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Ricerche a tema
Focus riporta la notizia di una ricerca danese secondo la quale «Davanti al fascino di personalità carismatiche il nostro cervello sembra rinunciare a ogni forma di difesa».
Pare infatti che «alcune aree del cervello – parti della corteccia cingolata anteriore e prefrontale – responsabili del nostro scetticismo e sentimento di vigilanza… se persuase dalle parole di supposti guaritori o profeti… sembrano diventare meno attive».
Le premesse di una dipendenza
Per smettere di fumare, riporta La Stampa, non basta la disintossicazione. Bisognerebbe seguire «”lezioni” per imparare a gestire la rabbia: lo sostiene uno studio della University of California. I test condotti su 20 fumatori hanno scoperto che la nicotina aiutava a calmare l’aggressività e che nella maggior parte dei casi gli amanti delle “bionde” erano persone portate a reazioni rabbiose».
Il test effettuato sui fumatori in trattamento è molto semplice: un videogioco dove, alla fine, si può “punire” l’avversario con un potente segnale acustico. La sperimentazione ha rivelato che quando i fumatori erano in astinenza, tendevano a tramortire l’avversario con maggior vigore: «segno di alta propensione all’aggressività».
«Secondo i ricercatori, la nicotina influisce sulla parte del cervello che regola l’emotività. I fumatori che non riescono a smettere probabilmente hanno difficoltà a mantenersi calmi e per evitare reazioni troppo rabbiose finiscono per accendersi una sigaretta, che svolge l’effetto di un tranquillante».
Di conseguenza le terapie antifumo «dovrebbero contemplare anche un allenamento a gestire la rabbia nelle situazioni che mettono a dura prova i nervi e scatenano un forte desiderio di tabacco».
A volte la medicina ha la tendenza a considerarsi una scienza capace di risolvere, o almeno comprendere, ogni tipo di disagio fisico, psicologico, emotivo.
Fa piacere, quindi, se qualche ricerca scientifica aiuta a cambiare prospettiva, e rivela che considerare l’essere umano solo per la sua fisicità è un approccio limitato e insufficiente a offrire un quadro globale della persona, dei suoi problemi e delle possibili soluzioni.
Naturalmente è possibile curare sul piano medico la dipendenza da nicotina o da altre sostanze; il fatto che ci sia un “dopo” da affrontare, però, dimostra che il problema non si ferma alla sfera medica, ma si allarga al piano psicologico e spirituale.
Razionalmente parlando, d’altronde, la dipendenza non ha senso: nessuno dovrebbe cercare qualcosa che lo fa stare male e che, a fronte a un breve momento di piacere, lo rende schiavo.
Attaccarsi alla sigaretta per stemperare la rabbia comporta la presenza di un motivo di insoddisfazione o di irritazione: solo eliminando questa causa il bisogno di mantenere la dipendenza avrà qualche possibilità di venire superato.
Le premesse di una dipendenza nascono quindi nel vissuto di una persona, in quel complicato equilibrio di relazioni e situazioni che costituisce il retroterra umano, familiare, culturale di ognuno di noi.
L’approccio medico può curare una dipendenza, ma non basta a spiegarla; non c’è quindi da stupirsi se non riesce a debellarne le cause e, di conseguenza, a tenerne lontani.
Otto secondi per decidere
«La velocità è nemica del senso morale, che ha bisogno per sua natura dei suoi tempi di decantazione. A sostenere questa verità non è solo il buon senso, ma uno studio di neuroscienziati del Brain and Creativity Institute della University of Southern California»: lo rivela il Corriere.
Stando agli studi in questione, per formulare “una risposta completa a emozioni profonde di ammirazione o di sofferenza” il cervello umano impiega sei-otto secondi.
La conclusione degli scienziati è che «i tempi delle scelte», considerati lunghi per i parametri odierni (ma otto secondi sono davvero un lasso di tempo così lungo?) «hanno una valenza etica, partendo proprio da quello che è il tempo fisiologico di reazione del cervello umano a fronte di un’emozione legata a una scelta morale».
Possiamo quindi rassegnarci: «i tempi della comunicazione digitale non sempre rispettano quelli umani e nel caso di azioni e reazioni con implicazioni etiche questa disparità diventa particolarmente vistosa».
Insomma, i neuroscienziati ci confermano quello che già sospettavamo: non basta uno sguardo di massima per farsi un’idea concreta, né basta una lettura superficiale per assumere una scelta ragionata e matura, per non dire etica.
Non sarà un caso se siamo tempestati da richieste di risposta “in tempo reale”: per qualcuno dei nostri interlocutori probabilmente è solo una questione di impazienza (“hai letto la mia mail? Te l’ho spedita già cinque minuti fa!”), ma non dovremmo ignorare che la fretta può essere usata come un’arma psicologica.
