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A breve conservazione
La Cassazione ha deciso: Eluana può (o deve, ognuno decida quale formula sia più indicata) morire. È lecito che il padre sospenda l’alimentazione, dopo sedici anni di coma (per lei) e di calvario (per lui).
Qualche mese fa imperversava la battaglia sulle sorti di Eluana: l’opinione pubblica dibatteva attenta e partecipe, i programmi televisivi ne parlavano (e straparlavano), i talk show discutevano sulla liceità, i diritti, i doveri, i significati di termini come vita e morte.
Negli stessi giorni Giuliano Ferrara lanciava una campagna di sostegno alla sopravvivenza di Eluana chiedendo un gesto piccolo ma significativo: portare una bottiglia d’acqua sul sagrato del Duomo di Milano.
Le bottiglie di plastica sono diventate presto cinque, dieci, venti, cento. Una piccola distesa.
Ci sono passato davanti una domenica pomeriggio, e non ho potuto evitare di soffermarmi davanti a quell’improvvisato monumento alla vita.
Sono rimasto a contemplare l’iniziativa – bottiglie, ma anche biglietti, disegni, articoli di giornale – per qualche minuto. Più di qualche passante ha fatto lo stesso. Un minuto di raccoglimento di fronte al mistero della vita e alla grande frontiera della morte, un gesto di affetto per Eluana. Forse una preghiera. Più di qualche sospiro.
Una straniera spiegava in spagnolo al suo accompagnatore che quelle bottiglie erano lì “per la ragazza che sta morendo”, o qualcosa di simile. Ma Eluana non stava morendo, e fermarsi davanti a quella testimonianza di simpatia non era una commemorazione.
Domenica scorsa, pochi giorni prima della sentenza, sono tornato a Milano. Le bottiglie non c’erano più. Ci era sfuggita la notizia della rimozione, o forse non se n’è parlato.
Scomparse alla spiccia, in silenzio, senza formalità. Resta il rumore amaro di una solidarietà che oggi pare di maniera, l’eco sordo di un caso che è stato solo uno spunto di discussione come tanti altri in un paese che non vive senza il pane quotidiano della contrapposizione. Un paese pronto ad accendersi, ma che non ha la costanza, l’interesse, l’urgenza di fissare l’attenzione sui valori, e si accontenta di indignarsi durante la pubblicità per non perdersi il reality di una vita sempre più disorientata.
E allora, se questi siamo noi, forse sì: la decisione della Corte si poteva intuire.
Relatività perverse
“Il vigile non ha sempre ragione”: questa la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione, e che ha dato ragione a una agguerrita automobilista romana.
La signora, secondo il vigile, era passata con il rosso, e si era vista giungere a casa la relativa molta. «Convinta di essere dalla parte della ragione, di aver pigiato l’acceleratore con li verde si è rivolta al giudice di pace, sostenendo che il “pizzardone” aveva visto male e che la multa era da cancellare».
A sostegno della sua tesi portava alcuni testimoni oculari. A pensarci bene, alla signora vanno fatti i complimenti già per questo: di solito le multe arrivano con mesi di ritardo e in pochi ricordiamo una scena vissuta tanto tempo prima, figurarsi se saremmo in grado di recuperare testimoni presenti all’incrocio proprio quel giorno a quell’ora.
Com’era prevedibile, il giudice di pace le ha dato torto, ma la signora ha continuato la sua battaglia arrivando fino alla Cassazione che – con una delle classiche sentenze creative cui spesso ci ha abituato – le ha dato ragione.
Secondo la Cassazione, infatti, può accadere che in certe circostanze «in ragione della loro modalità di accadimento repentino non si siano potute verificare e controllare secondo un metro sufficientemente obiettivo ed abbiano pertanto potuto dare luogo ad una percezione sensoriale implicante margini di apprezzamento […] Quanto attestato dal pubblico ufficiale concerne non la percezione di una realtà statica (come la descrizione dello stato dei luoghi senza oggetti in movimento) bensì l’indicazione di un corpo o un oggetto in movimento».
Insomma, come dimostrò Einstein, tutto è relativo; quindi, come l’arbitro, anche il vigile può sbagliare una valutazione. Con il mezzo in movimento la prospettiva può risultare ingannevole e dare l’idea di qualcosa che, magari, agli occhi di altri non è così scontato.
Verrebbe da tirare un sospiro di sollievo: la sacralità del pubblico ufficiale è stata smantellata, finalmente non avremo torto per principio quando dovremo discutere con un vigile sull’applicazione del codice o sulla dinamica di un incidente.
Il sollievo, però, è solo momentaneo: come segnala un sito dedicato agli automobilisti, «È vero che in Italia ogni sentenza fa stato fra le parti (statuisce pienamente soltanto per le parti in causa), ma questa della Cassazione conferma che il verbale dei Vigili non fa piena prova fino a querela di falso. Si tratta di una conferma fondamentale».
Si comprende facilmente che, se la sentenza potrà riparare a qualche palese ingiustizia, sarà soprattutto il rifugio privilegiato degli impuniti, degli indisciplinati, di tutti coloro che ritengono di essere al di sopra della legge: le categorie che non vorremmo incontrare sulla nostra strada – quantomeno perché la rendono estremamente pericolosa – e che da oggi hanno un’arma in più per difendere le loro smargiassate.
Da anni, ormai, le sentenze smontano le leggi a suon di cavilli procedurali, sottigliezze amministrative, interpretazioni giuridiche originali: il risultato è una legge sempre più fai-da-te, in un mondo che conta sempre meno punti fermi.
Una prospettiva che non suona troppo rassicurante per il futuro.