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Presenze luminose
“Turisti senza bon ton“: di questo si lamentano i sindaci delle località turistiche, dalle città d’arte alle stazioni balneari. I primi cittadini, interpellati da un periodico, si rammaricano per l’abbigliamento succinto dei visitatori, gli schiamazzi notturni, l’abuso di alcol, e un senso di libertà che sfiora la mancanza di rispetto per i residenti (e, probabilmente, per gli altri villeggianti).
La storia si ripete ogni anno, e riguarda allo stesso modo gli stranieri in Italia e gli italiani all’estero: l’assenza di obblighi lavorativi (e, talora, familiari), la lontananza dalle abitudini e dalla consuetudine dei gesti quotidiani, l’ebbrezza del viaggio e della permanenza in una località mai vista prima è una miscela entusiasmante, ma che se non viene equilibrata nel modo giusto rischia di scatenare un circolo vizioso di esagerazioni. Con rischi per la salute, per la convivenza, e anche per la dignità.
Quella crisi ricostituente
Che la crisi ci abbia riportato a una maggiore sobrietà è ormai noto: è bastato togliere i soldi dal portafogli di tutti noi per ottenere in pochi mesi ciò che i proclami di un decennio non erano riusciti a fare.
È dagli anni Settanta che abbiamo perso il basso profilo dei nostri genitori, e abbiamo preferito il concessionario all’officina, il negozio al calzolaio, la sartoria al rammendo. Oggi, l’inversione di tendenza: si ripara il possibile, si sostituisce solo l’indispensabile.
Finché non costa niente
I gestori dei locali notturni di Jesolo hanno deciso di lamentarsi per i troppi controlli che le forze dell’ordine stanno effettuando, in questa estate 2009, controlli che «danneggiano l’immagine turistica della città».
La polizia, per bocca del suo portavoce, risponde quasi incredula alle proteste: «Ci dicano loro cosa dobbiamo fare. Senza questi controlli non ci può essere sicurezza, altrimenti si rischia di fare solo propaganda fine a se stessa».
Grammatica e pratica
Sono giovanissimi, educati, vestiti sobriamente, con l’aria da bravi ragazzi. Li si riconosce da lontano: pantaloni scuri, camicia chiara, capelli corti, zaino nero, aria da americano yes-we-can. E, a distinguerli, un cartellino appuntato sul petto con nome, cognome e carica.
Sono i missionari mormoni, che vediamo girare nelle nostre città e, con garbo, avvicinarsi per raccontarci della loro fede e della loro dottrina. Non sempre, a dire il vero, sanno affrontare al meglio il contesto culturale italiano, ma ci provano sempre, con le armi che la scuola biblica ha dato loro e, quando non basta, con una dose di impegno pratico che va dai corsi d’inglese alle ripetizioni per studenti.
Qualcuno, forse, si sarà chiesto che fine facciano questi ragazzi una volta tornati in patria: anche se i mormoni sono una realtà numerosa, sarebbero comunque troppi per impegnarsi come responsabili di chiesa.
E allora? Il mistero è stato svelato sabato in un servizio sulla Stampa: «In gioventù i mormoni hanno l’obbligo di servire per almeno 24 mesi nelle missioni in giro per il mondo», un’esperienza che consente loro di imparare e raffinare le strategie comunicative fino a diventare ottimi venditori.
La Pinnacle Security, racconta il quotidiano, ha successo grazie a «prodotti competitivi, ma anche a una straordinaria rete di vendita diffusa su tutto il territorio americano e gestita sovente da ex missionari che mettono le esperienze maturate con la fede al servizio del business».
«È una missione trasformata in lavoro», spiega uno degli ex missionari che «come molti dei suoi colleghi si è fatto le ossa professando il suo credo, parla tre lingue, e ha sviluppato una capacità di convincimento degna del più abile negoziatore… Durante le missioni si apprendono vere e proprie tecniche di comunicazione» e «alcuni fondamenti validi in ogni situazione».
L’esempio mormone è una lezione utile.
Non sono in pochi a essere convinti che bastino la teoria e la conoscenza biblica per raggiungere le persone con il messaggio di speranza del vangelo. Hanno le loro risposte preconfezionate, che prescindono dalle possibili domande dell’interlocutore, e che si rifanno sempre agli stessi temi, alle stesse citazioni bibliche, e perfino allo stesso linguaggio. Un monologo dai toni passatisti che, comprensibilmente, non coinvolge troppo la controparte, e talvolta perfino la irrita.
