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Buoni maestri
Ricomincia la scuola. Tornano in aula otto milioni di ragazzi e 700 mila docenti, e si apre con i consueti problemi: strutture inadeguate, precari senza certezze, regole poco certe e una certa dose di disinformazione su cause e rimedi, proposte e riforme.
Eppure, nonostante gli acciacchi e i rattoppi, malgrado in troppi la vedano come un parcheggio per i figli o un diplomificio, una sorta di Facebook non virtuale o una palestra di bravate, la scuola resta un pilastro nella nostra società.
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Benedizioni 2.0
Secoli fa era abbastanza normale imbattersi in funzioni religiose per la “benedizione” del lavoro: nei periodi strategici per la campagna i contadini confluivano nelle chiese, dove veniva elevata una invocazione a Dio per un raccolto benedetto.
Il fatto che la benedizione comprendesse gli strumenti di lavoro era in fondo una metafora – – o una sineddoche, se preferite -, identificando il mezzo con il fine, l’attrezzo con il suo uso.
La forza della preghiera
Un sito internet, segnala il Magazine del Corriere, offre un supporto elettronico alla preghiera: «grazie a un comodo sistema text-to-speech (che converte, cioè, il testo in voce), un computer dice le preghiere al posto del fedele smemorato o troppo impegnato per ricordarsi di adempiere a questo dovere».
Il servizio, bontà dei gestori, «è disponibile per le diverse religioni», e ha un costo abbordabile: 4 dollari e 95 per un mese di preghiere.
Oltre e nonostante
A volte trovi tracce di fede dove meno te l’aspetti. Come in un articolo del Corriere dove si racconta il dramma di sei ex calciatori di Como affetti da Sla, e un dubbio atroce sulla possibile contaminazione del terreno dello stadio Sinigaglia su cui hanno giocato per anni.
Nel triste elenco Gaia Piccardi ricorda anche Piergiorgio Corno, da quindici anni malato di sclerosi. «Piergiorgio lotta in un letto della villetta di Albate, irrorato da una commovente spiritualità: “Nella mia vita ho capito che nulla è accaduto per caso – ha scritto proprio ieri sul suo computer -. Più volte la presenza di un’entità superiore si è manifestata e per questo vedo la Sla come un percorso che ha una sua ragione, che non capirò mai con la razionalità umana. Ma verrà un momento in cui tutto sarà chiaro“».
Parole che non lasciano indifferenti, se sono pronunciate da una persona immobilizzata da una malattia che corrode giorno dopo giorno la tua indipendenza, la tua libertà, fino a renderti un corpo alla mercé degli altri.
Talvolta, di fronte a una malattia – o una crisi di altro genere – ci impuntiamo su un imperativo categorico: noi dobbiamo guarire. “Dobbiamo” perché serviamo sani, perché Dio non può volere la nostra sofferenza, perché Dio lo ha promesso, perché Dio dice…
Contrariamente alle nostre aspettative, la guarigione non è sempre nei piani di Dio. E, quando c’è, non sempre i suoi tempi coincidono con i nostri.
Forse sorprenderà sentirlo dire, ma talvolta proprio la malattia, o la crisi, fanno parte del piano di Dio. Un piano che va oltre il nostro, perché vede oltre: oltre il nostro bene contingente, oltre il nostro interesse personale, e perfino oltre questa vita.
Sta a noi metterci nella prospettiva di Dio. Una volta sbollita la rabbia verso un Padre apparentemente meno amoroso del solito, forse potremo vedere dietro alla nostra malattia una opportunità inaspettata per consolidare la nostra fede, intensificare il nostro rapporto con Dio, incoraggiare altre persone che altrimenti non avremmo incontrato o che, in altre condizioni di salute, non avremmo potuto avvicinare con la stessa efficacia.
Spesso, come cristiani, dimentichiamo la nostra scelta di vivere per Cristo. Vorremmo farlo solo quando le condizioni risultano umanamente vantaggiose. O almeno, se proprio dobbiamo accettare un disagio, vorremmo comprenderne preventivamente il motivo.
