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Fiducia mal riposta

«Fatevi amici con le ricchezze ingiuste»: chissà se la direttrice di banca di Bornheim, che tanto fa discutere in questi giorni la Germania, nel compiere le sue operazioni da Robin Hood ha mai pensato alla celebre affermazione di Gesù. Sta di fatto che ha seguito alla lettera l’indicazione, e in preda a un impulso di pietà ha concesso fidi e crediti bancari a persone che non rispondevano agli standard richiesti.

Attraverso un abile gioco delle tre carte, rivisto in versione bancaria, riempiva i conti vuoti attingendo da quelli più fortunati, e in questo modo è riuscita a sfuggire ai periodici controlli che la banca – non va dimenticato che stiamo parlando della Germania – effettuava.

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Nebbia di idee

Il prossimo 10 gennaio saranno passati cinque anni da quando entrò in vigore la nota legge antifumo emanata dal ministro per la salute Sirchia, che vietava sigarette, sigari, pipe e affini in tutti i locali pubblici del nostro Paese.

Sembrava una delle tante iniziative legislative destinate a vedere scarsi riscontri pratici e invece, contro tutte le aspettative, da ormai quasi cinque anni la legge Sirchia regge egregiamente: gli italiani, per qualche strano meccanismo mentale e sociale, hanno preso a cuore la normativa, rispettandola e pretendendone il rispetto. Tanto che ormai è raro entrare in un bar e trovarsi avvolti in una coltre di nebbia provocata dalle sigarette degli avventori, situazione comune fino a qualche anno fa.

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Voci nel silenzio

“Meglio dedicare il minuto di silenzio ai morti sul lavoro”, ha detto il preside di una scuola romana, evidentemente allergico al lutto nazionale di ieri, indetto per piangere i sei soldati italiani caduti in Afghanistan.

Quella del direttore scolastico è una posizione minoritaria, certo, ma non isolata se anche su Facebook – che sempre più si conferma come il regno della superficialità – si chiedeva di condividere piuttosto un più generico lutto «per coloro che muoiono sul lavoro in un paese senza regole, senza controlli, senza giustizia. Senza finire sul giornale, lodati come eroi».

Posizione comprensibile, ma che inevitabilmente si pone in aperta polemica – politica, ideologica o sociale: fa poca differenza – nei confronti di una vicenda drammatica delicata come la morte dei nostri sei militari.

Il punto è proprio questo: in un momento di dolore ha senso la polemica? Ha senso chi urla “pace” al microfono dei funerali di Stato? Ha senso – o, piuttosto, ha cuore – chi scrive “-6” sui muri di Milano?

Qualcuno obietterà che, in altri momenti, la voce della contestazione si perde nell’indifferenza. Ed è innegabile che sia così. Però, esprimendo un disagio in questo modo si perde il senso del rispetto, della pietà, dell’umanità verso chi soffre. Certo, la morte è uguale per tutti e il dolore non conosce ufficialità, ma se passa l’assioma che ogni lutto è uguale, allora si perde il senso delle proporzioni e il significato del gesto. Se ogni sofferenza è uguale, allora ha ragione chi mette sullo stesso piano il dolore della vittima e del carnefice.

Se ogni morte è uguale, allora non ha senso guardare con gratitudine chi si è sacrificato per darci la libertà. E, forse, nemmeno chi ci ha donato la Vita.

Sia chiaro, non è giusto sminuire la fine di chi perde la vita per l’assenza di sicurezza sul posto di lavoro. Ma è un problema diverso, e non gli si rende onore sfruttando la scia di un altro lutto.

Una voce nel silenzio si sente forte. Ma chi parla rivela tutta la sua debolezza.

Finché non costa niente

I gestori dei locali notturni di Jesolo hanno deciso di lamentarsi per i troppi controlli che le forze dell’ordine stanno effettuando, in questa estate 2009, controlli che «danneggiano l’immagine turistica della città».

