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L’anonimo di Adro
Spesso ciò che conta non è tanto il gesto, quanto le motivazioni. In molti hanno visto con scetticismo l’imprenditore che ha versato diecimila euro al comune di Adro pagando il servizio mensa al posto dei genitori morosi: sarà un riccone in cerca di fama, avrà pensato qualche malizioso, o un radical chic deciso a seppellire l’immagine delle autorità locali (e nazionali), surclassandoli sul fronte della solidarietà ed eclissando un “partito dell’amore” che, per ora, esiste solo nelle parole del suo fondatore.
E invece no: l’identikit del generoso benefattore è molto diverso da quello ipotizzato. A illuminare sul senso della sua azione e sulle sue ragioni è una lettera di due pagine che lo stesso personaggio ha recapitato in municipio: due pagine di sobrietà e di buonsenso, a partire dalla scelta di restare nell’anonimato, firmandosi semplicemente “un cittadino di Adro”. Uno come tanti, verrebbe da sperare, se fosse garanzia di impegno, generosità e basso profilo.
A ruoli invertiti
Si chiama Roberto Wagner, ha 44 anni e un passato intenso – elicotterista, pilota di go-kart, produttore discografico – e un presente meno emozionante ma non meno impegnativo: fa la mamma a tempo pieno. O meglio, come si definisce lui stesso, il “mammo”. Tutto è cominciato nell’estate del 2000, quando in Grecia ha incontrato Robyanne, che sarebbe diventata presto sua moglie; sono venuti a vivere a Milano e, nel mettere su famiglia hanno dovuto prendere delle decisioni su come gestire la famiglia.
Se infatti il lavoro di Roberto non era monotono, la professione di Robyanne è totalizzante: assistente di volo su linee aeree internazionali, quei ruoli che ti tengono lontano da casa per settimane.
Qualcuno avrebbe dovuto fare un passo indietro, per badare ai figli senza sballottarli tra una tata e un asilo, novelli orfani virtuali cresciuti per procura.
A passare la mano è stato il papà: «Ho pensato che avrei potuto provare a stare io con i piccoli. Lei ama il suo lavoro, è ancora giovane. Io ho avuto una vita piena, sono stato elicotterista, ho vissuto intensamente il lavoro in discografia, ho girato il mondo, non mi spaventa cambiare e ricominciare». Eccolo così a preparare colazioni, accompagnare i piccoli a scuola, chiacchierare con le mamme dei compagni, cambiare pannolini, curare i raffreddori e così via.
Racconta che «stare con i bambini è il lavoro più bello e faticoso del mondo» e riflette: «Forse le donne sono predisposte, geneticamente programmate, a loro viene più naturale».
Mero maschilismo di ritorno? Suonerebbe strano, vista la ammirevole scelta di vita del “mammo”. Forse allora il concetto merita una riflessione più profonda, lontana dai luoghi comuni più alla moda.
In fondo l’esperienza del “mammo” è qualcosa di più profondo rispetto alle belle parole dei terapeuti di coppia: un’esperienza testata sul campo, che dimostra come la semplice buona volontà di venirsi incontro – che, in questo caso, certo non manca – non sempre basti.
E allora chissà. Magari dovremmo rivedere quella generica parità di ruoli che viene predicata dai facili profeti di modernità, quell’intercambiabilità facile da vivere solo se si resta in superficie, ma che rischia di compromettere gli equilibri se dalla teoria si passa alla pratica.
Roberto ammette che “Il ribaltamento di ruoli… comporta qualche problema di coppia“: «Il mammo entra in un terreno minato. Un conto è la moglie che ti lascia il pupo e ti dice cosa fare, un conto il contrario. Mica facile per la donna accettare questa invasione di campo».
Se per un papà è difficile fare la mamma, per una mamma è altrettanto arduo accettare un ridimensionamento del proprio ruolo. Non è impossibile, ma ci vuole una massiccia dose di buona volontà: per quanto moderna e anticonformista possa essere una coppia, portare avanti scelte così controcorrente è un impegno dentro l’impegno.
Questo non significa, naturalmente, che sia impossibile: ogni coppia può decidere in autonomia la strada da seguire, l’importante è che a prevalere siano le esigenze dei figli, non l’affermazione di un principio o di una ragione.
Va da sé che poi, qualunque sia stata la scelta, nello sviluppo del progetto di vita comune non devono mai mancare maturità, buonsenso, responsabilità. E coerenza rispetto alle decisioni intraprese: i ruoli nella coppia si possono invertire, ma non si possono improvvisare.
Quella vita negata
Scusate se parlo di nuovo di lutti, evidentemente è un periodo un po’ così.
Ieri ho assistito a un funerale: un ragazzo di diciassette anni, mancato in seguito a una complicazione cardiaca.
Si chiamava Maurizio, e non lo conoscevo personalmente. L’ho conosciuto attraverso le parole di chi gli voleva bene: i suoi familiari, innanzitutto, e poi i compagni di scuola, gli amici, gli educatori che lo hanno seguito negli anni di oratorio.
