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Le paure della Fifa

Riecco la Fifa inflessibile, severa, rigida ed equidistante. Ne sentivamo la necessità: in un mondo del calcio dove la furbata è all’ordine del giorno, dove i soldi portano a intrallazzi e malversazioni, dove i problemi dello sport si sommano a quelli della geopolitica, ecco che la Fifa riprende il suo ruolo di custode della pace e dell’ortodossia.

Sì, ne sentivamo il bisogno: faceva troppo male sapere che Blatter e soci avevano glissato con un sorriso sul caso Henry, su quel colpo di mano voluto e rivendicato, grazie al quale la Francia aveva segnato il gol decisivo per accedere alla fase finale della Coppa del mondo. L’Irlanda aveva rivendicato i suoi diritti, esponendo le sue ragioni e chiedendo giustizia: la ripetizione della partita o l’accesso ai Mondiali come 33.ma squadra.
Blatter, come sempre, aveva sfoderato il suo sorriso da politico promettendo di pensarci, e poi come sempre aveva detto che no, non si poteva fare: chi aveva avuto, aveva avuto; chi aveva dato, aveva dato. Così parlò la Fifa in quell’occasione, e la soluzione puzzava di opportunismo, o di interessi sporcati da principi diversi rispetto a quelli rivendicati – d’accordo, erano le Olimpiadi e non i Mondiali di calcio – da De Coubertain.

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Un messaggio frainteso

«Il punto centrale è che il cristianesimo non lo difendi brandendolo come un’ideologia, ma testimoniandolo nella vita quotidiana come risposta ai bisogni dell’uomo. La grande forza del cristianesimo, quella che colpisce e “contagia” il prossimo che incontriamo, è la possibilità per l’uomo di sperimentare una novità di vita»: la constatazione, molto evangelica, è di Giorgio Vittadini.

Nei giorni della polemica leghista contro le esortazioni espresse dal cardinale di Milano, il fondatore della Compagnia delle Opere centra meglio degli altri la questione e la sua frase, da sola, vale quanto un discorso: Cristo non può essere un’ideologia, un mezzo, un alibi per giustificare comportamenti che si scontrano con il suo insegnamento.

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Oltre il velo

«In che mondo viviamo», commenta sconsolata Maria Matilde Filippini, preside di una scuola elementare romana: un gruppo di mamme le chiede di sostituire la nuova insegnante di italiano, e promette di arrivare fino al Tar per ottenere giustizia.

Ce l’hanno con la docente, ma non è perché sia impreparata – d’altronde è entrata in classe da appena tre giorni -, né perché sia violenta, per i suoi comportamenti bizzarri, per insane passioni o frequentazioni pericolose, per inesperienza o inadeguatezza: l’unica obiezione a questa mite sessantunenne è il suo essere una suora.

Suor Annalisa, va detto, non ostenta: in classe si fa chiamare “maestra Annalisa”, e si dice consapevole di non dover “oltrepassare il limite” confondendo la sua scelta di fede e il suo delicato lavoro di formatrice. Le premesse sono buone ma non bastano alle mamme: «Sono atea – dice la portavoce del gruppo – e credo che la scuola pubblica debba essere quantomeno laica». A ben vedere non si spiega quale sia, nelle idee delle agguerrite mamme, la condizione ideale di una scuola “quantomeno laica” (atea? agnostica? marxista? darwinista? relativista? scientista?), ma forse, in certi casi, è meglio non sapere.

La preside, di fronte a un caso che oltrepassa il limite della ragionevolezza, è ferma: «Per me questa è solo demagogia, razzismo laico… Anch’io mi sento laica e sarei la prima ad avviare un procedimento disciplinare nei confronti di un insegnante che contravvenisse ai suoi doveri». Però, rileva, «mi chiedo perché la signora non disse nulla quando l’insegnante che c’era prima impartiva ai bambini dei corsi di benessere yoga: li faceva sdraiare in cerchio, disegnava dei mandala e recitavano insieme dei mantra…».

Insomma, quella che emerge da parte delle attente genitrici non è, come potrebbe sembrare, una posizione contraria a ogni forma di religiosità, ma l’opposizione a una fede specifica: quella cristiana.

Scandaloso? Forse, ma per niente strano: in un mondo di contrari a prescindere c’è chi non può vedere il rosso, chi il nero, e chi Cristo.

