Archivi Blog
Il tempo che conta
Difendere il tempo libero: un’esigenza sempre più sentita nelle società occidentali, dove sembra che il tempo (libero o occupato, a prescindere) non basti mai.
Il presidente Clinton, già nel 1999, aveva istituito una commissione per esaminare il fenomeno della “time poverty”; oggi è una ricerca diretta da Robert Goodin e intitolata “Discretionary time” a fare il punto della situazione sulla “time pressure”.
Gli studiosi inglesi si sono impegnati a cronometrare le giornate-tipo dei loro connazionali, individuando tre macrocategorie: il tempo dedicato al lavoro, il tempo dedicato alla casa (e alla famiglia), il tempo dedicato alla cura della propria persona.
Finché non costa niente
I gestori dei locali notturni di Jesolo hanno deciso di lamentarsi per i troppi controlli che le forze dell’ordine stanno effettuando, in questa estate 2009, controlli che «danneggiano l’immagine turistica della città».
La polizia, per bocca del suo portavoce, risponde quasi incredula alle proteste: «Ci dicano loro cosa dobbiamo fare. Senza questi controlli non ci può essere sicurezza, altrimenti si rischia di fare solo propaganda fine a se stessa».
La cura dell'anima
Racconta Repubblica che in Francia «dopo i buoni pasto, arrivano i buoni psicologo. Può sembrare uno scherzo, ma non lo è: alcune aziende stanno sperimentando Oltralpe l’idea di pagare ai loro dipendenti alcune sedute di psicoterapia».
I buoni, peraltro, «valgono solo per risolvere un problema preciso, non per fare una terapia a lungo termine. Al massimo, sono previste dieci sedute: al di là, il lavoratore dovrà pagare di tasca propria».
Insomma: la psicoterapia verrà pagata dall’azienda, ma solo per problemi relativi al lavoro, non per risolvere tutte le questioni di vita del dipendente.
Sarà interessante vedere come sarà possibile discernere – e curare – le conseguenze dei problemi lavorativi tralasciando quelli personali, dato che la psiche umana non lavora a compartimenti stagni; immaginiamo che sarà un lavoraccio per gli psicologi distinguere e valutare se una questione lavorativa, magari banale, sia un problema serio per il dipendente, o soltanto la causa scatenante di un problema più ampio che prescinde dal lavoro e tocca famiglia, rapporti umani, malessere sociale: in quel caso, oltretutto, sarà un grattacapo trovare una formula convincente per suddividere il costo della cura in maniera equa all’azienda e al dipendente.
Viene anche da chiedersi quale sia il problema che ci caratterizza e ci rende così diversi dai nostri padri e i nostri nonni, tanto da dover ricorrere in via ordinaria a misure straordinarie (non a caso in molti dialetti lo psicologo viene definito “il medico dei matti”). Dovremmo capire se siamo più fragili emotivamente, se viviamo in una società così diversa e tanto più complicata rispetto a quella delle generazioni passate, o se sono le nostre relazioni interpersonali, il rapporto con i valori, l’impoverimento spirituale (e, anche, religioso) ad averci portati a questo punto.
In ogni caso l’aiuto psicologico non va necessariamente rigettato con indignazione, anzi: ben venga, se serve ad analizzare, chiarire, circoscrivere i problemi. L’importante è che non la si prenda per quello che non è: una cura dell’anima.
Per quella, infatti, c’è bisogno di guardare altrove. O, meglio, in Alto.
La cura dell’anima
Racconta Repubblica che in Francia «dopo i buoni pasto, arrivano i buoni psicologo. Può sembrare uno scherzo, ma non lo è: alcune aziende stanno sperimentando Oltralpe l’idea di pagare ai loro dipendenti alcune sedute di psicoterapia».
I buoni, peraltro, «valgono solo per risolvere un problema preciso, non per fare una terapia a lungo termine. Al massimo, sono previste dieci sedute: al di là, il lavoratore dovrà pagare di tasca propria».
Insomma: la psicoterapia verrà pagata dall’azienda, ma solo per problemi relativi al lavoro, non per risolvere tutte le questioni di vita del dipendente.
Sarà interessante vedere come sarà possibile discernere – e curare – le conseguenze dei problemi lavorativi tralasciando quelli personali, dato che la psiche umana non lavora a compartimenti stagni; immaginiamo che sarà un lavoraccio per gli psicologi distinguere e valutare se una questione lavorativa, magari banale, sia un problema serio per il dipendente, o soltanto la causa scatenante di un problema più ampio che prescinde dal lavoro e tocca famiglia, rapporti umani, malessere sociale: in quel caso, oltretutto, sarà un grattacapo trovare una formula convincente per suddividere il costo della cura in maniera equa all’azienda e al dipendente.
