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Farewell, mr. President

Ultimo giorno di lavoro per George Walker Bush: martedì, dopo il giuramento di Obama, verrà portato in Texas, dove comincerà per lui una nuova vita da ex presidente. La Stampa spiega che si impegnerà «alla guida del “Freedom institute”, presso l’Università metodista del sud», istituto da lui fondato ad hoc per il dopo-Casa Bianca.

Prima di dare spazio a Obama – che, a dire il vero, in questi ultimi mesi si è già impadronito della ribalta – e chiudere il capitolo dell’era Bush ci sembra corretto ricordare un presidente che negli ultimi mesi è stato fatto oggetto di un intenso e ingeneroso tiro al bersaglio.

Secondo la vulgata benpensante la reazione è stata inevitabile conseguenza delle decisioni sbagliate prese da Bush nel corso del suo mandato, ma probabilmente la verità è un’altra, ed è legata all’immagine del suo successore. Nel suo ultimo anno di mandato, infatti, Bush è stato oscurato dalla stella di Obama: nero e giovane, brillante e tecnologico come nessun altro, fin dagli inizi della campagna elettorale 2008 Obama ha finito per incarnare agli occhi del mondo l’immagine del nuovo e della novità. Bush, di conseguenza, è apparso a un tratto banale, antico, demodé, diventando all’improvviso padre di tutte le colpe e le nevrosi dell’Occidente.

Eppure, nel suo conservatorismo solidale, nella sua ordinarietà, in quella mediocrità che tanto ha fatto discutere il mondo, Bush è stato un presidente innovativo. In un paese dove Dio e la fede stanno diventando qualcosa di cui vergognarsi, Bush ha invertito la tendenza, dichiarandosi serenamente cristiano. Ha raccontato senza remore il suo passato da rampollo viziato e dipendente dall’alcol, e come Dio lo avesse ripescato, alla soglia dei quarant’anni, servendosi di quel Billy Graham che per i Bush è un amico di famiglia.

Una scelta, spirituale e morale, confermata anche alla Casa Bianca: a voler essere onesti si deve riconoscere che la presidenza Bush non ha visto scoppiare scandali personali, dopo l’allegra gestione cui ci aveva abituati Bill Clinton.

Esattamente quattro anni fa, alla vigilia della cerimonia di insediamento (la seconda, dopo quella del gennaio 2001), Bush aveva dichiarato «non vedo come si possa essere presidente senza avere uno stretto rapporto con il Signore», e il suo secondo mandato più del primo ha confermato questo “filo diretto con Dio”, come ebbe a definirlo, raccontandoci della preghiera comunitaria alla Casa Bianca, gli inni cantati insieme ai suoi ministri, la lettura dei salmi al mattino, i culti domenicali, i mille riferimenti cristiani nei suoi discorsi.

Questa sua esposizione – troppo controproducente, sul piano dell’immagine, per non essere sincera – ha avuto le sue ripercussioni anche da noi: perfino le testate più influenti si sono dovute interrogare su chi siano questi evangelici, ribattezzati spesso evangelisti, evangelicali, rinati, a seconda della fantasia del giornalista di turno.

Non è mancata da parte dei media una buona dose di malizia, come ha rilevato a suo tempo il suo consigliere (cattolico) James Towey: «Secondo me, su questo punto si fanno due pesi e due misure. Il presidente Kennedy ha più volte invocato Dio nei suoi discorsi. Il presidente Carter ha perfino provato a convertire al Cristianesimo il presidente sudcoreano. Anche Bill Clinton non nascondeva mai la sua partecipazione a riti religiosi. Pensiamo a Lincoln: è impossibile comprendere la sua presidenza, distaccandola dalla sua fede personale. Ma quando si parla di Bush le cose cambiano. Ritengo che chi lo attacca su questo aspetto è in realtà a disagio con la propria fede. Porto un esempio: se il presidente ha un incontro con la comunità musulmana o ebraica, nessuno dice niente. Se però riceve un gruppo cristiano evangelico, ecco che subito qualcuno lancia l’allarme: che cosa starà facendo? Li sta favorendo? Questo è semplicemente falso».

Il tempo ci dirà se sarà opportuno ricordare Bush per aver detronizzato Saddam Hussein o per le conseguenze drammatiche delle lotte tra bande irachene; se gli afghani avranno saputo sfruttare la cacciata dei taliban o l’impegno americano sarà stato inutile; se le drastiche misure di Guantanamo saranno servite a prevenire nuovi attacchi terroristici contro l’Occidente.

Per il momento, ci piacerà ricordarlo con una sua confessione di qualche anno fa: «Ho pianto molto, [di lacrime] ne ho versate molte di più di quanto si possa pensare che accada a un presidente… In quei momenti mi sono appoggiato alla spalla di Dio».

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Esperienze benefiche

Massimo Gaggi sul Corriere raccontava ieri la storia di un gruppo particolare.

Erano conosciuti come Businessmen, ma non erano un azzimata congrega di professionisti: erano una banda di giovani di colore che negli anni Cinquanta ha cominciato a scorrazzare per la periferia di Los Angeles, contendendosi il territorio con la gang rivale (gli Slausons) e lasciando sul terreno, nelle proprie scorribande, più di qualche morto.

Gli anni sono passati, la banda si è sciolta e ognuno è andato per la sua strada: chi ha trovato la via della criminalità (e del carcere), chi un lavoro serio, chi addirittura una professione di un certo livello.

I superstiti si sono reincontrati per ricordare i cinquant’anni della gang, e hanno preso una decisione: aiutare i ragazzi di oggi a non cadere nei loro stessi errori. Così, in una ideale riedizione della banda, si sono organizzati per creare un centro dove i ragazzi disadattati della “loro” periferia possono entrare in contatto con una realtà diversa, trovando stimoli culturali e pedagogici per uscire da una realtà che, nelle periferie fatte di noia e criminalità, è quasi una strada obbligata per troppi ragazzi, nelle strade della west coast americana come a Scampia.

I Businessmen, come chiosa Gaggi, avrebbero potuto fare altro: incontrarsi per ricordare il passato tra una partita a carte e un drink. Hanno scelto la strada più difficile: ricordare il passato mettendo a frutto la loro dolorosa esperienza. Lontani da inutili autoreferenzialità e vicini ai bisogni di chi, oggi, rivive le stesse vicende e gli stessi pericoli dei giovani di ieri.

Naturalmente non sono i soli a impegnarsi socialmente per i ragazzi di periferia, ma hanno una carta in più rispetto ad altri: possiedono un’esperienza diretta e concreta che permette loro di capire meglio di chiunque altro i bisogni, le frustrazioni e le speranze dei Businessmen di oggi.

Indubbiamente una bella lezione: mica facile avere la il coraggio e la lungimiranza per mettere a frutto le proprie esperienze.

Viene da pensare a tutte le volte in cui, in passato, ci siamo ritrovati ad affrontare situazioni difficili, critiche, magari traumatiche. Ne siamo usciti, ma senza trovare una risposta plausibile alle nostre domande.

Chissà che la risposta ai perché di ieri non stia proprio in quell’esperienza che, oggi, potrebbe aiutare gli altri.