i professionisti. Chissà come sarebbe la nostra città se prendessimo sul serio quel mandato relazionale che Cristo ci ha assegnato, e decidessimo di dedicare una parte delle nostre risorse (tempo, energie, denaro) al benessere altrui.
Potremmo farlo come e meglio degli altri, ben sapendo che il benessere nasce dal profondo e non dai beni materiali; riusciremmo dare qualche consiglio non solo teorico, ma sperimentato in prima persona su cosa significhi affrontare le difficoltà con il conforto della fede.
Un bosco del silenzio, una casa della speranza, una scuola di valori, una sala di riflessione, un consultorio per un aiuto: tutte idee buone, che non dovremmo lasciare sempre agli altri.
Perché anche un bosco dove riflettere e trovare ispirazione può risultare efficace. Talvolta perfino più efficace dell’ennesima chiesa.
Otto secondi per decidere
«La velocità è nemica del senso morale, che ha bisogno per sua natura dei suoi tempi di decantazione. A sostenere questa verità non è solo il buon senso, ma uno studio di neuroscienziati del Brain and Creativity Institute della University of Southern California»: lo rivela il Corriere.
Stando agli studi in questione, per formulare “una risposta completa a emozioni profonde di ammirazione o di sofferenza” il cervello umano impiega sei-otto secondi.
La conclusione degli scienziati è che «i tempi delle scelte», considerati lunghi per i parametri odierni (ma otto secondi sono davvero un lasso di tempo così lungo?) «hanno una valenza etica, partendo proprio da quello che è il tempo fisiologico di reazione del cervello umano a fronte di un’emozione legata a una scelta morale».
Possiamo quindi rassegnarci: «i tempi della comunicazione digitale non sempre rispettano quelli umani e nel caso di azioni e reazioni con implicazioni etiche questa disparità diventa particolarmente vistosa».
Insomma, i neuroscienziati ci confermano quello che già sospettavamo: non basta uno sguardo di massima per farsi un’idea concreta, né basta una lettura superficiale per assumere una scelta ragionata e matura, per non dire etica.
Non sarà un caso se siamo tempestati da richieste di risposta “in tempo reale”: per qualcuno dei nostri interlocutori probabilmente è solo una questione di impazienza (“hai letto la mia mail? Te l’ho spedita già cinque minuti fa!”), ma non dovremmo ignorare che la fretta può essere usata come un’arma psicologica.
Le aziende più attente all’impatto con i potenziali clienti e si servono del fattore fretta: i ritmi incalzanti fanno capitolare gli interlocutori con maggiore facilità, e per questo è proprio nei primi istanti che bisogna vincere le eventuali resistenze. Se una persona dice sì subito, sarà più semplice vendergli qualcosa, si tratti di un’aspirapolvere, un abbonamento o una carta di credito: alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è lasciato abbindolare da un venditore che ci ha spiazzato, o che ha saputo conquistare la nostra fiducia fin dai primi istanti.
Cinque secondi non bastano per prendere una decisione consapevole. Dovremmo tenere conto di questo nostro limite: e non solo esercitando una sana diffidenza nei confronti del piazzista di turno. Spesso l’entusiasmo o l’impulsività ci portano a fare scelte radicali, nella nostra sfera personale, nel giro di pochi secondi.
Ci bastano pochi secondi per aderire a un progetto, rispondere piccati a chi ci ha offeso, reagire malamente nei confronti di chi ha una prospettiva diversa dalla nostra.
Le neuroscienze confermano ciò che la saggezza popolare insegna da tempo immemorabile: la fretta è cattiva consigliera. E molto spesso è proprio delle decisioni troppo rapide che dobbiamo pentirci. Talvolta, ahinoi, non è nemmeno possibile rimediare, e ci troviamo a rammaricarci per mesi, anni, o per una vita di quei pochi secondi di follia che hanno mandato in frantumi un’amicizia, una collaborazione, un rapporto di fiducia. O che hanno rovinato la nostra reputazione, la nostra serenità, la nostra vita spirituale.
Bastano pochi secondi per compromettere anni di paziente lavoro, impegno, attesa. La Bibbia, tra i doni dello spirito, cita la temperanza: quell’autocontrollo che, se esercitato, ci tiene lontano da molti grattacapi.
Forse allora è il caso di investire qualche secondo in più nelle nostre decisioni, resistendo al vortice dell’istantaneità. Perché tra una risposta rapida e una risposta affrettata la differenza iniziale è minima; le conseguenze, purtroppo, no.
La cura dell'anima
Racconta Repubblica che in Francia «dopo i buoni pasto, arrivano i buoni psicologo. Può sembrare uno scherzo, ma non lo è: alcune aziende stanno sperimentando Oltralpe l’idea di pagare ai loro dipendenti alcune sedute di psicoterapia».
I buoni, peraltro, «valgono solo per risolvere un problema preciso, non per fare una terapia a lungo termine. Al massimo, sono previste dieci sedute: al di là, il lavoratore dovrà pagare di tasca propria».
Insomma: la psicoterapia verrà pagata dall’azienda, ma solo per problemi relativi al lavoro, non per risolvere tutte le questioni di vita del dipendente.