La polizia, per bocca del suo portavoce, risponde quasi incredula alle proteste: «Ci dicano loro cosa dobbiamo fare. Senza questi controlli non ci può essere sicurezza, altrimenti si rischia di fare solo propaganda fine a se stessa».

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La fatica di sentirsi vivi

Stando a una ricerca riportata dalla Stampa e basata sulle risposte di 1500 ragazzi, l’alcol è l’ultima frontiera dei giovanissimi. Cominciano a bere presto, già a undici anni, e a quindici sono esperti di intrugli ad alta gradazione.

Lo fanno «per non pensare alle cose brutte», «per sentirsi invincibile», «sciolto, libero, felice», addirittura «più bello», perché «è una cosa da duri», «si ha l’impressione che niente può andare storto». Ma anche «per una botta di vita», «per divertimento», «per fare colpo», «per essere figo».

Paola Nicolini, l’esperta che ha curato la ricerca, l’ha chiamata “sbronza preventiva”: «non ci si ubriaca più per dimenticare ma per vivere». Capovolgendo, di fatto, la prospettiva dei bevitori delle precedenti generazioni.

Spiega l’esperta che tra i teenager «nessuno associa l’ubriachezza al timore di essere scoperto, al senso del proibito, alla trasgressione. La birra, il vino, la vodka, il rum, il limoncello sono la stampella di un Io fragile che cerca conferme nel gruppo. Tutti vogliono essere simpatici, spiritosi, brillanti. E bere aiuta».

Di fronte ad abitudini così poco raccomandabili le famiglie sono in difficoltà: la ricerca rivela «il disorientamento e il senso d’impotenza delle famiglie» che sanno del vizio dei figli, vogliono capirne i motivi e si ripromettono anche decisioni di polso, ma poi scaricano la responsabilità sulle autorità, facendo appello a “leggi” e “controlli” e ammettendo, così, la loro sostanziale incapacità.

A quanto pare, quindi, il problema non è solo dei figli. Se il massimo che i genitori sanno fare è minacciare provvedimenti o rivolgersi a “chi di competenza”, evidentemente non hanno argomenti migliori. Argomenti che dovrebbero passare per termini come educazione e disciplina, e che presuppongono concetti come valori e morale.

Trovarsi di fronte a un figlio adolescente brillo dovrebbe portare un moto d’orgoglio e di responsabilità. Dovrebbe risvegliare nei genitori il buonsenso sopito, riattivare l’attenzione verso i punti di riferimento di cui, negli ultimi decenni, si è fatto strame a beneficio di una malintesa libertà. Una libertà che, se non ha limiti e obiettivi, è solo un’autostrada per l’autodistruzione.

È curioso notare che genitori si appellano alle leggi e ai controlli, senza ricordare che sono stati loro, quando avevano l’età dei loro figli, a chiedere a gran voce l’abolizione di ogni limitazione.

In parte avevano ragione: non sono le leggi esteriori a poter offrire una vita degna di essere vissuta, ma quella legge interiore che si fonda sulla fede, sulla coscienza, sull’esperienza. Una legge che decade quando perde i suoi presupposti, quando non le si riconosce più un valore intrinseco. Le conseguenze sono più ampie di quanto si potrebbe pensare: la fede cristiana, che porta con sé un comportamento e un’etica degni di questo nome, comporta anche un obiettivo, uno scopo, una speranza nella vita.

Come in un effetto domino, perdere di vista i valori porta a perdere anche il senso della vita, e i risultati sono sotto i nostri occhi: figli disorientati, famiglie che non sanno da che parte guardare, paura generalizzata di guardare al futuro.

Se, per i giovanissimi, perdere il senso della realtà è l’unico modo per sentirsi vivi, non possiamo non dirci preoccupati.

