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Se la truffa è l'unica speranza
Una zingara di origini slave di 28 anni è stata arrestata «per aver truffato una signora convincendola a consegnarle 50mila euro in cambio di un aiuto “ultraterreno”».
La nomade, racconta Il Giornale, «ha avvicinato la sua vittima, una brianzola di 50 anni, sul piazzale di un centro commerciale di Monza. La donna le aveva raccontato i suoi guai (un figlio trentenne gravemente malato, un matrimonio a pezzi, un fratello morto da poco per un male incurabile). Un racconto disperato, ma non così tanto da inibire le smanie della nomade, che è riuscita in più riprese a persuaderla circa un suo “intervento” e, soprattutto, a farsi quindi consegnare il denaro necessario per ottenere una “grazia”».
Se la truffa è l’unica speranza
Una zingara di origini slave di 28 anni è stata arrestata «per aver truffato una signora convincendola a consegnarle 50mila euro in cambio di un aiuto “ultraterreno”».
La nomade, racconta Il Giornale, «ha avvicinato la sua vittima, una brianzola di 50 anni, sul piazzale di un centro commerciale di Monza. La donna le aveva raccontato i suoi guai (un figlio trentenne gravemente malato, un matrimonio a pezzi, un fratello morto da poco per un male incurabile). Un racconto disperato, ma non così tanto da inibire le smanie della nomade, che è riuscita in più riprese a persuaderla circa un suo “intervento” e, soprattutto, a farsi quindi consegnare il denaro necessario per ottenere una “grazia”».
La Luce guida dei Sentieri
Chiude “Sentieri”, la telenovela più longeva nella storia della tv: così longeva che è nata, 72 anni fa, in versione radiofonica (correva l’anno 1937) e solo nel 1952 si è trasferita in video.
Dopo 16 mila puntate, innumerevoli personaggi, storie, parole, il prossimo 18 settembre “Sentieri” scrive definitivamente la parola fine alle vicende ambientate nella cittadina di Springfield (no, non quella dei Simpson); gli appassionati italiani, però, hanno un vantaggio: la distanza dalla stella che si spegne garantirà altri quattro anni di intrattenimento, prima che cali l’ultimo sipario anche nella versione italiana.
Perché ne parliamo? Perché leggendo qualche articolo commemorativo si scopre che Sentieri, nella sua versione originale, si intitola “Guiding light”, luce guida (e non, come qualcuno segnala su wikipedia, “spirito guida”). Un nome quantomeno sospetto, specie nel contesto statunitense.
Quieto (con)vivere
“Convivere, nuovo fidanzamento italiano”: il titolo del focus che il Corriere venerdì dedicava a un’abitudine attecchita anche in Italia, dove i matrimoni in dieci anni si sono quasi dimezzati e le unioni di fatto hanno preso il loro posto.
Con un calcolo forse opinabile, ma probabilmente non troppo azzardato, Maria Antonietta Calabrò segnala che «ormai vive insieme al partner senza alcuna formalità una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni Settanta, e quando avranno diciotto anni le bambine nate negli anni Novanta, la percentuale potrebbe quasi raddoppiare».
Quattro i tipi di convivenza: la convivenza prematrimoniale, che sostituisce il vecchio fidanzamento e si conclude – se va bene – con il matrimonio; la convivenza necessaria/utilitaristica (di chi aspetta un divorzio o di chi non vuole perdere i vantaggi pensionistici di un precedente matrimonio); la convivenza come libera scelta per una vita di relazione dinamica (direbbero loro) o disordinata (direbbe la Bibbia).
In Italia, analizza il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, il 40% delle convivenze è di tipo prematrimoniale. Il dato non rassicura, né tutto sommato consola.
Anche perché la Pastorale familiare della Cei – organo ufficiale della chiesa cattolica – sorprende rivelando che «ci sono punte del 70 per cento di coppie che chiedono il matrimonio in Chiesa e che sono già conviventi».
Naturalmente ci sono sempre state coppie che desiderano sanare la propria posizione religiosa in fatto di matrimonio, ma di fronte a una percentuale così elevata non si può non chiedersi quali siano i valori e quale visione della vita la chiesa cattolica e le chiese cristiane in generale – riescano a trasmettere ai giovani.
