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Appuntamento al centro
Che ormai al supermercato si trovi di tutto non è una novità: sono lontani i tempi delle botteghe, i negozietti sotto casa dove andare a fare due chiacchiere, informarsi sulle novità del quartiere e comperare il necessario ben consigliati dal negoziante.
Ma ormai sembra passato un sacco di tempo anche da quando il supermercato era un semplice esercizio commerciale dove acquistare beni di consumo: dopo essersi reinventato nella veste di centro commerciale, circondandosi di decine di negozi, ora ha abbattuto un’altra frontiera, passando dai prodotti ai servizi.
Segnala la Stampa che varie sedi della catena Ipercoop offrono ai clienti-soci «il consulente fiscale, l’avvocato, il cardiologo e il ginecologo… la vendita di biglietti per i concerti, gli sportelli per pagare le bollette, la consulenza previdenziale e il calcolo della pensione, l’assistenza nelle pratiche di disoccupazione e di infortuni sul lavoro… i servizi finanziari e le assicurazioni. Ma anche iniziative rivolte agli stranieri, come le pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno e di ricongiungimento familiare per chi lavora». Chi bazzica altri supermercati potrà aggiungere all’elenco il servizio a domicilio, i contratti telefonici, le carte di credito. In qualche centro commerciale, poi, sono presenti anche sale di culto.
Tra i servizi aggiuntivi dell’Ipercoop ne spicca però uno, che si distingue per la diversità rispetto agli altri e la particolarità rispetto al luogo: la presenza di uno psicoterapeuta. Il (anzi, la) professionista offre ai soci una micro-terapia in tre sedute che ovviamente non pretende di dare risposte, ma quantomeno a inquadrare se i problemi del cliente-paziente siano seri, oppure siano ipocondrie.
Il servizio ha dapprima sorpreso il pubblico, per poi venire subissato dalle richieste. La sede dei colloqui non si può definire troppo accogliente, stretta com’è in uno spazio non troppo ampio accanto al servizio clienti; nemmeno il contesto è di quelli che invita alla distensione, tra rumore di carrelli e annunci all’altoparlante. Forse, e comprensibilmente, viste le premesse la terapia offerta non sarà del tutto efficace, ma tant’è: alla gente piace parlare di sé, e ogni occasione è buona. Se poi ad ascoltare non è una persona normale ma un dottore, capace di scovare nelle nostre parole in libertà qualche accenno di malattia, tanto meglio: questo confermerà che abbiamo una ragione per non essere felici, che la nostra insoddisfazione ha una radice lontana, che sono i nostri traumi ad averci ridotto così.
Viene da pensare che se in qualche supermercato c’è posto per uno psicoterapeuta, in altri centri potrebbe esserci spazio per un consulente spirituale. Non è solo una boutade: proposto nella giusta prospettiva e seguito da persone adatte al ruolo, potrebbe dimostrarsi un servizio utile.
Forse suonerà strano, ma non dobbiamo dimenticare che Gesù incoraggiò i suoi discepoli ad andare, non ad aspettare comodamente le anime oltre la soglia della chiesa.
I discepoli, per portare a termine la loro missione nel modo migliore, proclamarono il messaggio di speranza di Cristo nelle piazze, i luoghi più frequentati dell’epoca.
I centri commerciali sono le piazze del nostro tempo: il luogo migliore per incontrare le persone, le loro frustrazioni, i loro problemi, e venire incontro alla loro fame di spiritualità.
L’appuntamento con la gente, oggi, è proprio lì. Non sarebbe carino deludere chi ci aspetta, e tanto meno chi ci manda.
L'ultimo dei problemi
«In aumento le richieste di abortire per difficoltà economiche. L’allarme arriva dalla clinica Mangiagalli di Milano». Secondo il direttore sanitario, Basilio Tiso, «è uno degli effetti della crisi finanziaria».
«Li definiscono gli aborti senza alternative. Quelli di single co.co.co., coppie con un lavoro precario, giovani in cassa integrazione», secondo un dossier di due anni fa «il 12% delle donne che chiedono di abortire sono disoccupate, il 3% in cerca di lavoro, il 10% studentesse, il 12% casalinghe».