Esiste una soluzione? Sì, ma non si può limitare a un nuovo passatempo, a una moda più salutista delle precedenti, a una campagna di sensibilizzazione, a un buon proposito di capodanno.

Una soluzione efficace non può limitarsi a increspare la superficie, deve andare in profondità. Deve partire dalla consapevolezza di un bisogno, ma ancora non basta: funziona solo se siamo disponibili a un cambiamento radicale sul piano personale, capace di riportarci – riportare ognuno di noi – nella direzione della Speranza.

Perché non possiamo pretendere di cambiare la società, i giovani, il futuro, se prima non siamo disposti a cambiare noi stessi.

Offerte speciali, proposte indecenti

«Ne ho dovuti lasciare a casa quaranta», si è sfogato sabato il mio vicino, caporeparto di un’azienda brianzola che produce mobili di qualità. Quaranta persone in cassa integrazione, quaranta famiglie che da oggi dovranno dare una robusta sforbiciata alle spese: non solo quelle superflue, anche quelle che non sono indispensabili ma caratterizzano la qualità della vita.

«Sono tempi duri per tutti», ho risposto con un sospiro alla sua amarezza. «No, non per tutti», ha replicato lui. «Duri per chi rispetta la legge», ha aggiunto.

E così ho scoperto una vicenda tutta italiana dove alcune aziende subiscono controlli precisi e puntuali, mentre altre vengono provvidenzialmente risparmiate.

«Hai presente, alla fine della superstrada?», mi ha chiesto. Sì, c’è il capannone di quella rinomata azienda che produce divani. «Facci caso – ha continuato -: luci sempre accese, lavorano a ciclo continuo, giorno e notte. Tutti orientali, personale con scarse competenze, poche pretese e certo non in regola. Logico che poi possono proporre un divano a 500 euro, mentre da noi costa il doppio».

Da cristiano e da consumatore non ho potuto evitare di interrogarmi. Molto spesso sentiamo proporre campagne di boicottaggio nei confronti di aziende che, dopo aver delocalizzato all’estero, offrono condizioni di lavoro improponibili a donne e minori.

Se la risposta dell’opinione pubblica, di fronte ad abusi così plateali, sembra inevitabile, è molto meno scontata una reazione nei confronti di chi gioca sporco ma senza toccare le categorie che toccano la nostra sensibilità.

Non si può fare a meno di riconoscere che anche l’azienda di cui sopra (quella che impiega stranieri senza offrire le dovute garanzie) ha un comportamento poco trasparente e poco etico, e che da questa sua politica commerciale ingorda discende una crisi le cui conseguenze toccano anche noi, i nostri vicini, i nostri familiari.

E allora, come cristiani, dovremmo fermarci a pensare. Faremmo bene a chiederci se possiamo predicare il “non rubare”, e poi accettare senza troppe remore un secondo lavoro in nero.

Faremmo bene a chiederci se possiamo tenere alta la nostra alterità morale, e allo stesso tempo accettare sconti che di morale hanno poco, perché discendono da un trattamento economico discutibile.

Faremmo bene a chiederci se l’etica che diciamo di vivere e che vogliamo mostrare a chi ci sta attorno possa essere così miope da ignorare bellamente i drammi causati da un’economia malata, per continuare ad avvalerci delle “vantaggiose offerte” proposte da aziende, banche, professionisti di cui non possiamo condividere i metodi, ma i cui prodotti ci fanno comodo.

Sì, forse faremmo bene a riflettere. Perché la coerenza è un valore più prezioso di qualsiasi offerta speciale.

I vagoni della discordia

Le agenzie hanno appena battuto le dichiarazioni del questore di Napoli, Antonino Puglisi, in relazione ai penosi fatti di ieri: la inane epopea di un’orda di facinorosi che, sotto le mentite spoglie di tifosi di calcio, hanno preso a forza un treno per poi devastarlo nel percorso tra il capoluogo partenopeo e Roma.

