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Il natale che non è

La migliore riflessione relativa a questo natale probabilmente l’ha scritta Claudio Magris, intellettuale laico, che lunedì 21 sul Corriere rifletteva su “Il natale e l’obbligo della felicità” (l’intervento completo è qui).

«A Lima – scrive Magris -, negli ultimi anni, durante la settimana di Natale la percentuale dei suicidi aumenta del 35%… Natale è una celebrazione degli affetti familiari, di una raccolta felicità, e chi se ne sente privo o povero ne soffre certo sempre, ma particolarmente in quei giorni. Giorni in cui si ostenta quel calore che gli manca e la cui mancanza si fa più acuta e talora insostenibile. Quel 35 per cento in più di morti disperati pesa come un dies irae».

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Telecomandi e telecomandati

Gli adolescenti che esagerano con tv e internet sono più problematici degli altri: lo rivela una ricerca della Società italiana di pediatria, che nei giorni scorsi ha reso pubblici i risultati di un’indagine condotta su 1300 studenti tra i 12 e i 14 anni.

Se Internet, con i suoi social network, i messaggi istantanei e le chat, è ormai un must per i teenager, la tv è tornata in auge dopo un periodo di minore attenzione: i ragazzi navigano in rete e si fanno compagnia con la tv. Ma non, come si potrebbe pensare, mentre chattano con gli amici: la televisione, per la maggior parte di loro, si accende alla sera, a cena. Quando, probabilmente, sono lasciati soli da genitori troppo presi dal lavoro, o sono in loro compagnia ma hanno, evidentemente, poco da dire e all’assordante silenzio di una tavola senza parole preferiscono lo sciapo sottofondo di un programma.

Un quadro sconsolante, che offre alcuni dati interessanti. Internet, ormai, è il mezzo di interazione più gettonato, ma la televisione resta ben presente nel loro immaginario: la guardano a cena, ma anche direttamente sullo schermo del pc, attraverso i filmati che quasi tutti scaricano dalla rete.

Se per loro la rete è il mondo di relazione, la televisione è maestra di vita: attraverso i suoi programmi assorbono valori e trovano battaglie da combattere, atteggiamenti da sostenere, mode da seguire, guru da ascoltare, personaggi da imitare.

Se il consumo resta nella modica quantità, la televisione sarà solo una delle voci, e attraverso il confronto i ragazzi potranno trovare una posizione equilibrata. Quando però la fruizione deborda oltre il buonsenso e la televisione diventa l’unica voce, il suo universo invade l’immaginario dello spettatore: può succederci allora di fare nostri i suoi valori, di chiamare i personaggi televisivi per nome, di scambiare gli amici con i protagonisti dei talk show, di dare credito a chi non lo merita, di crearci un mondo di immagini, egoismi e consumi dove le parole d’ordine sono “prenditi cura di te”, “tutto intorno a te”, “perché io valgo”, e via degradando.

Si fa presto a dire “a me non succede”, “posso smettere quando voglio”. La dipendenza è sempre in agguato e il rischio, ancora più grave in quanto subdolo, non è di perdere la salute, ma la consapevolezza di ciò che conta. Che, a ben guardare, è anche peggio.

Se anche Bill dice basta

Se si è stufato lui, figurarsi noi. Bill Gates, fondatore dell’informatica di consumo, autore dei programmi e dei problemi dei nostri computer, annuncia la sua decisione di lasciare Facebook: il suo profilo sul social network più diffuso al mondo, infatti, era diventato ingestibile, con le diecimila richieste di amicizia che lo hanno raggiunto.

«Mi sono reso conto che si trattava di un’enorme perdita di tempo… Era diventato ingestibile, alla fine ho dovuto rinunciare» ha spiegato.

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C'è bisogno di noi

«Sentiamo che in questa crisi economico-finanziaria globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori: se guardiamo alle cause e anche agli sforzi da mettere in atto per superarla, ci rendiamo conto che è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati largamente assenti dalle determinazioni dei soggetti economici e politici»: lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di qualche giorno fa di fronte ai 129 leader religiosi convenuti in Italia per il consueto summit pre-G8.

Se fino a qualche anno fa la fede veniva vista quasi con fastidio e relegata a un affare privato, e l’etica nel mondo del lavoro era un surplus per credenti particolarmente puntigliosi, dopo la crisi che ha squassato il mondo dell’economia i valori tornano in primo piano.

Fino a quando tutto va bene si tende a dimenticare il dovere a favore del piacere: e il piacere, per decenni, è stato l’edonismo di un sistema dove consumare significava tutto e tutto aveva un prezzo, dove l’imperativo era arricchirsi e ogni mezzo era lecito per farlo.

C’era bisogno di un terremoto per comprendere che l’economia non può essere un valore assoluto, che i valori non sono solo quelli di borsa, che l’arricchimento esteriore è arido senza un corrispondente arricchimento interiore.