Chiamiamola assenza di valori, chiamiamola paura del futuro, chiamiamola influenza malata di una società che si finge laica e si dimostra laida: il quadro è preoccupante.
In merito alla questione, una frase di De Rita è significativa e invita – forse inconsapevolmente – a una doppia lettura. Il fondatore del Censis segnala che i Dico si sono arenati perché «non c’è pressione sociale per una regolazione delle convivenze». Insomma, alla gente non interessa, e non preme sui politici per creare una nuova formula di tutela legale per le coppie di fatto.
La frase di De Rita, però, vale anche in una prospettiva etica: se la situazione è questa, è perché la società ha ormai accettato pacificamente la convivenza; è normale decidere di effettuare un test prematrimoniale, è normale finire sotto lo stesso tetto mentre si attende lo scioglimento legale di una unione precedente, è normale percepire emolumenti che, in caso di una nuova unione (di fatto o di diritto) non spetterebbero più.
Probabilmente nessun cristiano coerente intraprende consapevolmente una di queste opzioni.
Ma, allo stesso tempo, praticamente nessuno ormai si sogna di inarcare un sopracciglio obiettando agli amici che, cristianamente parlando, il matrimonio richiede senso di responsabilità nell’approccio, o che la frenesia di inaugurare una nuova relazione prima ancora di chiudere la precedente non risponde ai parametri etici di un cristiano, o che mantenere un diritto economico scaduto significa frodare lo Stato.
Certo, tutto questo è assolutamente “normale” per una società che non ha più punti di riferimento morali ed etici.
Ciò che preoccupa di più è che, ormai, tutto questo suona normale anche per noi.
In mezzo al dramma
«Mai come in questo momento ho sentito che il Signore esiste»: sono le parole di una donna estratta viva dalle macerie all’Aquila dopo ore di angoscia.
«Sono stata salvata dai miei vicini, di cui prima di ieri non conoscevo nemmeno il nome»: la testimonianza di una donna che, a sua volta, si è salvata grazie all’intervento di quegli illustri conosciuti che vivono a pochi metri da noi, ma cui riserviamo a malapena un saluto all’ingresso, se proprio capita di incrociarli.
Sono due tra le tante esperienze raccontate in questi giorni dagli inviati di giornali, radio, televisioni nazionali spediti nelle zone dove il terremoto ha picchiato con maggiore violenza.
Racconti toccanti e immagini che, senza commento, parlano ancora più forte: gli sguardi attoniti di chi ha perso tutto e non riesce a capacitarsene, i pianti sommessi degli anziani che hanno perso la loro appartenenza, le parole angosciate di chi, coperto da una coperta e relegato in un campo di fortuna, implora “non ci abbandonate“.
Un dramma come un terremoto non si riassorbe in tempi brevi e, di fronte a un simile dolore, sarebbe mera speculazione e mancanza di rispetto banalizzare la vicenda cercandovi per forza un lato positivo.
Eppure, in mezzo al dramma, qualcosa di positivo c’è stato.
Nel dramma improvviso di un pericolo mortale, il bene di una solidarietà che avevamo dimenticato.
Nel dramma angosciante di un futuro quantomai incerto, l’abbraccio concreto di milioni di italiani (e non solo).
Nel dramma disperato di un lutto inspiegabile, la consolazione di una fede quasi dimenticata, che emerge dal profondo, passando attraverso le spaccature di una vita finora troppo granitica e intensa per concedere spazio alla spiritualità.
Non sarà facile, certo, riprendere a vivere dopo tutto questo. Sarà lento e faticoso, talvolta perfino doloroso. Né esiste un percorso più breve per superare il trauma.
Solo quei valori, piccoli barbagli di luce riscoperti in mezzo al dramma, potranno dare la speranza, la serenità, la forza capaci di rendere tutto un po’ più facile a chi saprà farne tesoro.