Viene anche da chiedersi quale sia il problema che ci caratterizza e ci rende così diversi dai nostri padri e i nostri nonni, tanto da dover ricorrere in via ordinaria a misure straordinarie (non a caso in molti dialetti lo psicologo viene definito “il medico dei matti”). Dovremmo capire se siamo più fragili emotivamente, se viviamo in una società così diversa e tanto più complicata rispetto a quella delle generazioni passate, o se sono le nostre relazioni interpersonali, il rapporto con i valori, l’impoverimento spirituale (e, anche, religioso) ad averci portati a questo punto.
In ogni caso l’aiuto psicologico non va necessariamente rigettato con indignazione, anzi: ben venga, se serve ad analizzare, chiarire, circoscrivere i problemi. L’importante è che non la si prenda per quello che non è: una cura dell’anima.
Per quella, infatti, c’è bisogno di guardare altrove. O, meglio, in Alto.
Parametri d'infelicità
Ora è ufficiale anche per la statistica: le famiglie italiane sono in sofferenza. Lo rivela – casomai ce ne fosse stato bisogno – l’Istat, che nei giorni scorsi ha pubblicato l’indagine sulla spesa delle famiglie italiane nel 2007.
Curiosamente negli ultimi anni la statistica ha subito un effetto comune anche alla temperatura, con una scollatura tra dati ufficiali e realtà percepita: gli esperti rassicuravano su un’inflazione bassa, e noi vedevamo crescere settimana dopo settimana il costo della spesa. A quanto pare, quindi, alla fine anche la statistica è tornata con i piedi per terra e si è allineata alle impressioni generali.
La deprimente situazione emersa dall’indagine, secondo gli esperti, fa emergere dati poco rassicuranti per il futuro: «Dal punto di vista macroeconomico – spiega Pietro Garibaldi sulla Stampa – la diminuzione reale dei consumi è uno dei fenomeni più preoccupanti, poiché nel lungo periodo il livello dei consumi è un indicatore chiave dello standard di vita».
Di fronte a una frase come questa, inserita quasi en passant tra dati e analisi, sorge un dubbio. Viene da chiedersi se la qualità della vita sia davvero così intimamente legata al livello dei consumi. Sarebbe sciocco negare che esistano delle esigenze primarie (come nutrirsi, vestirsi, abitare) sotto le quali la situazione umana si fa critica. Ma, allo stesso tempo, sarebbe forse il caso di chiedersi se, nella cultura occidentale, cercando una definizione del concetto di felicità non abbiamo dato troppo peso al parametro economico, alla soddisfazione materiale, al possesso.
Forse un momento di crisi come quello attuale, tra i tanti disagi che comporta, potrebbe avere il pregio di farci capire che la vera ricchezza di un popolo non si misura in playstation o schermi al plasma, e che la felicità non si conserva insieme allo scontrino.
Parametri d’infelicità
Ora è ufficiale anche per la statistica: le famiglie italiane sono in sofferenza. Lo rivela – casomai ce ne fosse stato bisogno – l’Istat, che nei giorni scorsi ha pubblicato l’indagine sulla spesa delle famiglie italiane nel 2007.
Curiosamente negli ultimi anni la statistica ha subito un effetto comune anche alla temperatura, con una scollatura tra dati ufficiali e realtà percepita: gli esperti rassicuravano su un’inflazione bassa, e noi vedevamo crescere settimana dopo settimana il costo della spesa. A quanto pare, quindi, alla fine anche la statistica è tornata con i piedi per terra e si è allineata alle impressioni generali.
La deprimente situazione emersa dall’indagine, secondo gli esperti, fa emergere dati poco rassicuranti per il futuro: «Dal punto di vista macroeconomico – spiega Pietro Garibaldi sulla Stampa – la diminuzione reale dei consumi è uno dei fenomeni più preoccupanti, poiché nel lungo periodo il livello dei consumi è un indicatore chiave dello standard di vita».
Di fronte a una frase come questa, inserita quasi en passant tra dati e analisi, sorge un dubbio. Viene da chiedersi se la qualità della vita sia davvero così intimamente legata al livello dei consumi. Sarebbe sciocco negare che esistano delle esigenze primarie (come nutrirsi, vestirsi, abitare) sotto le quali la situazione umana si fa critica. Ma, allo stesso tempo, sarebbe forse il caso di chiedersi se, nella cultura occidentale, cercando una definizione del concetto di felicità non abbiamo dato troppo peso al parametro economico, alla soddisfazione materiale, al possesso.
Forse un momento di crisi come quello attuale, tra i tanti disagi che comporta, potrebbe avere il pregio di farci capire che la vera ricchezza di un popolo non si misura in playstation o schermi al plasma, e che la felicità non si conserva insieme allo scontrino.