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Quieto (con)vivere
“Convivere, nuovo fidanzamento italiano”: il titolo del focus che il Corriere venerdì dedicava a un’abitudine attecchita anche in Italia, dove i matrimoni in dieci anni si sono quasi dimezzati e le unioni di fatto hanno preso il loro posto.
Con un calcolo forse opinabile, ma probabilmente non troppo azzardato, Maria Antonietta Calabrò segnala che «ormai vive insieme al partner senza alcuna formalità una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni Settanta, e quando avranno diciotto anni le bambine nate negli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare».
Quattro i tipi di convivenza: la convivenza prematrimoniale, che sostituisce il vecchio fidanzamento e si conclude – se va bene – con il matrimonio; la convivenza necessaria/utilitaristica (di chi aspetta un divorzio o di chi non vuole perdere i vantaggi pensionistici di un precedente matrimonio); la convivenza come libera scelta per una vita di relazione dinamica (direbbero loro) o disordinata (direbbe la Bibbia).
In Italia, analizza il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, il 40% delle convivenze è di tipo prematrimoniale. Il dato non rassicura, né tutto sommato consola.
Anche perché la Pastorale familiare della Cei – organo ufficiale della chiesa cattolica – sorprende rivelando che «ci sono punte del 70 per cento di coppie che chiedono il matrimonio in Chiesa e che sono già conviventi».
Naturalmente ci sono sempre state coppie che desiderano sanare la propria posizione religiosa in fatto di matrimonio, ma di fronte a una percentuale così elevata non si può non chiedersi quali siano i valori e quale visione della vita la chiesa cattolica e le chiese cristiane in generale – riescano a trasmettere ai giovani.
Chiamiamola assenza di valori, chiamiamola paura del futuro, chiamiamola influenza malata di una società che si finge laica e si dimostra laida: il quadro è preoccupante.
In merito alla questione, una frase di De Rita è significativa e invita – forse inconsapevolmente – a una doppia lettura. Il fondatore del Censis segnala che i Dico si sono arenati perché «non c’è pressione sociale per una regolazione delle convivenze». Insomma, alla gente non interessa, e non preme sui politici per creare una nuova formula di tutela legale per le coppie di fatto.
La frase di De Rita, però, vale anche in una prospettiva etica: se la situazione è questa, è perché la società ha ormai accettato pacificamente la convivenza; è normale decidere di effettuare un test prematrimoniale, è normale finire sotto lo stesso tetto mentre si attende lo scioglimento legale di una unione precedente, è normale percepire emolumenti che, in caso di una nuova unione (di fatto o di diritto) non spetterebbero più.
Probabilmente nessun cristiano coerente intraprende consapevolmente una di queste opzioni.
Ma, allo stesso tempo, praticamente nessuno ormai si sogna di inarcare un sopracciglio obiettando agli amici che, cristianamente parlando, il matrimonio richiede senso di responsabilità nell’approccio, o che la frenesia di inaugurare una nuova relazione prima ancora di chiudere la precedente non risponde ai parametri etici di un cristiano, o che mantenere un diritto economico scaduto significa frodare lo Stato.
Certo, tutto questo è assolutamente “normale” per una società che non ha più punti di riferimento morali ed etici.
Ciò che preoccupa di più è che, ormai, tutto questo suona normale anche per noi.
Altro che spot
Il recente rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione ha proposto interessanti riflessioni relative ai nuovi mezzi e alle modalità d’uso.
Come segnala il quotidiano Avvenire, si è scoperto che i giovani “divorano tutto quello che è comunicazione”, con un “nomadismo mediatico disincantato”. Spesso non trovano quel che cercano, e questo li porta a essere particolarmente versatili sul fronte della cross-medialità: si trovano a loro agio con Internet, cellulare, tv, ma anche radio, quotidiani e perfino con i libri, che hanno ripreso a leggere con un certo ritmo.
In generale si è riscontrata una scollatura tra gusti degli utenti e proposte dei media, che non si sanno adeguare in particolare alle esigenze dei giovani.
Il fruitore del Ventunesimo secolo esige contenuti sempre più personalizzati: dopo la fase adolescenziale di omologazione, dai 19 anni “si registra un aumento dell’individualismo nella fruizione dei media”, e questo si scontra con i mezzi di comunicazione che invece non hanno “alcuna reale percezione di quello che i giovani desiderano”.
L’unico settore che è stato capace di fiutare il vento e adattarsi, riposizionandosi con proposte adatte al nuovo contesto, è stato quello della pubblicità: sempre più precisa, sempre più personalizzata, e nel futuro lo spot si preannuncia “sempre più capillare, targhettizzante, pervasivo”.
Forse a volte dovremmo prendere esempio da ciò che di buono la pubblicità insegna. Non ci riferiamo, naturalmente, alla tendenza della pubblicità a banalizzare e semplificare il messaggio in maniera impropria o fuorviante: ma non possiamo non riconoscere ai guru della réclame una capacità di adattamento, una creatività, una sensibilità nell’anticipare i tempi e le tendenze, nello scoprire i mezzi più adatti, nel proporre il messaggio nella maniera più efficace per il singolo utente.
Nel corso dei decenni i pubblicitari hanno affinato in maniera sorprendente la capacità di fare comunicazione di massa pur tenendo conto delle categorie, dei target, delle necessità, degli interessi specifici. In poche parole: la capacità di raggiungere tutti, ma uno per uno.
Visto un tanto, considerarli con sufficienza semplici “venditori” sarebbe riduttivo, oltre che spregiativo, e testimonierebbe l’incapacità di applicare, o anche solo di cogliere, questioni essenziali con le quali ogni buon comunicatore – dal giornalista al documentarista, dal missionario alla chiesa – deve dominare per raggiungere il proprio obiettivo.