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Il ritmo del messaggio

“God is my dj”, si intitolava la tournée musical-teatrale che Alice portava in giro per l’Italia tra brani sacri e pezzi meno convenzionali.

Chissà se l’iperbole di quello slogan ha qualche parte nella decisione della diocesi cattolica di Genova, che sulla spiaggia di Arenzano ha inaugurato la prima “discoteca cristiana”: l’obiettivo è «far ballare d’estate i turisti e i parrocchiani in allegria, pregando e divertendosi».

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Fuori tempo massimo

«Vittoria!» – «Vergogna!»

Le reazioni del mondo evangelico alla sentenza di Strasburgo sulla rimozione dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane non potevano essere più antitetiche. Posizioni diverse e legittime, che si basano su considerazioni opposte. Da un lato una tendenza laicista che, spesso, deborda su posizioni di principio anticattoliche, senza se e senza ma; dall’altro una linea meno rigida, più comprensiva, che però rischia di passare per una manovra di ripiegamento.
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Pugni alla coscienza

Diciott’anni, due pugni e una vita sulla coscienza. Ci si può rovinare l’esistenza anche così, dando in escandescenze per difendere un diritto inesistente e un atto palesemente antisociale.

È successo a Torino dove un settantaseienne è stato preso a pugni in faccia da un giovinastro che insisteva per salire in bicicletta sul bus. L’autista, una donna, non sapeva più quali armi usare per convincerlo a restare a terra, e l’uomo, con un passato da tramviere, è intervenuto per rasserenare il ragazzotto. A onor del vero non sappiamo ancora se l’ictus che ha ucciso l’anziano sia stato una conseguenza diretta dei pugni presi sul bus, anche se la logica e il buonsenso lo suggerirebbero.
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Se anche Bill dice basta

Se si è stufato lui, figurarsi noi. Bill Gates, fondatore dell’informatica di consumo, autore dei programmi e dei problemi dei nostri computer, annuncia la sua decisione di lasciare Facebook: il suo profilo sul social network più diffuso al mondo, infatti, era diventato ingestibile, con le diecimila richieste di amicizia che lo hanno raggiunto.

«Mi sono reso conto che si trattava di un’enorme perdita di tempo… Era diventato ingestibile, alla fine ho dovuto rinunciare» ha spiegato.

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Verità di troppo

150 ore di registrazioni e 30 mila pagine di documenti inediti, recentemente resi pubblici dalla Biblioteca presidenziale americana di Yorba Linda, in California, gettano nuove ombre su Richard Nixon.

Se il presidente, sul piano pubblico, viene già ricordato per lo scandalo Watergate che lo costrinse a dimettersi, ora si trova a fare i conti anche con rivelazioni su conversazioni private che, certo, non migliorano la sua immagine.

Scrive La Stampa che «Se c’è un filo comune nei documenti declassificati è aggressività e disprezzo di Nixon, verso gli amici come per gli avversari».

Insomma, nastri e carte rivelano un Nixon cinico, spregiudicato, insofferente verso le obiezioni da qualunque parte venissero. Niente di strano per un politico, a dire il vero.

Quel che lascia perplessi è il senso dell’operazione. Andare a pescare nella posta altrui è sempre pericoloso, e scrutare nell’intimità della vita familiare può provocare forti delusioni anche quando si tratta di grandi uomini: figurarsi quando lo si fa con un uomo pubblico che, per arrivare dove è arrivato, deve aver ceduto a una pioggia di compromessi.

È vero che, biblicamente parlando, “nulla è destinato a rimanere segreto”, ma forse dovremmo chiederci se la luce alla quale vogliamo portare il comportamento delle persone sia la luce cristiana o una luce guardona.

Certo, la verità deve emergere. Ma dovremmo chiederci a cosa facciamo riferimento quando parliamo di verità e, soprattutto, quale sia lo scopo della presunta verità di cui ci ergiamo paladini.

Anche chi spettegola, di solito, si difende esclamando “ma è la verità!”: se nulla deve restare segreto, allora il gossip è attività benemerita, e i ficcanaso sono i nuovi moralizzatori.

Nel valutare le persone è certo necessario il buonsenso di una valutazione su larga scala, ma capace di distinguere il grano dal loglio e di dare la giusta priorità alle informazioni raccolte.