Chiunque, ma non Gesù. Si chiama, in gergo tecnico, reverse discrimination: impedire a qualcuno di esercitare una funzione in quanto si trova in una posizione che potrebbe far pensare a un privilegio nei suoi confronti.

Triste essere così prevenuti. Triste essere razzisti, e non indora la pillola il fatto che si tratti di un “razzismo laico”.

La spiritualità orientale va bene, ma il cristianesimo no. D’altronde si sa, lo yoga è così chic, è elegante e non impegna, mica come quel Cristo che promette un futuro glorioso ma per il presente non lesina lacrime, sudore e sangue.

Peccato che un genitore non sia capace di guardare oltre. In questo caso, oltre il velo di una suora. Se avesse il coraggio di farlo magari scoprirebbe un’insegnante che, proprio perché portatrice di un’identità definita, sa essere più sensibile nell’esercizio di quell’equilibrio e di quell’onestà intellettuale cui ogni docente è chiamato.

Rick Warren è sbarcato in Europa

Ieri, giovedì 3 dicembre, sul Foglio è uscito un mio articolo di analisi sul fenomeno Warren; il contributo inaugura la mia collaborazione con il quotidiano di Giuliano Ferrara. Ve lo ripropongo qui, e resto in attesa dei vostri commenti.

IL PASTORE CHE HA BENEDETTO LA PRESIDENZA OBAMA È SBARCATO IN EUROPA

Il grande pubblico ha scoperto Rick Warren il 20 gennaio scorso, quando davanti a Capitol Hill ha innalzato la tradizionale preghiera di benedizione per l’insediamento di Barack Obama: la paciosa e rassicurante sagoma del pastore che trent’anni fa ha fondato in California la Saddleback Church di Lake Forest rappresenta un cambiamento di forma e di sostanza che non è sfuggito agli esperti.

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Islamicamente scorretto

Siamo convinti che l’islam sia una cosa seria. Davvero: l’islam è una religione plurisecolare con le sue regole, le sue interpretazioni, le sue sette, le sue correnti, e (purtroppo) i suoi estremismi. Questo non significa, naturalmente, condividerne il messaggio: significa semplicemente rispettare chi ci vive vicino e ha una cultura, una religione, una sensibilità diversa dalla nostra.

Per questo ci siamo stupiti. Abbiamo visto ridicolizzare l’islam da parte di un suo autorevole esponente. Gheddafi, a Roma, ha voluto spiegare i dettami di Maometto a un gruppo di persone: persone selezionate per sesso, misure e aspetto fisico. Dovevano essere di bell’aspetto, alte almeno un metro e 75 centimetri, portare la taglia 42. Sul piano metodologico non c’è niente di strano, conoscendo le bizzarrie di un personaggio cui è concesso per convenzione di fare il bello e il cattivo tempo.

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Armi non convenzionali

Finora a indignarsi con Dan Brown, il sopravvalutato autore di “Il codice Da Vinci” e “Angeli e demoni”, era stato soprattutto il mondo cattolico, per quei riferimenti al fantomatico matrimonio tra Gesù e Maria Maddalena, pesanti soprattutto in un romanzo venduto in milioni di copie, che molti lettori hanno confuso con un manuale di teologia e storia del cristianesimo.

Poi, in “Angeli e demoni”, l’attacco era stato ancora più frontale, stavolta sul piano politico, nei confronti del Vaticano, tanto da meritarsi un bando dal territorio della Santa Sede.
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La fede di Enzo Jannacci

Sulla fede di Enzo Jannacci avevamo già avuto modo di riflettere qualche mese fa, e già in quell’occasione eravamo rimasti piacevolmente sorpresi sulla sua sensibilità per la figura di Gesù.

Ora, in un’intervista ad Avvenire, il medico cantautore parla a tutto campo delle origini e degli sviluppi della sua ricerca spirituale: scrive Paolo Viana, che lo ha intervistato, che Jannacci «A settantaquattro anni è un uomo che parla con Cristo, che lo cerca ogni giorno, perché – ci dice – ne ha “un gran bisogno”», e se «non ha ritrovato la fede» è «semplicemente perché non l’ha mai perduta: “Credo molto in Dio, ci parlo e non sono mai stato ateo“».

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Quattro passi di fede

Sabato pomeriggio gli evangelici milanesi hanno colorato la città di giallo e blu: erano questi i colori predominanti della marcia “God Parade”, che in poco più di un’ora ha portato tre-quattrocento giovani credenti a sfilare dai giardini di Corso Venezia al Castello Sforzesco per raccontare la soddisfazione che può dare una vita cristiana coerente e intensa.