Le aziende più attente all’impatto con i potenziali clienti e si servono del fattore fretta: i ritmi incalzanti fanno capitolare gli interlocutori con maggiore facilità, e per questo è proprio nei primi istanti che bisogna vincere le eventuali resistenze. Se una persona dice sì subito, sarà più semplice vendergli qualcosa, si tratti di un’aspirapolvere, un abbonamento o una carta di credito: alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è lasciato abbindolare da un venditore che ci ha spiazzato, o che ha saputo conquistare la nostra fiducia fin dai primi istanti.
Cinque secondi non bastano per prendere una decisione consapevole. Dovremmo tenere conto di questo nostro limite: e non solo esercitando una sana diffidenza nei confronti del piazzista di turno. Spesso l’entusiasmo o l’impulsività ci portano a fare scelte radicali, nella nostra sfera personale, nel giro di pochi secondi.
Ci bastano pochi secondi per aderire a un progetto, rispondere piccati a chi ci ha offeso, reagire malamente nei confronti di chi ha una prospettiva diversa dalla nostra.
Le neuroscienze confermano ciò che la saggezza popolare insegna da tempo immemorabile: la fretta è cattiva consigliera. E molto spesso è proprio delle decisioni troppo rapide che dobbiamo pentirci. Talvolta, ahinoi, non è nemmeno possibile rimediare, e ci troviamo a rammaricarci per mesi, anni, o per una vita di quei pochi secondi di follia che hanno mandato in frantumi un’amicizia, una collaborazione, un rapporto di fiducia. O che hanno rovinato la nostra reputazione, la nostra serenità, la nostra vita spirituale.
Bastano pochi secondi per compromettere anni di paziente lavoro, impegno, attesa. La Bibbia, tra i doni dello spirito, cita la temperanza: quell’autocontrollo che, se esercitato, ci tiene lontano da molti grattacapi.
Forse allora è il caso di investire qualche secondo in più nelle nostre decisioni, resistendo al vortice dell’istantaneità. Perché tra una risposta rapida e una risposta affrettata la differenza iniziale è minima; le conseguenze, purtroppo, no.
Nella mente del credente
«Non c’è nulla di mistico in una preghiera, rivela Repubblica -. Per il nostro cervello rivolgersi a dio [l’iniziale minuscola è del giornale progressista, ndr] è come parlare a un amico in carne e ossa».
La scoperta arriva da scienziati danesi, che hanno esaminato «le reazioni cerebrali di un gruppo di fedeli impegnati nella ricerca di un conforto spirituale attraverso un dialogo con dio [come sopra, ndr], scoprendo che si attivano le stesse aree di una normalissima conversazione. Cosa che non capita quando ci si rivolge a Babbo Natale. Mentre quando si recita una preghiera a memoria si attivano esclusivamente le zone adibite alla ripetizione».
Ai venti credenti presi in esame è stato chiesto dapprima di recitare una preghiera o una filastrocca; poi di pregare liberamente, relazionandosi con Dio con parole proprie; infine di esprimere un desiderio sui doni che avrebbero voluto ricevere da Babbo Natale.
Quando si parla con Dio, «la risonanza mostra che si accendono le aree della conversazione e che, in particolare, quando ci si rivolge a Dio sono attive anche aree della corteccia prefrontale che servono a capire intenzioni ed emozioni altrui, cosa che succede sempre di fronte a un interlocutore in carne ed ossa. Ciò però non avviene quando si parla con Babbo Natale».
Le conclusioni dello staff di ricercatori è stato che «rivolgersi a Dio è come parlare con una persona, mentre Babbo Natale non sprigiona gli stessi effetti perché si è consapevoli dell’aspetto simbolico e lo si considera più un “oggetto”, il protagonista di una leggenda».
Le menti più avanzate e aperte contestano ai credenti la loro fede, liquidandola come una (pia) illusione. Secondo le ricerche danesi, a quanto pare, se si tratta di un’illusione è quantomeno ben fondata: difficile infatti credere nell’esistenza di una persona in maniera così ferma, decisa e convinta da ingannare perfino il proprio cervello. Se non altro, con Babbo Natale non è riuscito altrettanto bene.
Se questa ricerca può essere motivo di riflessione per chi non crede, a chi crede può offrire qualche indicazione che conferma il tipo di rapporto che Dio vuole avere con noi.
Non vuole che lo consideriamo un personaggio di fantasia. Non vuole nemmeno che lo consideriamo reale, ma lontano e distante – in tutti i sensi – dalle nostre vicende. Desidera che maturiamo la consapevolezza della sua presenza, quotidiana e pratica, accanto a noi.