Hanno ricordato un ragazzo pieno di vita, dolce, simpatico, di una fisicità imponente ma innocua: il classico gigante buono cui non si poteva non volere bene.
Al cimitero mi ha colpito una scena in particolare: la madre in lacrime, sola sul bordo della fossa che si andava riempiendo, quasi a voler abbracciare fino all’ultimo, anche solo con lo sguardo, il feretro del figlio.
Deve essere dura. Allevi un figlio, soffri con lui, gioisci dei suoi progressi. A diciassette anni, nel pieno dell’età, quando i progetti cominciano a farsi realtà e la sua vita sta per spiccare il volo, si conclude improvvisamente il suo percorso terreno. E tu non puoi che piangere.
Maurizio mi ha fatto riflettere. Descritto da tutti come solare e pieno di vita, mi ha fatto riflettere su quanti giovani, alla sua età, trascinano le giornate senza scopo, in compagnie balorde cimentandosi in prodezze volgari o addirittura criminali; oppure si isolano nella loro realtà virtuale, finendo per perdersi nel loro mal di vivere.
Talvolta la chiamiamo ironia della sorte: da un lato i giovani che buttano via la loro vita, fino al gesto estremo di rifiutarla definitivamente; dall’altro i loro coetanei che, anche di fronte a gravi malattie, alla sera sono soddisfatti per il fatto di aver spostato ancora una volta il confine della loro vita, guadagnando un altro giorno.
Il celebrante ha riferito che Maurizio, prima della delicata operazione cui era stato sottoposto pochi giorni prima di mancare, aveva chiesto ai medici di fare presto: «voglio tornare a scuola prima possibile», aveva detto.
Avrebbe voluto essere ancora qui: senza particolari obiettivi, solo per vivere qualche altra giornata – si vive sempre un giorno alla volta – insieme ai suoi amici, sui banchi di scuola, nella semplicità dei soliti gesti quotidiani.
Sì, sarebbe stato bello potergli concedere qualche giorno in più. E sarebbe stato bello presentarlo ai tanti che non sanno apprezzare il privilegio della vita.
Samaritani o sacerdoti
Mar 31
Pubblicato da pj
«Sono centinaia – racconta Il Giornale – le telefonate che arrivano al cellulare del signor Giampiero Cerizza, più noto come il “marito in affitto“. Proprio così, avete letto bene. Di Monza, 59 anni, dopo aver chiuso la carrozzeria, ha pensato di sfruttare la sua abilità manuale e di mettere in piedi una società di servizi per aiutare le donne nelle commissioni e nei piccoli lavori di casa che mariti o compagni non hanno più voglia di fare. Una vera e propria agenzia, insomma, con tanto di sito internet, numero verde e una rosa di collaboratori».
Le richieste sono in media di 150 al mese, duemila all’anno, e il signor Cerizza fatica a starci dietro: ripara persiane, appende quadri, accompagna a fare la spesa e così via, al costo di 15 euro l’ora o giù di lì.
Ma non solo: «Ci sono le signore più anziane che vogliono soltanto un po’ di compagnia e il rubinetto che perde è soltanto una scusa per fare quattro chiacchiere. Per loro la felicità è non sentirsi sole».
Il signor Cerizza non supplisce solo alla mancanza di tempo di mariti e compagni, ma anche alle smagliature di una società che è sempre più connessa e, allo stesso tempo, fa sentire ogni giorno più soli.
Dover mendicare un po’ di compagnia sotto le mentite spoglie di un bisogno pratico significa non avere amici, parenti, nipoti. O averli, ma lontani o insensibili a una richiesta di aiuto che spesso non arriva esplicita, ma attraverso la dignità di una generazione che sa ancora cosa sia l’onore, il rispetto, la buona creanza.
Difficile però togliersi dalla testa che non ci sono solo i parenti.
L’anziano o la vedova che escono poco di casa e tentano di ricavare un po’ compagnia dai servigi di un simpatico tuttofare possono essere più vicini di quanto si creda. Possono essere, anzi, i nostri vicini.
Chissà quand’è l’ultima volta che ci siamo soffermati a chiedere loro come stiano, a commentare qualche banalità quotidiana, a elargire un sorriso e una parola di speranza di fronte agli acciacchi di un’età che incombe e, in molti casi, fa paura.
Quando sentiamo parlare di vicende estreme, come la morte solitaria di una anziana signora ritrovata dopo una settimana, alziamo le spalle, scuotiamo la testa e sospiriamo pensando “che società!”. Ma quella società siamo anche noi. E quella signora potrebbe essere anche la nostra vicina.
Sarebbe davvero triste non sapere, o non voler sapere, che chi ci sta vicino aveva bisogno di noi, e non ci siamo fermati accanto a lui perché i nostri impegni – di lavoro, di vita, e magari perfino di fede – non ce l’hanno consentito.
Impegni (sacro)santi, per carità.
Ma chissà se Gesù, di fronte a un comportamento simile, sarebbe fiero di vederci portare il suo nome. E chissà se gli altri, nel sentirci così distanti, vedrebbero davvero il suo amore in noi.
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