Se provate a obiettare a questi evangelisti retrò che sarebbe opportuno adattarsi al contesto in cui vivono, risponderanno che “il messaggio del vangelo non cambia”. Questo, nella loro prospettiva, li autorizza a usare lo stesso linguaggio aulico di Luzzi, e talvolta perfino gli arcaismi di Diodati.
Ma solo quando parlano di Dio, ovviamente. Non certo al supermercato, in ufficio, a casa. Il tono formale scatta solo in certe specifiche occasioni.
Per il resto, curiosamente, quelle stesse persone non disdegnano di impegnarsi a usare i termini più corretti per rendere interessante un annuncio sul giornale, o di usare la formula più efficace per convincere l’assemblea condominiale.
A quanto pare solo quel vangelo che sta tanto a cuore non può giovarsi di questo privilegio: il privilegio della comprensibilità.
E dire che la società avrebbe bisogno di una risposta e, in fondo, sta solo cercando qualcuno che gliela sappia presentare in maniera comprensibile. I mormoni, nel loro piccolo, qualcosa hanno capito.
Quattro cose sul voto
Domani e domenica si vota per rinnovare la nostra rappresentanza al Parlamento europeo e, in molte zone del Paese, per eleggere presidenti (e consigli) di province e comuni.
I politici e i giornali, per questa tornata elettorale, hanno preferito concentrarsi su scandali e cadute di stile, piuttosto che dare spazio a programmi e opinioni dei candidati: forse è meglio così, dato che magari molti dei candidati nemmeno sanno cos’è l’Europa.
Però, da cristiani e da elettori, il dilemma resta: devo votare? E per chi?
Forse qualche spunto di riflessione può tornare utile.
1. persona e personaggio.
Spesso nei candidati la morale vissuta in privato e i principi sostenuti in pubblico non coincidono, e questo porta al paradosso di politici che sostengono la causa della famiglia pur avendone un paio alle spalle.
La scelta non è proprio così ovvia. Se la politica è l’arte del compromesso, è meglio puntare su un candidato capace, con le idee chiare ma con un curriculum personale non ineccepibile, o votare un candidato di specchiata moralità ma poco capace o poco in linea con il nostro modo di vedere la società?
Qualcuno obietterà che se il candidato non vive ciò che sostiene non sarà davvero in grado di portare avanti la causa. In teoria il discorso fila; nel concreto, però, va rilevato che non sono rari i casi di politici “non credenti” che hanno fatto per i valori cristiani molto di più rispetto ai politici “credenti”.
2. per cosa si vota.
Prima di entrare in cabina è importante capire per cosa si sta votando.
La rappresentanza europea è una questione politica: quindi riguarda i grandi temi, i principi, i valori che vorremmo dare all’Europa.
Le elezioni amministrative, invece, riguardano la gestione del territorio, che con la politica ha (o, almeno, dovrebbe avere) poco in comune: non mi interessa in cosa creda l’amministratore del mio condominio, purché svolga bene il suo lavoro. In una città, strade pulite e giardini accoglienti non sono di destra, di sinistra o di centro.
3. una questione di democrazia.
In campo cristiano c’è chi sostiene che non dovremmo interessarci alle questioni politiche e sociali, in quanto “non siamo di questo mondo”; in risposta c’è chi obietta che comunque “viviamo in questo mondo”, e che interessarci a chi ci sta attorno sia la testimonianza più efficace dell’amore che siamo chiamati a mostrare.
Va rilevato anche che la democrazia è un privilegio, e non è per niente scontato: la libertà di vivere la propria fede in privato e in pubblico è preziosa e, purtroppo, rara. Smettere di tutelarla potrebbe rivelarsi, in un futuro più o meno remoto, una scelta poco saggia.
4. votare o non votare.
Certo, onestamente parlando, spesso è difficile decidere per chi votare. Talvolta pare che i candidati facciano di tutto per non farsi scegliere, e il teatrino dei politici non aiuta le istituzioni a mantenere il dovuto contegno e la necessaria autorevolezza.
In questo contesto anche l’astensione può essere una forma di scelta. Estrema, ma legittima.
L’importante è che venga esercitata in seguito a una decisione consapevole e non per pigrizia. Quello, sì, sarebbe inaccettabile: come elettori e come cristiani.
