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Il senso del limite

Abbiamo perso il senso del limite? Se lo chiede, in un interessante intervento su Panorama, Giulio Meotti, che rileva come «nella stagione delle nonne che diventano mamme, dei trans, delle discussioni infinite su aborto, eugenetica ed eutanasia, i confini non contano più… siamo così confusi da fare sempre più fatica a distinguere la vita dalla morte, il padre dalla madre, il maschio dalla femmina».

Un articolo lungo per lanciare un allarme e una speranza: «che dai casi che più hanno diviso l’opinione pubblica recentemente si possa trarre una lezione. Abbiamo perso il senso del limite».

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Prelievi e dubbi

Repubblica segnala oggi in prima pagina che “Scatta l’allarme-trapianti”. I medici sono preoccupati: per la prima volta gli interventi sono in calo del 3%. Una flessione che viene addebitata ai “troppi dubbi sui prelievi d’organo”.

Sicuramente nella decisione di donare o non donare i propri organi (o quelli dei propri cari) al momento della dipartita influisce pesantemente la trasparenza delle pratiche, su cui più di qualcuno ha da ridire: la Lega contro la predazione di organi, per citarne una realtà molto combattiva, che si schiera contro la “predazione a cuore battente”. Detta così suona piuttosto tetra, ma non è detto che la realtà sia sempre migliore.

Viene però da pensare che non si tratti solo di questo, e che la maggiore ritrosia a donare gli organi derivi anche da un’inquietudine che si è sviluppata negli ultimi tempi in seguito ai casi mediatici più seguiti. Vedere la vicenda di Eluana Englaro costantemente sotto i riflettori fa riflettere. Al di là della gestione del caso e delle sentenze, al di là dei pareri morali e delle conclusioni che verranno, a forza di sentirne parlare subentra nel cittadino medio una sottile preoccupazione, che nasce sottotraccia, quasi subliminale, e si sviluppa in una serie di considerazioni.

Di fronte a questa e ad altre tristi vicende non si può non riflettere su questioni essenziali. Nonostante i baldanti pareri della scienza, non ci sono certezze assolute su quell’area grigia che in certi casi dobbiamo attraversare prima della dipartita. E allora, di fronte all’impossibilità di sapere, sempre meno persone sono disposte ad affidarsi completamente a chi conosce la medicina, ma non può andare oltre la competenza medica nel tracciare confini in un campo così delicato.

La falsa novella

«No, bisogna sfatare gli stereotipi della black music: il significato originale di gospel è “buona novella”, e le buone notizie non sono per forza legate a un credo preciso…. credo fermamente che l’hip hop sia una vibrazione positiva che rende il “messaggio” del gospel meno settario da un punto di vista religioso e più universale”.

Sono le ispirate parole di Kenneth Ce Ce Rogers, artista americano in questi giorni a Milano, intervistato dal Corriere.

Un tentativo di sdoganare l’ossimoro del gospel laico che fa riflettere su quanto sia pericoloso smarrire il senso delle parole. Una buona notizia potebbe essere qualsiasi novità positiva, sicuramente. Ma anche “positivo” ha un significato molto relativo, e per niente universale. È positivo vivere o morire? Le discussioni di questi giorni sull’eutanasia insegnano che è difficile dare una risposta netta. È positiva la sicurezza o la riservatezza?

Il problema è che spesso i guru dei nostri anni dicono “positivo” e pensano, in ultima analisi, semplicemente “libero”.

Libero da tutto e da tutti, senza limiti e confini – per dirla con Battisti -, senza obblighi. Liberi malgrado tutto, e a prescindere da chiunque: va da sé che si tratta di una libertà che non contempla la sensibilità, l’amore, e il rispetto per gli altri. Insomma, una religione dell’ego.

Forse allora la soluzione “meno settaria” di cui parla Rogers non è altro che una non-fede universale, dove ognuno è libero di vivere la propria cattiva coscienza senza sentirsi dire alcunché da chi gli sta vicino.

Non c’è che dire: nel passare dal messaggio di speranza e di amore di Gesù Cristo all’anarchia disorientata e confusa dei guru odierni c’è proprio da guadagnarci.

Modernità fraintese

Anche se mio padre e mia madre mi abbandoneranno, il Signore mi accoglierà. Colpisce come un pugno allo stomaco la citazione dai Salmi incisa su una lapide posta sul muro esterno di un ospedale ottocentesco. Si indovina facilmente che, appena sotto, quella fessura murata e pietosamente nascosta alla vista ospitava, cent’anni fa, una “ruota degli esposti”.

Uno strumento figlio di un’epoca ben diversa dalla nostra, ma che è tornato sotto i riflettori in questi anni. Ultimo in ordine di tempo, anche l’ospedale San Gerardo di Monza ripropone la ruota degli esposti: si tratterà naturalmente di una versione aggiornata, dove una culla termica e dotata di sensori sostituirà il piano di legno grezzo e la campanella che accoglieva i neonati abbandonati nell’Ottocento.

Strano pensare che oggi, nel ventunesimo secolo, ce ne sia bisogno. In una società che si vanta della sua apertura mentale, dove è vietato dare regole, dove non è lecito scandalizzarsi per non passare subito per bacchettoni. Una società dove i matrimoni combinati non esistono più, non esistono barriere di classe, dove non viene negata a nessuno una seconda possibilità; una società post-matrimoniale, sentimentalmente disinibita, senza limiti e confini, dove l’unico limite alla casistica delle unioni è l’immaginazione dei suoi componenti.

Una società dove la parola adulterio ha perso il suo significato di fronte alla coppia “progressista” (secondo il termine usato qualche anno fa da un regista, tradito, che si beffava della fedeltà coniugale), dove i figli naturali, nati fuori dal matrimonio, stanno raggiungendo i figli legittimi (anzi, suona strano che questi ultimi si chiamino ancora così).

Una società dove si può partorire e rifiutare il riconoscimento del neonato, senza nemmeno il fastidio di cercare una motivazione.
Una società dove non ci si crea problemi ad allevare in famiglia i figli avuti insieme, quelli di lei, quelli di lui. Una società dove le relazioni interpersonali si incrociano, si perdono, si ritrovano e si mescolano in un crogiolo sentimental-televisivo a metà tra la vita e il reality show.

Eppure proprio questa nostra società, così libera e realizzata, abbandona i neonati: proprio come quando l’adulterio era un marchio d’infamia e una gravidanza fuori del matrimonio una vergogna.

Come una volta, o peggio: almeno nell’Ottocento si aveva la cura di affidarli alla pubblica pietà, o a un monastero, anziché abbandonarli per la strada in pieno inverno o posarli, con un gesto tra i più orrendi per il suo significato intrinseco, in un cassonetto.

È difficile non rilevare l’assurdità di una società come la nostra, da un lato sempre così sensibile di fronte ai diritti umani, dall’altro capace di inculcare un tale disprezzo della vita.

Una società tecnologica ed emancipata, globalizzata ed ecologica, luminosa e proiettata verso il futuro.

Una società convinta di aver superato i fantasmi del passato, e che invece non ha mai perso il suo cuore di tenebra.