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Buoni maestri
Ricomincia la scuola. Tornano in aula otto milioni di ragazzi e 700 mila docenti, e si apre con i consueti problemi: strutture inadeguate, precari senza certezze, regole poco certe e una certa dose di disinformazione su cause e rimedi, proposte e riforme.
Eppure, nonostante gli acciacchi e i rattoppi, malgrado in troppi la vedano come un parcheggio per i figli o un diplomificio, una sorta di Facebook non virtuale o una palestra di bravate, la scuola resta un pilastro nella nostra società.
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Fame di fede
“Meglio il successo sul lavoro o la felicità privata?“, chiede l’editorialista americano David Brooks in un articolo riportato dal Corriere.
«Se ci mettete più di tre secondi per rispondere alla mia domanda – aggiunge -, siete proprio pazzi. La felicità coniugale è di gran lunga più importante di qualsiasi altra cosa nel garantire il vostro benessere»: lo prova anche la scienza, che negli ultimi anni ha dimostrato come “il successo mondano è transitorio, mentre è sui legami affettivi che fondiamo le nostre certezze”.
Soluzioni trascurate
Si chiama papilloma ma, dietro al nome rassicurante, si nasconde un virus. Si tratta di una infezione che causa il tumore al collo dell’utero. Per prevenire la malattia in Gran Bretagna è stata stabilita la vaccinazione semi-obbligatoria (“fortemente raccomandata”) di tutte le ragazze tra i 12 e i 15 anni, che viene somministrata direttamente a scuola.
Proprio in seguito a questa azione di profilassi, però, una ragazza di 14 anni ha perso la vita. Si tratta del primo caso, causato forse da “una reazione rara al vaccino”, o a “qualche condizione medica preesistente”.
Meglio un furgone oggi
Il Corriere racconta la storia di Aaron Heideman, un artista dell’Oregon che, come tanti altri, è rimasto travolto dalla crisi e si ritrovato, da un mese all’altro, a dormire in un furgone.
Al contrario di tanti altri, Heideman ha messo la sua arte al servizio di chi, come lui, ha visto la propria tranquilla esistenza naufragare in meno di un anno. Lo ha fatto diventando, a modo suo, portavoce delle tante piccole grandi tragedie causate dal tracollo del credito: ha investito i suoi ultimi soldi in carburante e girando l’America per farsi raccontare le storie della gente qualunque colpita dalla crisi.
Certezze illogiche
I greci la chiamavano “ubris”: era la tracotanza di chi si voleva elevare al livello della divinità (e per questo veniva punito).
La ubris torna in mente di fronte alle parole granitiche, senza la scalfitura del benché minimo dubbio, dello psicoterapeuta Fulvio Scaparro. Intervistato dal Corriere per commentare la vicenda di Stella, bambina nata in questi giorni dal seme paterno congelato 22 anni fa, Scaparro non lascia spazio a obiezioni: «La storia di Stella? Una notizia splendida. Un successo della scienza che non avrà conseguenze psicologiche negative sulla bambina».
Ne è sicuro, nonostante si tratti del primo caso di questo genere, perché «Stella è nata da due genitori che la desideravano. Ed è questo a contare».
La scienza è una materia in continua evoluzione: sviluppa conoscenze, testa risultati, sperimenta soluzioni. Supera ogni giorno i suoi limiti, e questa continua marcia all’avanguardia dell’umanità porta a esplorare campi ancora sconosciuti, a sondare reazioni incognite, in un incrocio continuo tra scienza, società, fede.
Per questo lascia perplessi, e forse un po’ angosciati, sentire uno scienziato esprimersi con tanta certezza. Le certezze ce le aspettiamo da valori sociali consolidati nel tempo, e le cerchiamo nella fede.
Suona piuttosto preoccupante leggere baldanti rassicurazioni da parte di chi può solo sperimentare e verificare le reazioni dei test, né rasserena sentire risposte che vendono certezze assolute in base a schemi che solo in parte si possono applicare al caso specifico.
Non rasserena, anzi: porta a chiedersi se davvero possiamo fidarci di una scienza che non sa ammettere i suoi limiti, e pretende all’occorrenza di farsi anche fede.
Il finale della storia
Che sberleffo, per noi poveri esseri umani: alla fine ha preceduto tutti.
Ha preceduto i politici. Si sono impegnati, i nostri rappresentanti, lavorando perfino in notturna, in una corsa contro il tempo per approvare una legge. L’iperattività del Parlamento sarebbe già una notizia di per sé, ma lo è ancora di più considerando che sul tema in questione, fino a ieri, nessuno voleva esprimersi seriamente andando oltre gli slogan.
