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Esperienze da raccontare

È mancata, alla bella età di 108 anni, l’australiana Olive Riley: viveva a Sydney ed era la più anziana blogger della rete. A febbraio scorso aveva aperto il suo diario telematico, aiutata da un pronipote, «condividendo – spiega Reuters – con gli internauti le sue storie sulle due guerre mondiali e su come ha cresciuto tre figli da sola con il suo lavoro da cuoca in una stazione di provincia».

In questo modo la vecchina «si è guadagnata un pubblico di lettori internazionali», dalla Russia all’America, che si collegavano e interagivano con lei.

In questi cinque mesi la signora Riley è riuscita a inserire una settantina di interventi, risultato che batte in produttività i blog di molti giovani e giovanissimi, incapaci di esercitare costanza nell’aggiornamento del proprio spazio telematico.

La vicenda di Olive Riley fa riflettere. Si tratta ovviamente di un caso estremo: non è facile trovare un centenario lucido e capace di ricordare le vicende della sua vita, che si intrecciano con un intero secolo di storia. Eppure, se di Olive Riley ce n’è una, sarebbero molte le persone di una certa età disposte a raccontare. Sarebbe utile a loro, per mantenere la lucidità e sentirsi ancora vivi anziché spegnersi con la sensazione di essere un peso per la società. E sarebbe utile a noi, che potremmo leggere la storia da una prospettiva diversa, più immediata e vivida, sentendola dalla voce di un protagonista.

Sarebbe interessante poter contare su un archivio di piccole e grandi storie, vicende umane, scorci del passato. E non solo per documentare ciò che è stato, o per curiosità storica.

Le vicende umane si ripetono ciclicamente, i grandi temi con cui l’uomo si confronta sono sempre gli stessi: proprio per questo, in fondo, le storie di vita rappresentano un eterno presente, capace di dare spunti di riflessione, suggerimenti utili, speranza.

In famiglia, nel quartiere, nelle chiese sono sicuramente in molti ad avere un’esperienza da raccontare, e ad essere disposti a raccontarla. Quel che manca, semmai, sono le persone disposte ad ascoltare e a mettere questo patrimonio di vita a disposizione di tutti. Prima che sia troppo tardi.

Una fede confusa

Nella seconda corsa alla Casa Bianca di Bush junior la fede ha avuto un ruolo di primo piano: ricordiamo ancora tutti il candidato repubblicano citare Gesù come proprio filosofo di riferimento, o il racconto sulla sua conversione, sulla quale peraltro non abbiamo motivo di nutrire dubbi.

Ora ci prova anche Barack Obama: «La profonda fede del candidato democratico alla Casa Bianca è l’oggetto del nuovo libro scritto dall’autore di una biografia dell’attuale presidente dal punto di vista della religione. Stephen Mansfield, un ex pastore autore del libro “The faith of George Bush”, sta infatti per dare alle stampe “The faith of Barack Obama”, che uscirà ad agosto in America. Giusto in tempo per fare breccia nell’elettorato religioso, che quattro anni fa votò in maniera preponderante per Bush, ma che quest’anno potrebbe addirittura favorire Obama e tradire i repubblicani».

A favore di Obama, spiega Alessandro Ursic nel suo articolo su Peace Reporter, il fatto che John McCain non prediliga parlare in pubblico di fede: si sa che è credente, si sa che ha perfino celebrato culti e predicato per i suoi compagni nelle prigioni vietnamite, ma tiene per sé la sua esperienza spirituale. Non gliene si può fare una colpa, ma sul piano politico una scelta simile non aiuta.

Inoltre, un contesto che vede entrambi i candidati proporre vedute progressiste su temi sensibili come aborto e matrimoni omosessuali, evidentemente si ritrova avvantaggiato chi, come Obama, «ha sempre indicato nella conversione adulta alla fede il momento di svolta della sua vita».

Obama convince la fascia di elettori tra i 18 e i 29 anni: «i giovani evangelici dicono “certo, siamo contro l’aborto, ma siamo con il primo candidato nero, secondo è un cristiano e terzo è convinto che la fede debba avere un ruolo nell’agenda politica”».

E gioca a suo favore anche l’inedito interesse delle chiese evangeliche americane per questioni mai considerate prima, come la lotta all’effetto serra o la difesa dei diritti umani in Darfur, tanto da far ipotizzare ai commentatori uno “spostamento verso sinistra” degli evangelici americani.

C’era una volta il classico evangelico americano: timorato di Dio, ordinario, tradizionalista, piuttosto rigido e refrattario alle novità nelle sue convinzioni bibliche incrollabili, su cui poneva tutta l’attenzione.

Poi quel credente si è reso conto di trascurare la società che lo circondava, e risultare così “fuori dal mondo” nel senso meno desiderabile del termine: viveva una realtà parallela a misura di chiesa, e questo finiva per rendere poco efficace il dialogo con quella società cui era chiamato a “portare l’evangelo”.

Di qui la svolta verso un modo diverso di vedere la vita, dove le verità bibliche restavano incontestabili ma diventava possibile e opportuno comunicare quelle verità in maniera comprensibile a un mondo che cambia, senza considerare più il rock e Internet “strumenti del demonio”, e anzi utilizzando passioni e mode per veicolare il messaggio cristiano.

Quell’evangelico si è poi accorto che la società, e con lei il pianeta, aveva anche altre esigenze, secondarie ma talvolta pressanti. Impossibile ignorare i bisogni degli immigrati, l’uguaglianza sociale, la fame nel mondo, i grandi temi ambientali e con essi l’importanza di mantenere un senso di responsabilità nei piccoli comportamenti quotidiani.

Sul piano culturale si è accorto di come il confronto con il “mondo”, qualora affrontato con la giusta preparazione, possa essere efficace per sfatare il mito del cristiano credulone e un po’ tonto, dimostrando che la fede ha una sua logica e offre risposte di una ricchezza e profondità impensabili anche sul piano intellettuale.

Il problema è che, oggi, quell’evangelico rischia di rovesciare il rapporto tra strumento e scopo, finendo per dare importanza “in primo luogo” al fatto di sostenere un candidato in quanto “nero”, lasciando in secondo piano la sua fede. E trascurando del tutto le sue posizioni politiche relative a temi che, obiettivamente, un presidente cristiano non può liquidare con due slogan, e che richiedono invece un approccio appropriato.

La corsa alla casa Bianca è ancora lunga, e molto verrà ancora detto e scritto. Se però, nelle elezioni di novembre, le priorità degli elettori dovessero risultare quelle espresse dai giovani, ancora una volta dovremo dare ragione a Churchill: ogni popolo ha i governanti che si merita.

Non solo. Se l’elettore evangelico si accontenterà di condividere con un candidato l’impegno a favore dell’ambiente – magari enfatizzato affidando la vicepresidenza ad Al Gore, che va così di moda -, riuscendo invece a sorvolare bellamente sulle incompatibilità in merito a temi pesanti come l’aborto, si profilerà un futuro quantomai confuso per gli Stati Uniti. Barattare i capisaldi morali con l’impegno sociale è l’ultima frontiera per un cristiano, oltre la quale non esistono più priorità e punti fermi cui fare riferimento.