Consigli di lettura – 8
Ago 22
Pubblicato da pj
Storia, società, attualità, sociologia e fede nei suggerimenti di lettura proposti questa settimana nel mio programma radio su crc.fm.
Si comincia con “Evangelici nella tormenta. Testimonianze dal secolo breve” (Claudiana), di Giorgio Bouchard, un libro sulle personalità evangeliche che hanno vissuto i drammi della storia del Ventesimo secolo. È l’ultimo progetto – in ordine di tempo, beninteso – portato a termine dal pastore e saggista, già moderatore della Tavola valdese e autore di numerosi testi sul movimento evangelico (tra cui il mai troppo citato “Movimenti evangelici del nostro tempo”, che continua a essere uno degli strumenti migliori per comprendere il contesto evangelico italiano e internazionale odierno).
“Evangelici nella tormenta” nasce da una serie di conferenze tenute dall’autore nella chiesa battista di Meana di Susa e presenta – per dirla con Marco Brunazzi, autore dell’introduzione – «una serie di medaglioni di personalità evangeliche di vario profilo, dalle più note alle meno, che hanno scandito la storia del Novecento», iniziativa che viene accolta come “opportuna” «in un paese come l’Italia, dove la cultura evangelica… è normalmente confinata in spazi informativi del tutto marginali».
Bouchard nel suo libro racconta le vicende di personaggi che non hanno fatto la storia della chiesa – non direttamente, almeno – ma hanno introdotto la chiesa nella storia: dai paladini anti-apartheid Nelson Mandela e Rosa Parks a un Bonhoeffer africano, Guddinaa Tumsaa, passando per Reinhold Niebuhr e l’ex presidente americano (e pastore evangelico) Jimmy Carter, fino al noto – ma non quanto meriterebbe – missionario Albert Schweitzer e a credenti che hanno vissuto epoche buie, come Ernst Lohmeyer, Madeleine Barot e i ragazzi della Rosa bianca.
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Più “leggera”, invece, la seconda proposta di lettura: si tratta di “Nel catalogo c’è tutto. Per chi va o torna a vivere da solo” (Feltrinelli), del trentenne milanese Francesco Gungui.
Comunemente si dice che le grandi città sono grigie, noiose, impersonali, ma la vita metropolitana, a saperla guardare con la giusta prospettiva, può essere perfino divertente, come dimostra Francesco Gungui. Nei capitoli del libro scorre la vita ordinaria di un giovane di oggi, alle prese con le abitudini da cambiare (andare a vivere da soli è un passo decisivo nella vita di una persona) mentre la propria esistenza comincia a delinearsi tra idee confuse, relazioni carenti, piccole nevrosi e grandi interrogativi.
Il “catalogo” da cui il libro prende il titolo è il catalogo dell’Ikea, che secondo l’autore è un paradigma della generazione di oggi: una generazione “componibile” per una vita “componibile”, proprio come un mobile della famosa azienda. La prosa di Gungui è godibile, e di fronte ad avventure e disavventure che molti di noi hanno affrontato (la ricerca di una casa, il mutuo, le faccende domestiche, il lavoro precario in un mondo di imbroglioni) è difficile non farsi qualche risata. Autocompatendosi, beninteso.
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Si legge uno spaccato di storia recente, invece, in “Da Gerusalemme a Roma. Il Medio Oriente, l’Italia, il mondo: riflessioni di un ambasciatore. 2001-2006” (Mondadori) di Ehud Gol, ex ambasciatore israeliano in Italia dal 2001 al 2006: un periodo non facile per Israele, che ha visto quindi il rappresentante diplomatico in una posizione particolarmente delicata nel difendere il suo paese da un’opinione mediatica mai generosa.
Per rappresentare le ragioni di Israele, Gol ha preso spesso in mano la penna e ha scritto lettere, commenti, corsivi sui principali quotidiani italiani.
Nei suoi contributi, raccolti in questo volume, Gol difende con instancabile energia Israele: di volta in volta di fronte all’ambiguità di Arafat e le omissioni dell’Europa, di fronte alle posizioni poco imparziali dei media e dell’Unione Europea, di fronte alla piaga del terrorismo e del fondamentalismo islamico da cui ha origine, di fronte al pacifismo a senso unico. Temi che ci riportano alla memoria l’amarezza di drammi, stragi, diritti negati, occasioni perse.