Alla notizia della dipartita, i senatori hanno sospeso i lavori per due settimane “per consentire una riflessione approfondita”, facendo sospettare seriamente che, in questi giorni, fossero ancora a digiuno sulla problematica affrontata e stessero discutendo per schemi ideologici più che in base a una ragionevole competenza.
Ha preceduto i giudici. Una sentenza ha stabilito per legge il diritto di sospendere l’alimentazione e l’idratazione a un essere umano. C’è chi ha parlato di disumanità e chi di passo avanti. Potremmo già accontentarci se non diventasse un precedente su una strada che ci porterebbe indietro di settant’anni.
Ha preceduto i benpensanti, che si sono stracciati le vesti quando il governo ha deciso di intervenire con un provvedimento (“la politica ne resti fuori!”), ma hanno ritenuto assolutamente normale che a interferire fosse un giudice.
Ha preceduto chi voleva a tutti i costi “la fine di un incubo”, quando fino a ieri il suo incubo peggiore era proprio la morte.
Ha preceduto chi ha accettato di dare corso alla sentenza, ignorando i segnali di vita di una donna immobile e assente, ma che respirava, deglutiva, espletava le sue funzioni fisiologiche.
Ha preceduto chi l’aveva data per sana al mattino (“prima di giovedì non ci saranno novità”), e l’ha vista mancare alla sera. Spero di non dovemi mai affidare a quel medico per una diagnosi seria.
Sì: l’Onnipotente ha preceduto tutti. Spiazzandoci, e ponendo fine a una questione tutta umana, dove purtroppo si respirava davvero poca umanità.
Eluana è spirata quando ha deciso Lui. Come al solito non ha dato retta a manifestazioni, appelli, programmi televisivi.
Ha dimostrato l’insipienza di chi garantiva baldante sui tempi del decesso, e ci ha insinuato qualche ombra sulle altre “certezze”, ragionevoli e scientifiche che gli esperti hanno tentato di ammanirci in queste settimane: che Eluana non c’era già più, che era di fatto già morta, che non avrebbe sofferto.
Ha confermato che le certezze mediche non sono assolute, e che la vita non dipende da un familiare, dal medico, dal legislatore, dal giudice.
È stato vicino a Eluana, Lui solo, nei suoi ultimi istanti di vita. Medici, infermieri, volontari, genitori non c’erano. Lui sì. Come sempre.
Tavoli solidi
Scrive il Corriere che «Per otto milioni di famiglie il pranzo della domenica è un rito intramontabile: lo sostiene uno studio dell’Accademia Italiana della Cucina… Sembra, infatti, che tutte le domeniche il 52% delle famiglie italiane si sieda a tavola per gustare un menu che è lo stesso di 50 anni fa».
Il tradizionale pranzo della domenica resta «un cerimoniale amato e diffuso. Che non solo resiste alle nuove tendenze alimentari ma rappresenta il più solido presidio della tradizione gastronomica italiana, il baluardo più autentico contro i fast food e il rito attraverso il quale recuperare l’antica tradizione del desco familiare».
Al di là dei dettagli gastronomici legati alla notizia, sorprende l’inversione di tendenza. Negli anni Ottanta il pasto comune era diventato un optional: ritmi di vita diversi e orari inconciliabili avevano reso arduo per marito, moglie e figli sedersi a tavola allo stesso momento; a dare il colpo di grazia al rito del pranzo familiare è stata la tv, entrata di sottecchi in cucina e diventata ben presto commensale ingombrante e logorroico, capace di azzerare la comunicazione tra familiari per farsi ascoltare da tutti in religioso (si fa per dire) silenzio.
I ritmi di vita non sono cambiati, ma quantomeno le famiglie italiane hanno riscoperto la domenica: un appuntamento settimanale per stare insieme attorno a una tavola imbandita, parlando e scherzando, discutendo e rinsaldando quei legami che la società moderna tende a sfilacciare.
Perché a prescindere dal menù e dalla qualità dei cibi serviti, il pranzo in comune è fin dai tempi biblici un’occasione di interazione, di convivialità (il termine non è casuale), di relazione. È una di quelle piccole buone abitudini che non sono codificate dalla dottrina né enfatizzate dai sociologi, ma che contribuiscono nel loro piccolo a tenere insieme una famiglia, o a segnalare un disagio prima che sia troppo tardi.
Il pranzo in comune non ha valore in quanto simbolo, ma come strumento; ha senso non come rito, ma in funzione di un modo di intendere la famiglia: un nucleo stabile, rassicurante, che offre ai suoi componenti affetto, serenità, certezze.
E, di questi tempi, Dio sa quanto ce ne sia bisogno.