«Quando quel treno si è mosso da Napoli, non c’era alcun pericolo di ordine pubblico», spiega Puglisi in un’intervista. «Cosa avrei dovuto fare, un processo alle intenzioni?»

Secondo il questore «quando il treno si è mosso non c’erano segnali di allarme al di là del naturale disagio dei passeggeri costretti a viaggiare in carrozze affollate di tifosi. Tanto che in molti hanno cambiato treno, ma l’hanno fatto in modo autonomo e spontaneo, senza alcuna pressione o violenza».

Oltretutto «I circa 1.500 tifosi in partenza con l’intercity, sottolinea il questore, erano muniti di biglietto ferroviario e per lo stadio»

Dalle parole del questore gli ultrà sembrano quasi dei distinti gentiluomini dal profilo dickensiano e dai modi gentili che, provvisti di regolare biglietto, salgono sul treno, magari chiedendo “per favore” e scusandosi con gli altri viaggiatori per il disagio arrecato.

Peccato che le cronache del giorno prima – ah, questi cronisti, sempre così poco obiettivi – dicano qualcosa di diverso. E parlino di «due stazioni assaltate, viaggiatori messi in fuga da petardi e fumogeni».

«All’Olimpico ancora scene di violenza, con lancio di petardi e cancelli sfondati», che secondo il questore alla stazione di Napoli non erano per nulla prevedibili: secondo Repubblica invece «Le intenzioni bellicose però s’intuivano sin dai primi cori: “Bruciamo la Capitale”, gridavano i tifosi radunati sulla piattaforma». Che pavidi, questi cronisti, temere il peggio per un paio di coretti da stadio.

In merito ai famosi biglietti, in effetti i controlli delle forze dell’ordine in stazione hanno retto, ma solo fino a un certo punto: «Il filtro ha funzionato finché uno dei tifosi ha avuto un malore. Allora i controlli sono saltati e un centinaio di persone si sono infiltrate senza biglietto». Che pignoli, questi cronisti: che differenza faranno cento biglietti in più.

Ma la frase più fastidiosa, forse, riguarda i passeggeri. Che, nel giorno del grande rientro dalle vacanze, erano «Anziani, bambini, gente che doveva riprendere il lavoro».

Si sono allontanati volontariamente, secondo il questore: oppure, come si legge sui giornali oggi, «dopo essersi ribellati al sopruso, si sono allontanati sottraendosi alla calca dei tifosi».
Tanto che il treno è partito in seguito a un’ordinanza prefettizia urgente «mentre infuriava la protesta dei viaggiatori, costretti a scendere per far posto ai 500 sostenitori del Napoli in attesa». Qualcuno terrorizzato e in lacrime, come quella madre che portava il figlio a Torino per un ricovero ospedaliero.

Non dubitiamo della buonafede del questore, che avrà visto i fatti stando nel mezzo della mischia, com’era giusto che fosse. E forse i cronisti presenti erano davvero dei tragediografi nati con qualche secolo di ritardo.

Resta il fatto che centinaia di cittadini onesti sono stati costretti – con le buone o con le cattive – ad abbandonare un treno per il quale avevano biglietto e posto, cedendo i vagoni a una manica di impuniti urlanti che nessuno vuole o può fermare.

Da chi riduce un vagone a un carro bestiame non si può pretendere un atto civile come le scuse a chi ha dovuto subire i loro comodi.

Almeno il questore, però, potrebbe pensarci. Quelle centinaia di “signori viaggiatori” che si sono trovati loro malgrado in mezzo a una brutta avventura, si sono visti minacciati senza motivo, hanno concluso le vacanze con un’odissea indegna di un paese civile.

Hanno sopportato, bene o male, il “disagio” che nessuno ripagherà loro in termini economici. Forse sarebbero contenti di risparmiarsi almeno parole poco generose da parte di un servitore dello Stato, prima di perdere ogni fiducia nei confronti dello Stato stesso.