A quel punto, disorientati, anche i famelici manager di Wall Street si sono dovuti fermare. Alcuni di loro, di fronte a una crisi economica e morale, hanno percorso di nuovo le navate delle chiese dopo anni spesi nel sacro tempio della Borsa.

Di fronte alla desolazione, ci si è concentrati di nuovo su quel mondo di piccole cose che si erano perse di vista: la famiglia, i gesti, i pensieri.

E, non ultima, la fede. Che non è un valore come gli altri, ma un valore aggiunto in qualsiasi sistema.

Ora questo ruolo è stato riconosciuto anche da Napolitano. I media non hanno enfatizzato le sue parole, anche se suona strano sentire un gentiluomo laico e di tradizione comunista sdoganare la spiritualità e i valori che ne discendono: «Nella visione che ispira la Costituzione della Repubblica italiana noi riconosciamo pienamente che hanno una dimensione pubblica e un valore pubblico il fatto religioso e la presenza religiosa. Senza pericolose confusioni tra politica e religione nella piena autonomia dell’una e dell’altra sfera abbiamo bisogno di tale apporto».

C’è bisogno di fede. Una fede viva, vissuta, coerente. Una fede che, applicata, porta a una morale convinta, non ipocrita ma profonda, nella vita del credente. Una morale che si trasforma in etica, un comportamento corretto fatto di serietà e onestà nel campo professionale.

Ora è ufficiale: anche il Capo dello Stato ne riconosce il bisogno e chiama i credenti a una presenza cristiana concreta, quotidiana, capace di restituire dignità a un mondo senza valori.

“… E voi mi sarete testimoni”, disse Gesù ai suoi discepoli. Oggi il mondo, la società, le autorità – quel mondo, quella società, quelle autorità che fino a ieri sottovalutavano la fede  – ci invitano a non dimenticare quella raccomandazione.

C’è bisogno di noi

«Sentiamo che in questa crisi economico-finanziaria globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori: se guardiamo alle cause e anche agli sforzi da mettere in atto per superarla, ci rendiamo conto che è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati largamente assenti dalle determinazioni dei soggetti economici e politici»: lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di qualche giorno fa di fronte ai 129 leader religiosi convenuti in Italia per il consueto summit pre-G8.

Se fino a qualche anno fa la fede veniva vista quasi con fastidio e relegata a un affare privato, e l’etica nel mondo del lavoro era un surplus per credenti particolarmente puntigliosi, dopo la crisi che ha squassato il mondo dell’economia i valori tornano in primo piano.

Fino a quando tutto va bene si tende a dimenticare il dovere a favore del piacere: e il piacere, per decenni, è stato l’edonismo di un sistema dove consumare significava tutto e tutto aveva un prezzo, dove l’imperativo era arricchirsi e ogni mezzo era lecito per farlo.

C’era bisogno di un terremoto per comprendere che l’economia non può essere un valore assoluto, che i valori non sono solo quelli di borsa, che l’arricchimento esteriore è arido senza un corrispondente arricchimento interiore.

A quel punto, disorientati, anche i famelici manager di Wall Street si sono dovuti fermare. Alcuni di loro, di fronte a una crisi economica e morale, hanno percorso di nuovo le navate delle chiese dopo anni spesi nel sacro tempio della Borsa.

Di fronte alla desolazione, ci si è concentrati di nuovo su quel mondo di piccole cose che si erano perse di vista: la famiglia, i gesti, i pensieri.

E, non ultima, la fede. Che non è un valore come gli altri, ma un valore aggiunto in qualsiasi sistema.

Ora questo ruolo è stato riconosciuto anche da Napolitano. I media non hanno enfatizzato le sue parole, anche se suona strano sentire un gentiluomo laico e di tradizione comunista sdoganare la spiritualità e i valori che ne discendono: «Nella visione che ispira la Costituzione della Repubblica italiana noi riconosciamo pienamente che hanno una dimensione pubblica e un valore pubblico il fatto religioso e la presenza religiosa. Senza pericolose confusioni tra politica e religione nella piena autonomia dell’una e dell’altra sfera abbiamo bisogno di tale apporto».

C’è bisogno di fede. Una fede viva, vissuta, coerente. Una fede che, applicata, porta a una morale convinta, non ipocrita ma profonda, nella vita del credente. Una morale che si trasforma in etica, un comportamento corretto fatto di serietà e onestà nel campo professionale.

Ora è ufficiale: anche il Capo dello Stato ne riconosce il bisogno e chiama i credenti a una presenza cristiana concreta, quotidiana, capace di restituire dignità a un mondo senza valori.

“… E voi mi sarete testimoni”, disse Gesù ai suoi discepoli. Oggi il mondo, la società, le autorità – quel mondo, quella società, quelle autorità che fino a ieri sottovalutavano la fede  – ci invitano a non dimenticare quella raccomandazione.