Se fosse così, la fede non sarebbe necessaria. E ci perderemmo l’opportunità di credere senza preoccuparci delle conseguenze, senza lo stress di dover mantenere uno sguardo d’insieme, senza l’angoscia di un progetto chiaro ma così immane da schiacciarci.
Volenti o nolenti, il nostro percorso di vita non lo tracciamo noi.
Proprio per questo, come cristiani, dovremmo sentirci rasserenati: rasserenati di fronte a un’esistenza che non sempre comprendiamo ma che per noi, possiamo starne certi, è comunque la migliore possibile. Anche quando proprio non sembra tale.
Talenti impensati
Enrico Franceschini su Repubblica racconta la storia della “vecchietta che cura il mondo con le e-mail”.
Si tratta di una nobildonna inglese che va per la settantina, lady Swinfen, che è in costante contatto da un lato «con una rete di 382 esperti in ogni campo della medicina, tra cui alcuni dei migliori specialisti che si possono trovare in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Australia, Canada e Nuova Zelanda»; dall’altro con ospedali di «oltre cento paesi, dal Laos alla Lituania, dall’Africa all’America Latina».
In pratica la signora svolge un prezioso ruolo di smistamento. Molte volte, negli ospedali di tutto il mondo, ci si ritrova tra le mani qualche caso particolare, raro, per il quale sarebbe necessario il consulto medico di un luminare. Per gli ospedali dei paesi tecnologicamente più avanzati è semplice, basta un colpo di telefono o una videoconferenza. Ma per gli altri?
Ecco che interviene lady Swinfen: quando un ospedale secondario, sperduto in qualche parte del mondo fuori dalle rotte mediche più battute, ha bisogno di un consulto, si rivolge alla gentile signora, inviando i dettagli, la diagnosi, le analisi. La signora a sua volta smista il caso e il materiale a uno dei trecento medici, ovviamente a quello con la specializzazione più opportuna in relazione al caso specifico, e questo nel giro di qualche ora si impegna a dare un responso. Che, oltre a essere tempestivo, è gratuito.
«All’ inizio – spiega Repubblica – offrivano contatti con specialisti britannici soltanto a due ospedali del Nepal e uno delle isole Solomon, ma ben presto il giro dei loro pazienti si allargò a dismisura», tanto che lady Swinfen e suo marito non hanno più una vita sociale, né vanno in vacanza: ogni giorno piovono nelle loro caselle di posta elettronica decine di casi da risolvere, ovviamente, quanto prima.
Un progetto semplice, banale, a basso costo: quindi un progetto ideale. Anche troppo: «Era un’idea così semplice che non ci aveva pensato nessuno», spiega candidamente la signora.
Supponiamo che Lady Swinfen non fosse un’esperta di reti elettroniche, né un luminare della medicina: eppure, con pochissimi mezzi, è riuscita a creare un sistema che fino a oggi ha salvato la vita a quattrocento persone in dieci anni, e chissà quante altre potranno cavarsela grazie a questa interfaccia telematica tra medici esperti e pazienti lontani.
La storia è edificante. E potremmo dedicarla a tutti coloro che non credono di poter fare granché per gli altri, o temporeggiano in attesa di capire in quale maniera potrebbero mettere i loro talenti a disposizione del prossimo. La vicenda di lady Swinfen testimonia come a volte anche competenze limitate possano dare vita a grandi progetti, o possano venir messe a frutto nell’ambito di strutture che nemmeno sospettiamo abbiano bisogno di noi. Lady Swinfen ha visto un bisogno e si è attivata con quello che aveva.
Come cristiani non possiamo non credere che le nostre competenze, le nostre esperienze, i nostri talenti, le nostre conoscenze abbiano uno scopo benefico. Talvolta non siamo in grado di definirlo con precisione, ma non sarebbe eticamente corretto aspettare di trovarlo prima di mettersi all’opera. E, tantomeno, smettere di cercarlo.
Quegli input di troppo
«Ho la sensazione che Internet stia frantumando la mia capacità di concentrazione e di osservazione. La mia mente si sta abituando a raccogliere informazioni nello stesso modo in cui la rete le distribuisce: un flusso di particelle che si muovono a grande velocità. Una volta mi sentivo come un subacqueo che si immerge nel mare delle parole. Ora schizzo sulla superficie come un ragazzino su un acquascooter»: Nicholas Carr, ex direttore della Harvard Business Review ed esperto di comunicazione citato oggi dal Corriere, rende bene la sensazione di chiunque si sia fermato a riflettere – attività sempre più rara, di questi tempi – sul motivo di un disagio diffuso che colpisce molti di noi.