Sarà interessante vedere come sarà possibile discernere – e curare – le conseguenze dei problemi lavorativi tralasciando quelli personali, dato che la psiche umana non lavora a compartimenti stagni; immaginiamo che sarà un lavoraccio per gli psicologi distinguere e valutare se una questione lavorativa, magari banale, sia un problema serio per il dipendente, o soltanto la causa scatenante di un problema più ampio che prescinde dal lavoro e tocca famiglia, rapporti umani, malessere sociale: in quel caso, oltretutto, sarà un grattacapo trovare una formula convincente per suddividere il costo della cura in maniera equa all’azienda e al dipendente.
Viene anche da chiedersi quale sia il problema che ci caratterizza e ci rende così diversi dai nostri padri e i nostri nonni, tanto da dover ricorrere in via ordinaria a misure straordinarie (non a caso in molti dialetti lo psicologo viene definito “il medico dei matti”). Dovremmo capire se siamo più fragili emotivamente, se viviamo in una società così diversa e tanto più complicata rispetto a quella delle generazioni passate, o se sono le nostre relazioni interpersonali, il rapporto con i valori, l’impoverimento spirituale (e, anche, religioso) ad averci portati a questo punto.
In ogni caso l’aiuto psicologico non va necessariamente rigettato con indignazione, anzi: ben venga, se serve ad analizzare, chiarire, circoscrivere i problemi. L’importante è che non la si prenda per quello che non è: una cura dell’anima.
Per quella, infatti, c’è bisogno di guardare altrove. O, meglio, in Alto.
La cura dell’anima
Racconta Repubblica che in Francia «dopo i buoni pasto, arrivano i buoni psicologo. Può sembrare uno scherzo, ma non lo è: alcune aziende stanno sperimentando Oltralpe l’idea di pagare ai loro dipendenti alcune sedute di psicoterapia».
I buoni, peraltro, «valgono solo per risolvere un problema preciso, non per fare una terapia a lungo termine. Al massimo, sono previste dieci sedute: al di là, il lavoratore dovrà pagare di tasca propria».
Insomma: la psicoterapia verrà pagata dall’azienda, ma solo per problemi relativi al lavoro, non per risolvere tutte le questioni di vita del dipendente.
Sarà interessante vedere come sarà possibile discernere – e curare – le conseguenze dei problemi lavorativi tralasciando quelli personali, dato che la psiche umana non lavora a compartimenti stagni; immaginiamo che sarà un lavoraccio per gli psicologi distinguere e valutare se una questione lavorativa, magari banale, sia un problema serio per il dipendente, o soltanto la causa scatenante di un problema più ampio che prescinde dal lavoro e tocca famiglia, rapporti umani, malessere sociale: in quel caso, oltretutto, sarà un grattacapo trovare una formula convincente per suddividere il costo della cura in maniera equa all’azienda e al dipendente.
Viene anche da chiedersi quale sia il problema che ci caratterizza e ci rende così diversi dai nostri padri e i nostri nonni, tanto da dover ricorrere in via ordinaria a misure straordinarie (non a caso in molti dialetti lo psicologo viene definito “il medico dei matti”). Dovremmo capire se siamo più fragili emotivamente, se viviamo in una società così diversa e tanto più complicata rispetto a quella delle generazioni passate, o se sono le nostre relazioni interpersonali, il rapporto con i valori, l’impoverimento spirituale (e, anche, religioso) ad averci portati a questo punto.
In ogni caso l’aiuto psicologico non va necessariamente rigettato con indignazione, anzi: ben venga, se serve ad analizzare, chiarire, circoscrivere i problemi. L’importante è che non la si prenda per quello che non è: una cura dell’anima.
Per quella, infatti, c’è bisogno di guardare altrove. O, meglio, in Alto.
Regali inaspettati
Mette una certa tristezza leggere su Repubblica che sarà il natale dei regali low cost. I negozi “tutto a un euro” hanno avuto un’impennata di vendite del 20%: non li frequentano più solo ragazzi, pensionati e badanti, ossia persone con un borsellino limitato, ma anche coloro che in passato mai avrebbero pensato di entrarci, e perfino aziende, che cercano qualche prodotto dignitoso ma non dispendioso per i regali a clienti e dipendenti.
Gli articoli sul binomio natale&crisi compaiono in realtà già da un mese sui quotidiani, tanto da far sospettare che sia un nuovo luogo comune del giornalismo, versione aggiornata dei servizi che fino agli anni Novanta andavano in onda a natale ricordando la malinconica festa di quanti erano rimasti senza lavoro proprio alla vigilia delle feste per la chiusura improvvisa di qualche azienda.
Eppure forse la crisi di questo natale 2008 potrebbe essere salutare. Chissà: magari, più che un male, si potrebbe rivelare una cura: la cura a un consumismo esagerato che bene o male ha contagiato tutti, e negli ultimi anni ci ha fatto perdere tempo e serenità alla ricerca del regalo perfetto; la cura a una visione materialista della festa, dove quel che si dà conta più di quel che si è; la cura a una prospettiva distorta, che ci fa vedere il regalo come il massimo che possiamo offrire ai nostri familiari; la cura a un dono che ormai sostituisce la nostra presenza e il nostro impegno verso gli altri.
Chissà che la crisi non ci offra finalmente la possibilità di rivalutare ciò che più conta: il nostro cuore, la nostra presenza, la nostra attenzione nei confronti delle persone care. Perché nessun regalo ha mai potuto né potrà compensare l’abbandono, l’assenza, il disinteresse.
E allora, complice la crisi, approfittiamo di questo natale povero per dare noi stessi a chi amiamo. Sarà un regalo economico per noi, ma utile e apprezzato per chi lo riceverà. Una vera sorpresa.