Proprio come i sondaggisti che, in attesa dei risultati elettorali definitivi, non si basano acriticamente su tutti i dati, ma organizzano le proiezioni per dare un senso a quei dati.

Non tutte le sezioni elettorali sono ugualmente rappresentative e permettono di farsi un quadro attendibile della realtà generale. Proprio come le parole, le azioni, i comportamenti delle persone.

Fuori bersaglio

A Milano si è aperto il processo a Google: il noto motore di ricerca è finito alla sbarra per la nota vicenda della pubblicazione su Youtube (di cui Google è proprietario) del video in cui quattro ragazzotti torinesi vessavano un compagno di classe disabile. Il filmato ha fatto il giro del mondo, provocando indignazione nell’opinione pubblica e infinite discussioni tra gli addetti ai lavori, concludendo la sua corsa con l’odierno strascico legale.

In aula si discuterà sulla responsabilità oggettiva di chi offre un servizio online, come Google: fino a dove può spingersi l’obbligo di controllo preventivo o di filtraggio dei contenuti? Quali sono i margini ragionevoli entro i quali si può stemperare la responsabilità grazie alla buona volontà di una rimozione solerte, anche se non immediata?

È intuibile però che la portata del processo è più ampia, e giunge a toccare un cardine del diritto come il rapporto tra responsabilità e libertà, tutela della sfera privata e diritti della sfera pubblica, con tutto ciò che ne segue. Per questo motivo al tribunale di Milano sono giunte cinque testate straniere, tra cui il New York Times.

Il Corriere stesso dedica mezza pagina alla notizia, ripercorrendo la vicenda e dando conto della prima udienza (per la cronaca è slittata per assenza dell’interprete).

La causa in corso sarà utile. Utile a stabilire alcuni punti fermi, utile a dare indicazioni concrete a chi opera nel settore.

In questa baraonda, però, si rischia di spostare l’attenzione dal vero problema. Che non è Google – anche se farebbe più notizia – e non è nemmeno l’impossibile gestione umana dei ponderosi archivi video di Youtube.

Il problema non è il servizio offerto, ma il modo in cui è stato usato. Perché tutto  nato da quattro giovani.

Giovani bullotti che un giorno hanno deciso di maltrattare un loro coetaneo.

Giovani imbecilli che, per il loro ignobile gesto, hanno preso di mira un disabile.

Giovani bacati che hanno deciso di filmare la scena, dimostrando la premeditazione, tradendo un atteggiamento esibizionista, oltre che delinquenziale.

Giovani meschini che hanno provato un tale compiacimento dalla loro azione da pensare di condividerla con il mondo intero attraverso un servizio nato per scopi ben diversi.

Nella disgustosa sequenza si avverte una percezione distorta dei valori, dove bene e male si scambiano i ruoli. Qualcuno parlerà della solita infanzia difficile, ma probabilmente sarebbe più corretto chiamare in causa un’educazione latitante.

E allora, riflettiamoci su: la colpa, alla fine, è davvero di Youtube?

Un mondo senza vergogna

Chi ci salverà da un mondo senza vergogna? Ce lo chiediamo anche noi, insieme a Marco Belpoliti.

La vergogna è un sentimento ormai superato, di cui si ritiene di poter fare a meno e di cui – semmai – vergognarsi. E invece è sempre stata un ottimo filtro per i comportamenti individuali.

Il problema tocca tutti noi. La generazione di mezzo ha abolito la vergogna insieme ai limiti e alle inibizioni: per tentare di raggiungere un senso di libertà abbiamo sperimentato la trasgressione estrema; abbiamo trasformato le regole in suggerimenti e abbiamo abolito ogni punto di riferimento.

Abbiamo creato un’epoca “post” tutto, e abbiamo tirato su in questo contesto la nuova generazione. Una generazione che i limiti non li ha mai visti, le regole non le ha mai rispettate, e la vergogna non sa nemmeno cosa sia. Eravamo convinti di averle fatto un favore, sgombrando il campo da ogni confine; ci sentivamo come l’adolescente che riesce a conquistare mezz’ora al coprifuoco serale imposto dai genitori, spianando la strada al fratello minore.