È l’era di Internet, bellezza: informazioni continue, su tutti i fronti e da tutte le fonti, notizie a getto continuo, fatti che si sviluppano sui nostri schermi talvolta prima ancora di entrare nella dimensione della realtà. E non è finita. Fino a oggi c’era il computer che, anche quando era portatile, risultava comunque un ingombro; a compensare c’erano i cellulari, che però non andavano molto oltre a sms e mms. Ora tutto cambia: i subnotebook, grandi e pesanti come un libro, promettono di restare con noi in ogni luogo, dandoci la possibilità di una connessione perpetua, disponibile a ogni capriccio telematico; i cellulari, sempre più evoluti, sono diventati smartphone, telefoni intelligenti (o furbi?) che scrivono, leggono ad alta voce, scattano e ricevono foto in tempo reale, e ormai, con gli schermi sempre più grandi, all’occorrenza sconfinano nel mondo delle e-mail e di Internet per una sana navigata a tempo perso. Anche i limiti residui stanno per essere abbattuti, con tariffe sempre più basse nel trasferimento dati, volte a incoraggiare un utilizzo sempre più connesso degli strumenti tecnologici.
Perché comunicare è esistere, e sapere è vivere. O, almeno, questo è il messaggio che si tenta di far passare.
Ci siamo dovuti adeguare. L’abbiamo fatto volentieri, beninteso: essere sempre raggiungibili è un privilegio, essere informati è un diritto.
Come tutte le innovazioni, però, anche le tecnologie hanno manifestato una serie di effetti collaterali: una maggiore difficoltà di distinguere realtà e finzione, con un aumento dei casi di truffa e delle bufale.
Ma soprattutto, ci hanno portati ad avere un approccio diverso alle cose.
«È tutto così dispersivo», scrive Carr. Non siamo più in grado di concentrarci senza passare a fare altro dopo qualche minuto; fare una cosa alla volta fa emergere un’insofferenza che rischia di trasformarsi in nervosismo.
Viene da chiedersi se di quest’ansia risenta anche la nostra spiritualità. Se siamo in grado di spegnere il cellulare per avere un po’ di pace mentre ci concentriamo nel nostro rapporto quotidiano con Dio. Se riusciamo a pregare senza che il pensiero fugga verso l’ultima conversazione fatta online. Se la lettura della Bibbia sia un piacere e non una sofferenza, perché non sappiamo più dare il giusto peso alle cose.
Ovviamente siamo ancora in grado di svolgere attività pratiche, ma stiamo perdendo il gusto della riflessione, quell’attività intellettuale che richiede quiete, calma e concentrazione.
Forse il banco di prova ideale per comprendere quanto Internet abbia eroso la nostra capacità di riflessione è l’epistola ai Romani, uno dei capolavori dell’apostolo Paolo, oltre che uno dei capisaldi della dottrina cristiana.
Proviamo a chiederci se scorriamo la lettera ai Romani come facciamo usualmente con le genealogie di Numeri o le indicazioni ripetitive di Deuteronomio, oppure se siamo ancora capaci di cogliere la complessa architettura, i delicati bilanciamenti, i colti rimandi, le digressioni e le riprese che Paolo offre al lettore.
Potrebbe capitarci che, abituati al motore di ricerca, riconosciamo nel testo solo le frasi più comuni, significative ma usurate, senza dare peso al contesto, alle possibili prospettive diverse, alle sfumature del discorso.
In questo caso sarebbe opportuno correre ai ripari con una sana dieta tecnologica: che non significa digiuno assoluto, ma moderazione nelle quantità.
Solo così potremo riappropriarci di un dono prezioso come quello della concentrazione, essenziale per una vita spirituale sana, piena, equilibrata.
E, possiamo starne certi, migliorerà anche il nostro rapporto con la tecnologia, che riprenderà il suo giusto posto nella nostra vita.