Insomma, conclude Tiso, «L’impressione è che ci sia un disagio crescente dovuto alla precarietà lavorativa».
Che la vita per i giovani non sia facile è sicuramente vero; proprio oggi il Corriere dedica il suo focus quotidiano alla “Gerontocrazia Italia”: prima dei quarant’anni è difficile raggiungere una posizione lavorativa rispettabile. Tirare su un figlio in questo contesto, con un paio di contratti precari e qualche lavoretto al volo, è proibitivo.
Eppure viene da pensare che il problema non sia solo questo, ma l’assenza di un progetto di vita. La domanda è poco politicamente corretta, ma sarebbe interessante sapere qual è la percentuale di donne sposate che ha richiesto l’interruzione di gravidanza. Perché il dato, va da sé, non è irrilevante.
Allevare un figlio con un co. co. co. e prospettive professionali risicate è certamente un rischio. Ma allevarlo senza una famiglia, senza sapere chi domani si sveglierà accanto a te (perché si sa, al giorno d’oggi l’amore è eterno finché dura), è un’incognita ancora più pesante.
Non è questione di matrimonio, ma di responsabilità nei confronti del partner, del nascituro, della società, e – in fondo – di noi stessi. Oggi non siamo in grado di prendere una decisione definitiva, tentati come siamo dalle mille opzioni di una vita globale e dalla chimera del rapporto ideale.
Appena il mondo non gira attorno a noi e la relazione perde qualche colpo, siamo pronti a sostituirla. Non c’è periodo di garanzia, nell’epoca del tutto e subito: il diritto al ripensamento prevale su qualsiasi altra valutazione.
Difficile, in un quadro simile, costruire qualcosa di stabile: sul piano umano, familiare, sociale, spirituale. Forse, in molti casi, le difficoltà economiche sono solo l’ultimo dei problemi.
L’ultimo dei problemi
«In aumento le richieste di abortire per difficoltà economiche. L’allarme arriva dalla clinica Mangiagalli di Milano». Secondo il direttore sanitario, Basilio Tiso, «è uno degli effetti della crisi finanziaria».
«Li definiscono gli aborti senza alternative. Quelli di single co.co.co., coppie con un lavoro precario, giovani in cassa integrazione», secondo un dossier di due anni fa «il 12% delle donne che chiedono di abortire sono disoccupate, il 3% in cerca di lavoro, il 10% studentesse, il 12% casalinghe».
Insomma, conclude Tiso, «L’impressione è che ci sia un disagio crescente dovuto alla precarietà lavorativa».
Che la vita per i giovani non sia facile è sicuramente vero; proprio oggi il Corriere dedica il suo focus quotidiano alla “Gerontocrazia Italia”: prima dei quarant’anni è difficile raggiungere una posizione lavorativa rispettabile. Tirare su un figlio in questo contesto, con un paio di contratti precari e qualche lavoretto al volo, è proibitivo.
Eppure viene da pensare che il problema non sia solo questo, ma l’assenza di un progetto di vita. La domanda è poco politicamente corretta, ma sarebbe interessante sapere qual è la percentuale di donne sposate che ha richiesto l’interruzione di gravidanza. Perché il dato, va da sé, non è irrilevante.
Allevare un figlio con un co. co. co. e prospettive professionali risicate è certamente un rischio. Ma allevarlo senza una famiglia, senza sapere chi domani si sveglierà accanto a te (perché si sa, al giorno d’oggi l’amore è eterno finché dura), è un’incognita ancora più pesante.
Non è questione di matrimonio, ma di responsabilità nei confronti del partner, del nascituro, della società, e – in fondo – di noi stessi. Oggi non siamo in grado di prendere una decisione definitiva, tentati come siamo dalle mille opzioni di una vita globale e dalla chimera del rapporto ideale.
Appena il mondo non gira attorno a noi e la relazione perde qualche colpo, siamo pronti a sostituirla. Non c’è periodo di garanzia, nell’epoca del tutto e subito: il diritto al ripensamento prevale su qualsiasi altra valutazione.
Difficile, in un quadro simile, costruire qualcosa di stabile: sul piano umano, familiare, sociale, spirituale. Forse, in molti casi, le difficoltà economiche sono solo l’ultimo dei problemi.