Non è andata secondo i piani. Evidentemente quei limiti avevano un senso, quelle norme non erano così inutili. Quella vita, di cui coscienza e vergogna erano parte integrante, aveva un significato. Quelle difficoltà, quelle regole che ci andavano così strette ci motivavano a coltivare interessi, passioni, obiettivi, speranze.

Speranze che mancano a chi, oggi, vive un mondo dove tutto è relativo, dai valori alle azioni quotidiane.

Provate a esclamare “vergognati!” davanti a un adolescente. Vi guarderà perplessi. Vergognarsi di cosa? E perché?

E in fondo ha ragione: senza valori non esiste il giusto o lo sbagliato, il bene o il male. E, senza di questi, la vergogna non ha senso.

Ce lo siamo costruiti noi, questo mondo, a forza di irridere chi invocava un po’ di buona creanza. Che sarà mai, dicevamo, una pancia nuda o una risposta sopra le righe: i giovani devono essere lasciati liberi di esprimere se stessi. Senza vergogna, naturalmente.

E così, passo dopo passo, abbiamo demolito tutto: dalla buona creanza all’educazione, dall’educazione al rispetto, dal rispetto alla convivenza civile.

Non abbiamo costruito un bel mondo: né per noi, né per loro. Dovremmo correre ai ripari, se siamo ancora in tempo. E dovremmo vergognarci, se sappiamo ancora farlo.

Otto secondi per decidere

«La velocità è nemica del senso morale, che ha bisogno per sua natura dei suoi tempi di decantazione. A sostenere questa verità non è solo il buon senso, ma uno studio di neuroscienziati del Brain and Creativity Institute della University of Southern California»: lo rivela il Corriere.

Stando agli studi in questione, per formulare “una risposta completa a emozioni profonde di ammirazione o di sofferenza”  il cervello umano impiega sei-otto secondi.

La conclusione degli scienziati è che «i tempi delle scelte», considerati lunghi per i parametri odierni (ma otto secondi sono davvero un lasso di tempo così lungo?) «hanno una valenza etica, partendo proprio da quello che è il tempo fisiologico di reazione del cervello umano a fronte di un’emozione legata a una scelta morale».

Possiamo quindi rassegnarci: «i tempi della comunicazione digitale non sempre rispettano quelli umani e nel caso di azioni e reazioni con implicazioni etiche questa disparità diventa particolarmente vistosa».

Insomma, i neuroscienziati ci confermano quello che già sospettavamo: non basta uno sguardo di massima per farsi un’idea concreta, né basta una lettura superficiale per assumere una scelta ragionata e matura, per non dire etica.

Non sarà un caso se siamo tempestati da richieste di risposta “in tempo reale”: per qualcuno dei nostri interlocutori probabilmente è solo una questione di impazienza (“hai letto la mia mail? Te l’ho spedita già cinque minuti fa!”), ma non dovremmo ignorare che la fretta può essere usata come un’arma psicologica.

Le aziende più attente all’impatto con i potenziali clienti e si servono del fattore fretta: i ritmi incalzanti fanno capitolare gli interlocutori con maggiore facilità, e per questo è proprio nei primi istanti che bisogna vincere le eventuali resistenze. Se una persona dice sì subito, sarà più semplice vendergli qualcosa, si tratti di un’aspirapolvere, un abbonamento o una carta di credito: alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è lasciato abbindolare da un venditore che ci ha spiazzato, o che ha saputo conquistare la nostra fiducia fin dai primi istanti.

Cinque secondi non bastano per prendere una decisione consapevole. Dovremmo tenere conto di questo nostro limite: e non solo esercitando una sana diffidenza nei confronti del piazzista di turno. Spesso l’entusiasmo o l’impulsività ci portano a fare scelte radicali, nella nostra sfera personale, nel giro di pochi secondi.

Ci bastano pochi secondi per aderire a un progetto, rispondere piccati a chi ci ha offeso, reagire malamente nei confronti di chi ha una prospettiva diversa dalla nostra.

Le neuroscienze confermano ciò che la saggezza popolare insegna da tempo immemorabile: la fretta è cattiva consigliera. E molto spesso è proprio delle decisioni troppo rapide che dobbiamo pentirci. Talvolta, ahinoi, non è nemmeno possibile rimediare, e ci troviamo a rammaricarci per mesi, anni, o per una vita di quei pochi secondi di follia che hanno mandato in frantumi un’amicizia, una collaborazione, un rapporto di fiducia. O che hanno rovinato la nostra reputazione, la nostra serenità, la nostra vita spirituale.