L'ultima spiaggia
Ormai i sondaggi imperversano, a prescindere dalla rilevanza del tema: torme di intervistatori tormentano persone che di rispondere a domande più o meno banali non hanno nessuna voglia.
L’ultima, in ordine di tempo, ha coinvolto mille italiani tra i 14 e i 79 anni (praticamente tutta la società produttiva, e oltre) con una domanda da salotto annoiato: cosa porteresti con te se dovessi vivere da solo, per cinque anni, su un atollo sperduto nel Pacifico. Ossia sulla classica isola deserta.
Emerge che gli italiani, noti buongustai, non rinuncerebbero alla pasta e al vino per quanto riguarda gli alimenti; porterebbero la radio e l’orologio come prodotti tecnologici, mentre tra i libri, sull’isola deserta porterebbero con sé la Bibbia.
Il responso sorprende. Stando ai sondaggi di settore, gli italiani non sembrano così affezionati alle Sacre Scritture: non le conoscono, non le praticano, non le leggono. Eppure, se dovessero trovarsi soli e isolati, non porterebbero Guerra e pace o l’Odissea, e nemmeno un testo del laico Odifreddi: riscoprirebbero la Bibbia.
Se è così viene da chiedersi come mai, allora, nell’ordinarietà del quotidiano la Bibbia resti ben chiusa su qualche mensola di casa.
Certo, è colpa del logorio della vita moderna, dello stress, degli impegni che non danno respiro: su un’isola deserta, con cinque anni da passare in serenità e senza le scadenze incombenti, magari nel silenzio assordante della solitudine, sarebbe diverso.
Non è vero, quindi, che la Bibbia non abbia importanza per gli italiani. La Bibbia gode di considerazione e rispetto, e viene vista come una soluzione, una consolazione, una risposta; solo che si tratta di un valore di scorta, un impegno in bassa priorità, una chance residuale.
La Bibbia, dall’italiano medio, non viene percepita come uno strumento utile per una vita sana, ma come un rifugio cui guardare nel momento del bisogno. Come il supermercato. Come il medico. Come Dio, purtroppo.
L’ultima spiaggia
Ormai i sondaggi imperversano, a prescindere dalla rilevanza del tema: torme di intervistatori tormentano persone che di rispondere a domande più o meno banali non hanno nessuna voglia.
L’ultima, in ordine di tempo, ha coinvolto mille italiani tra i 14 e i 79 anni (praticamente tutta la società produttiva, e oltre) con una domanda da salotto annoiato: cosa porteresti con te se dovessi vivere da solo, per cinque anni, su un atollo sperduto nel Pacifico. Ossia sulla classica isola deserta.
Emerge che gli italiani, noti buongustai, non rinuncerebbero alla pasta e al vino per quanto riguarda gli alimenti; porterebbero la radio e l’orologio come prodotti tecnologici, mentre tra i libri, sull’isola deserta porterebbero con sé la Bibbia.
Il responso sorprende. Stando ai sondaggi di settore, gli italiani non sembrano così affezionati alle Sacre Scritture: non le conoscono, non le praticano, non le leggono. Eppure, se dovessero trovarsi soli e isolati, non porterebbero Guerra e pace o l’Odissea, e nemmeno un testo del laico Odifreddi: riscoprirebbero la Bibbia.
Se è così viene da chiedersi come mai, allora, nell’ordinarietà del quotidiano la Bibbia resti ben chiusa su qualche mensola di casa.
Certo, è colpa del logorio della vita moderna, dello stress, degli impegni che non danno respiro: su un’isola deserta, con cinque anni da passare in serenità e senza le scadenze incombenti, magari nel silenzio assordante della solitudine, sarebbe diverso.
Non è vero, quindi, che la Bibbia non abbia importanza per gli italiani. La Bibbia gode di considerazione e rispetto, e viene vista come una soluzione, una consolazione, una risposta; solo che si tratta di un valore di scorta, un impegno in bassa priorità, una chance residuale.
La Bibbia, dall’italiano medio, non viene percepita come uno strumento utile per una vita sana, ma come un rifugio cui guardare nel momento del bisogno. Come il supermercato. Come il medico. Come Dio, purtroppo.