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Una presenza eterea

«Non credo che accettino di vendere Kakà perché devono fare cassa, ma perché quando un giocatore chiede per due o tre volte di andarsene, alla quarta non lo puoi tenere». Lo dice oggi alla Stampa Demetrio Albertini, “senatore” del Milan con un’esperienza internazionale alle spalle.

Abbiamo parlato più volte del fuoriclasse milanista per la sua fede e la sua testimonianza cristiana, che l’ambiente calcistico, pur sorridendo a mezza bocca, ha dovuto rispettare  in ossequio alla qualità tecnica del personaggio. Da sempre il talento è una credenziale che giustifica ciò che suona anomalo o che non si sopporta: la fede di Kakà, il carattere difficile di Mourinho, l’atteggiamento irriverente di Gascogne.

Però la vicenda Kakà è ormai una telenovela dal finale annunciato. Se è questione economica, non si può che concludere con la cessione: il Milan potrà resistere alla prima offerta esorbitante, potrà declinare la seconda, ma prima o poi dovrà cedere.

Resta qualche dubbio sul problema di fondo che spinge il calciatore ad accettare di andarsene altrove. Difficile credere che riguardi i soldi: quando uno guadagna decine di milioni di euro all’anno può permettersi di dire no perfino a offerte da capogiro, e può farci addirittura una bella figura. È successo allo stesso Kakà l’estate scorsa, quando a offrire una cifra da capogiro è stato il presidente (musulmano) del Manchester City: dire di no è stato (oppure è sembrato?) un gesto di coerenza con il proprio credo.

Se il problema non è di natura economica, potrebbe riguardare l’ambiente: ma il calciatore vive a Milano dal 2003, e a quanto pare regge bene la metropoli, né pare abbia avuto il bisogno di trovare una villa fuori dal caos urbano, come altri suoi colleghi.

Che sia un problema di maglia? Anche in questo caso, la tesi è difficile da sostenere: fino a poche settimane fa il fuoriclasse ringraziava i tifosi e prometteva fedeltà, difficile che sia cambiato qualcosa.

Nemmeno il fattore-nostalgia ha qualche chance: ha con sé la famiglia, sua moglie e di recente perfino la sua chiesa brasiliana – non bastassero le decine di comunità evangeliche già presenti a Milano – ha aperto una filiale in centro città.

Forse il problema non esiste, e Kakà sente solo il bisogno di cambiare. Non sappiamo se lo farà: in caso avvenga, però, è probabile che la Milano non calcistica non ne risenta.

Sarà che si tratta di un personaggio globale e – di conseguenza – poco legato al locale, ma in questi sei anni in rossonero, fuori dal campo, la sua presenza è rimasta eterea.

Nonostante le sue forti convinzioni religiose, non si sono registrate da parte sua apparizioni a iniziative di carattere evangelico: mentre i suoi colleghi Atleti di Cristo girano l’Italia, partecipano a trasmissioni radiofoniche e televisive, visitano teatri e chiese, sponsorizzano missioni e iniziative di evangelizzazione, scrivono libri e incontrano la gente, lui è rimasto sempre in disparte.

Un altro stile, forse; sapere della sua fede ha incoraggiato molti, ma la Milano evangelica – quei credenti che sono stati fieri di poterlo annoverare come un “fratello”, e che dalla sua fede magari hanno tratto spunto per parlare di Dio ad amici e colleghi – lo avrebbe voluto abbracciare, ringraziare, salutare, una volta o l’altra. Con la scusa che l’avrebbero voluto tutti (e come dargli torto?), non lo ha visto nessuno. Una presenza incoraggiante, ma del tutto virtuale.

Da questo punto di vista Kakà possiamo dire che è già partito. O, forse, non c’è mai stato.

Chissà, forse Madrid gli sarà più congeniale. Speriamo. Dios te bendiga, Ricardo.

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Pentimenti poco convincenti

Cesare Battisti, “ex terrorista”, scrive una lettera aperta al nostro Paese, chiedendo: «L’Italia cristiana mi perdoni».

Ricorderete la vicenda: Battisti si macchiò di alcuni delitti molto poco politici negli anni di piombo, venne condannato in seguito a processo, e per non finire in carcere si rifugiò in Francia, che da decenni ormai ospita senza crearsi troppi problemi i terroristi nostrani, negando l’estradizione in quanto le nostre sarebbero sentenze politiche seguite a una guerra civile, e non volgari atti di terrorismo.

Dopo la Francia Battisti è migrato in Brasile, dove aspetta la sentenza dei supremi giudici sulla richiesta di estradizione avanzata dal nostro Paese.

Dal carcere di Brasilia Battisti scrive a tutti noi; nella lettera, letta pubblicamente durante una sessione del Senato brasiliano, il terrorista si chiede «se non è giunta l’ora che l’Italia mostri il suo lato cristiano», per il quale «il perdono è un atto di nobiltà». Parla di una «moltitudine manipolata» e ribadisce la sua innocenza: «non ce la faccio a pensare a me come a qualcuno capace di fare nemmeno un centesimo di tutto ciò che mi attribuiscono… Sono vittima di un bombardamento mediatico».

C’è una sentenza e ci sono numerose testimonianze che inchiodano Battisti alle sue responsabilità; tuttavia potremmo anche accettare che si tratti solo di un drammatico malinteso, di una congiura che ha voluto prendere un innocente, magari più ingenuo degli altri, per farne il capro espiatorio di una vicenda. Non sarebbe il primo caso, e nemmeno l’ultimo.

Anche ammettendo che sia così, qualcosa non torna.

Siamo consapevoli che chiedere perdono stia diventando una moda, più che una necessità: a ogni delitto bastano pochi minuti per sentire uno sprovveduto dotato di microfono chiedere ai familiari delle vittime se “hanno perdonato”.

È un’abitudine figlia di un’informazione malata, ma anche di una prospettiva concettuale distorta.

Chiedere perdono comporta, cristianamente parlando, alcuni passaggi. La riflessione sulle proprie azioni, innanzitutto, e poi il pentimento: ossia il riconoscimento dell’errore, di aver causato dolore, cui segue un cambiamento interiore in base al quale è possibile affermare con sincerità “non lo rifarei”.

Battisti si professa innocente, e questo – paradossalmente – crea un problema in relazione alla sua richiesta: per qualcosa che non si è commesso non può esistere perdono, ma solo giustizia.

E poi, l’atteggiamento di Battisti non sembra particolarmente conciliante. Non sembra pentito, ma polemico come al solito: rivendica la sua innocenza, lamenta congiure contro di lui, attacca l’Italia «governata dalla mafia».

Sicuramente è un uomo amareggiato e dolente, ma in una richiesta di perdono ci saremmo aspettati un approccio diverso: forse non un pentimento, ma almeno un briciolo di rammarico; forse non un riconoscimento delle proprie responsabilità, ma almeno qualche parola per il dolore per le vittime.

Forse non ci aspettavamo umiltà, ma nemmeno arroganza.