Bastano pochi secondi per compromettere anni di paziente lavoro, impegno, attesa. La Bibbia, tra i doni dello spirito, cita la temperanza: quell’autocontrollo che, se esercitato, ci tiene lontano da molti grattacapi.

Forse allora è il caso di investire qualche secondo in più nelle nostre decisioni, resistendo al vortice dell’istantaneità. Perché tra una risposta rapida e una risposta affrettata la differenza iniziale è minima; le conseguenze, purtroppo, no.

Titoli etici

Nel corso della vita capita a quasi tutti, chi più chi meno, di mettere da parte qualche soldo. E a quel punto, soddisfatte le esigenze di base, si pone la questione di come investire questi risparmi per garantire il ritorno più ragionevole possibile.

Curiosamente però come cristiani ci preoccupiamo molto poco delle implicazioni etiche di queste scelte, preferendo puntare solo sull’opzione più redditizia e affidandoci al fiuto (e all’onestà) di un agente che non sempre ha i nostri stessi parametri morali.

Non si tratta di malafede quanto di disattenzione. Una disattenzione sorprendente, considerando che in altri settori la nostra soglia di attenzione è ben più alta: siamo sensibili alla provenienza dei prodotti alimentari; firmiamo petizioni contro la schiavitù moderna che, in alcuni Paesi dell’estremo Oriente, permette di produrre a costi irrisori; siamo capaci di indignarci perché un’azienda propone capi di abbigliamento realizzati grazie a manodopera minorile.

Eppure, per quanto riguarda i nostri fondi, ci accontentiamo di scorrere la colonna dei ricavi, senza chiederci chi abbiamo finanziato per raggiungere il nostro guadagno. Attraverso i cocktail azionari e obbligazionari potremmo aver finanziato un governo che discrimina i cristiani, oppure un’azienda che vende armi da guerra. O una banca che compie operazioni spericolate.

Che non sia solo un particolare secondario lo si può dedurre dagli ultimi rovesci di borsa: perché la mancanza di etica, l’avidità, l’estrema spregiudicatezza si ripercuotono non solo sui dipendenti ma anche, presto o tardi, sui risultati finanziari.

Nei giorni scorsi Pieremilio Gadda, dalle colonne dell’Osservatorio finanza etica, raccontava della ICCR, Interfaith Center on Corporate Responsability: un coordinamento interdenominazionale e internazionale di finanzieri con dei valori morali e spirituali. Si tratta di agenti finanziari di estrazione evangelica, cattolica, ebraica (ma anche di altre religioni e laici) che, attraverso una preparazione finanziaria e dei saldi principi, esercitano un attento controllo al comportamento delle aziende nelle quali investono per conto dei propri clienti. Insomma, un portafoglio titoli eticamente orientato, per il bene di tutti.

Uno degli affiliati, il pastore William Somplasky-Jarman, è stato addirittura il primo a intravedere il rischio-Lehman: la ICCR aveva fatto presente, con anni di anticipo, i rischi dei mutui subprime, ottenendo un impegno formale da parte della banca d’affari “a sviluppare migliori procedure di analisi nel settore del credito”. Promessa a quanto pare disattesa, con le conseguenze che sappiamo.

Perché l’ICCR ha udienza e credito, con le sue istanze e le sue richieste, anche presso i colossi? Per una questione di numeri: spiega Gadda che «i trecento investitori istituzionali che fanno capo alla coalizione internazionale, complessivamente, gestiscono un patrimonio di oltre 100 miliardi di dollari», che diventano 2-3 mila miliardi comprendendo le organizzazioni associate e affiliate.

Da noi i numeri sono diversi, e di conseguenza cambia anche il possibile impatto. Ma non è scontato che sia così. Non mancano gli investimenti e non mancano gli operatori finanziari attenti all’etica. Viene allora da pensare che se anche in Italia almeno coloro che si definiscono cristiani coerenti badassero al loro portafoglio titoli andando oltre i numeri, qualcosa potrebbe cambiare.