Non vuole che la nostra relazione con lui sia un recitato di preghiere scritte da altri, e ripetute come una litania che tiene impegnata la bocca e il cervello, ma lascia libero il cuore. Vuole sentire la nostra voce, non quella di altri.
Non vuole una lista di richieste di preghiera – guarigioni, promozioni, benedizioni – proposte con maggiore o minore convinzione: vuole un colloquio vero, diretto, perfino interattivo.
Non vuole, insomma, un rapporto parziale, ma totalizzante: non è un caso se il primo comandamento ci chiede di amare Dio con tutta la forza e con tutta l’anima, ma anche con tutta la mente.
Desideri senza limiti
Chissà perché, nella nostra società, esistono personaggi che non sono disposti a fermarsi nemmeno di fronte ai drammi umani.
Del caso di Eluana Englaro si è voluto fare un simbolo, un paradigma, travalicando l’interesse della paziente e il suo diritto a un dignitoso silenzio. Non sono mancati, attorno al padre, personaggi più o meno attendibili, pronti ad affannarsi con dichiarazioni avventate – o quantomeno dubbie – in cerca di una visibilità pelosa che odora di sciacallaggio.
Ora emerge il caso di una donna che vuole un figlio dal marito in coma, malato di tumore al cervello. Poteva essere l’occasione per dimostrare che dal caso Englaro si era imparato qualcosa, e invece no.
La Repubblica scrive che «Antinori è arrivato come un ciclone al Policlinico San Matteo di Pavia, dopo che l’ospedale aveva dato l’ok al prelievo di liquido seminale».
Si tratta, spiega il quotidiano, del «professor Severino Antinori, il ginecologo-star, esperto di fecondazione assistita».
Se sia lecito, legale, etico non conta molto per il luminare, che – stando a Repubblica – ha espresso un bellicoso: «E adesso si va avanti. Voglio vedere come ci possono fermare».
Se sono davvero parole sue, il quadro è preoccupante. Una vicenda simile richiederebbe delicatezza e tatto.
Forse sarebbe stato il caso di chiedersi se la visibilità, i riflettori, il rumore dei media facciano l’interesse del paziente o del medico.
Forse bisognerebbe chiedersi se, magari inconsciamente, dietro a una dichiarazione come «procederemo alla fecondazione, secondo una nuova tecnica che ho sviluppato io stesso» non ci sia brama di apparire, più che interesse scientifico.
Per il momento nessuno si chiede nulla. Tutti a rivendicare i propri diritti e a perseguire i propri desideri, a costo di forzare i limiti, pur di raggiungere l’obiettivo. Come in un dibattito, il risultato finisce per non contare più: l’importante è ribadire le proprie ragioni a prescindere da una serena riflessione sulle motivazioni che spingono in una direzione, e le conseguenze che le scelte potranno avere a breve, medio, lungo termine.
Vale la logica del talk show, dove chi parla più forte ha ragione, e chi tace ha torto. E ad avere torto è il nascituro, che per ora esiste solo nei pensieri dei contendenti e che pare al centro dell’attenzione, ma sul cui triste futuro da orfano annunciato nessuno si interroga.
Jannacci, il laico imprudente
Interessante l’intervista di Enzo Jannacci pubblicata oggi sul Corriere in relazione al caso di Eluana Englaro: il cantautore, di professione medico, nonostante si definisca “ateo laico molto imprudente” offre alcune riflessioni profonde e, nella loro sostanza, molto cristiane.
«Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l’alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale», spiega a Fabio Cutri. Non se ne può fare una questione di tempo: diciassette anni di coma sono tanti, riflette Jannacci, «ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».
Jannacci avverte anche che, quando si parla di casi come questo, si fa un uso superficiale e irresponsabile dei termini: «Piano, piano… inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l’idea di non potergli più stare accanto».
Lo dice senza dimenticare la sofferenza di Beppino Englaro («Bisogna stare molto vicini a questo padre»), ma ricordando anche che «la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque».
Da laico, Jannacci non rifiuta l’idea di anticipare la morte per alleviare il dolore, «ma – confessa – anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover “staccare una spina”: sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».
E a chi mette in dubbio la propria dignità di uomo a causa della malattia cercerebbe «di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza».
Sarà che, per carattere, è l’antitesi del dr. House («In reparto mi rimproveravano: “Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c’entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti”»), però si percepisce, in questa sua posizione, anche qualcosa di più, una sensibilità particolare per “la figura del Cristo” che, spiega Jannacci, «In questi ultimi anni è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l’idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».
Sì, più si rileggono e più ci si rende conto che sono parole decisamente inusuali per un “ateo laico molto imprudente”. E, forse, anche per qualche cristiano.