Il volume si apre e chiude con due capitoli dedicati al nostro paese: il percorso inizia con “L’Italia può aiutare la pace”, intervento su Repubblica nel 2001, e si conclude con “L’Italia ha capito Israele”, pubblicato sul Corriere nei giorni del congedo dal suo incarico.
Non sappiamo se il nostro Paese abbia davvero avuto o possa avere un ruolo importante nel raggiungimento della pace in Medio Oriente, ma sicuramente l’impegno di Ehud Gol nei sei anni del suo mandato è stato essenziale per la comprensione di Israele da parte del nostro Paese.
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Altro tema di cui abbiamo parlato questa settimana è stata la fede di Indro Montanelli: Montanelli è stato uno dei più significativi giornalisti del nostro paese, che con la sua penna e il suo pensiero ha caratterizzato molti dei dibattiti, degli scontri, dei drammi che l’Italia ha vissuto negli ultimi cinquant’anni.
Montanelli non si considerava un credente, eppure non ha mai rifiutato di riflettere su Dio e sulla fede. Anzi: nel suo considerarsi non credente c’era una sorta di rammarico per qualcosa che, per onestà, non poteva dire di possedere ma che cercava.
Giorgio Torelli, giornalista e discepolo di Montanelli, ha parlato spesso con lui di questo tema, e – a distanza di anni dalla scomparsa del personaggio – ha messo nero su bianco il riscontro di questi dialoghi.
Lo ha fatto in un volume che si intitola “Il Padreterno e Montanelli” (Ancora). Torelli racconta di un Montanelli stoico, ma che rivisitava spesso il tema della fede, sospirando «purtroppo, non ho fede. Magari, ne fossi toccato».
Dopo aver tratteggiato un quadro della sua fede – o “non-fede” -, Torelli si pone e pone una domanda sul “Dopo Montanelli”: “la nostra speranza nella misericordia del Padre ci nega o ci permette di ipotizzare un dialogo franco e decisivo tra Dio” e Montanelli?
Una domanda accademica, ovviamente, che non cambia le cose, e cui – su questa terra, almeno – non avremo mai una risposta. Ma è una domanda che permette a Torelli di scandagliare la posizione di decine di intellettuali (teologi, scrittori, giornalisti, missionari, lettori, pensatori di vario genere, naturalmente non tutti cristiani) su un tema delicato, quello della fede e della salvezza.
Le risposte, naturalmente, risentono dell’influenza culturale e delle convinzioni di ogni interpellato, ma permettono di riflettere e far riflettere.
Quale sia stata la sorte di Montanelli, naturalmente, non possiamo saperlo. A quanto ne sappiamo noi, non ha mai accettato Cristo nella sua vita, né si è mai detto credente. Ma chissà: la sua sincerità e la sua schiettezza nei confronti di Dio possono farci sperare.
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Parlando di sociologia, ci ha incuriosito che sembrava la negazione di sé: si tratta di “Non leggete libri per crescere i vostri bambini. ntimanuale del genitore sereno” (Rizzoli), di Elisabetta Zocchi.
Diventare genitori cambia la vita. E fa nascere nelle neomamme e nei neopapà una serie di dubbi, pensieri, preoccupazioni. Proprio facendo leva sulla inevitabile apprensione dei nuovi genitori, negli ultimi anni si sono moltiplicati i manuali mirati a suggerire metodi di ogni tipo per dare ai figli un’infanzia ottimale.
“Non leggete libri per crescere i vostri bambini” è decisamente controcorrente per il settore ed è scritto da Elisabetta Zocchi, giornalista e vicedirettore di due testate dedicate alle mamme, impegnata da anni nel settore della salute materna e infantile.
Zocchi, più che dare consigli particolari, punta a incoraggiare i genitori, perché – scrive – per essere buoni genitori basta il buonsenso. «Le mamme d’oggi – esordisce la Zocchi – devono sapere… che fanno sempre la cosa giusta. Anche quando incorrono in qualche involontaria svista».
Sottolineando che “un genitore non può smettere di credere in se stesso”, l’autrice guida il lettore attraverso dieci capitoli su aspetti essenziali relativi al rapporto tra genitori e neonato, e accompagna ogni capitolo con la risposta a un dubbio ricorrente – e, decisamente, umano – dei neogenitori stessi.
Insomma, il libro di Elisabetta Zocchi non sarà un manuale, ma riesce comunque a dare consigli. Utili e, soprattutto, di buonsenso.
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