Interessanti gli striscioni esposti, portati dalla decina di comunità aderenti: da “Gesù è il vero super”, motto della manifestazione presente anche su palloncini e magliette (per l’occasione è stato preso a prestito lo stemma di Superman, dove al posto della “S” campeggiava una “C”), a “Qualsiasi cosa tu dica, Dio ti ama”, fino ai più originali “Fatti di Gesù” (e ognuno la interpreti come preferisce), “Se lo fai sarà difficile smettere: scegli Gesù”, “Gesù Cristo, uno di noi”, “Il nostro paladino della giustizia è qui: preparatevi a essere salvati”, “W la fede e chi la persegue”, “No alla religione, sì alla relazione”, “Gesù ti ama da morire”, “Salvo chi legge… la Bibbia”. Non mancavano i classici “Gesù sta tornando: sei pronto?” e “Gesù Cristo vive! Salva, guarisce, ritorna”, oltre all’internazionale “Jesus is Lord” che faceva il paio con il localissimo “Casorate infuocata per Gesù”.

Età media bassa per i quattrocento presenti, che nei due chilometri del percorso hanno espresso danze, distribuito volantini a tutti i passanti, scandito slogan guidati dall’immancabile “uomo col megafono” di fronte ai milanesi basiti e a un ancora più sorpreso gruppetto di giapponesi.

Tutto, va detto, è stato fatto in maniera sorprendentemente ordinata e – grazie a Dio – perfettamente rispettosa di persone o cose incontrate sul percorso. Per chi ha frequentato o visto altri cortei di ben altra fattura e diverse turbolenze, probabilmente già questo sarà stato una buona testimonianza di cosa significhi essere cristiani.

Una decina le chiese presenti e censite: il Sabaoth, che ha contribuito fattivamente all’organizzazione dell’iniziativa; un nutrito gruppo proveniente dalla comunità filippina “Jesus is Lord” di via Bisceglie; e poi, alla spicciolata, elementi di Oikos, Tabernacolo, Chiesa apostolica, Bethel, Sorgente di vita di Sesto San Giovanni, Gesù vive, Concorezzo, Casorate.

Certo, se l’obiettivo era, come preannunciato, “dimostrare che gli evangelici sono numerosi”, non si può dire che lo scopo sia stato raggiunto: più di qualcuno aveva temuto un risultato peggiore, ma anche quei tre o quattrocento che sono intervenuti non avranno sicuramente contribuito a dare particolare risalto, agli occhi dei milanesi, alla presenza e all’unità delle chiese evangeliche.

Anzi: grandi assenti sono risultati proprio pastori e responsabili, di cui non è stata individuata alcuna presenza. Al di là del fatto che si trattava di un’iniziativa giovane, la constatazione non suona incoraggiante.

Il resto è storia, anzi, cronaca; gli organizzatori, interpellati al termine della manifestazione, hanno espresso una soddisfazione limitata: avrebbero voluto di più, sotto tutti i punti di vista. Per essere stata la prima “marcia per Gesù” dopo lustri, tutto sommato non è andata male. Certo, per il futuro andrebbero curati di più alcuni dettagli e un aspetto essenziale come l’arrivo.

Di solito un corteo si conclude sotto a un palco dove si alternano musica e qualche intervento teso a spiegare i perché dell’iniziativa. Questo aspetto, purtroppo, ha lasciato a desiderare: la marcia si è conclusa poco prima delle 17.30, e solo allora gli organizzatori si sono resi conto che mancava una conclusione. Appena mezz’ora dopo si riusciti a imbastire un palco improvvisato sul pianale di una jeep per proporre due brani musicali e un brevissimo messaggio di saluto. Che forse ha peccato di improvvisazione, finendo per parlare ai partecipanti più che ai curiosi di passaggio per piazza Castello, cui ci si sarebbe dovuti rivolgere con maggiore efficacia.

Come detto, è stato un primo passo: un primo passo verso una visibilità più significativa nei confronti della città, un primo passo verso qualcosa di concreto e di diverso dal solito; al contrario di tante manifestazioni “statiche”, di cui sono piene le piazze, una marcia che ferma il traffico e invade vociante le strade non può lasciare indifferenti i passanti. E sarebbe stata ancora più efficace, se solo le chiese fossero state capaci di guardare quattro passi più in là.