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Sbagliata fino in fondo
«Ma cosa crede, che a sessant’anni cambio vita, cerco un lavoro e mi metto a pulire i gabinetti?»: non sono le parole di una contessa caduta in disgrazia o di un’operaia licenziata dopo decenni di onorato servizio, ma di una donna di mezza età arrestata a Milano per spaccio di sostanze stupefacenti.
Di lei sappiamo solo le iniziali, C.M.: il nome non è stato reso noto, per quel malinteso senso della privacy che porta le autorità a sottrarre al pubblico ludibrio anche i nomi degli evasori dalla bella vita.
Un bisogno a tutto tondo
L’alzheimer? Si combatte lavorando. È la conclusione di una equipe britannica che ha analizzato oltre milletrecento persone in relazione al progresso del morbo, incrociando i dati con significative vicende della vita.
Si è così scoperto che andare in pensione presto è deleterio: non è il riposo che ci salva, ma il lavoro, che andrebbe portato avanti per tutta la vita, possibilmente senza cambiarlo.
Sorvolando su questo ultimo dettaglio, che mette in difficoltà le nuove generazioni (un giovane oggi difficilmente potrà mantenere lo stesso impiego per tutta la vita), la ricerca rivela una verità: non siamo nati per battere la fiacca, ma per renderci utili.
Che la nostra sia la società delle contraddizioni ormai è evidente: i settantenni competono per forma fisica con i trentenni e si offendono se vengono definiti “anziani”, ma aspirano al pensionamento come alla terra promessa, fine di tutte le pene. La vedono come una vacanza a vita, che però dopo i primi mesi comincia a rivelarsi una gabbia dorata.
Fa una certa pena vedere persone ancora valide sprecare il loro tempo giocando a carte al bar, o commentando i fatti politici sulle panchine dei giardini.
Una condizione innaturale cui alcuni (rari) trovano rimedio reinventandosi missionari laici in Africa per periodi più o meno lunghi, altri dedicandosi anima e corpo alla famiglia. Pochi invece, sempre troppo pochi sono coloro che mettono con regolarità le proprie competenze a disposizione della società: vicini di casa, quartiere, chiesa.
Gioverebbe agli altri, e anche per la salute di chi dona il proprio impegno. La ricerca britannica tutto sommato non fa altro che confermare una verità biblica: non possiamo fare a meno gli uni degli altri.
L’uomo si dimostra ancora una volta un essere sociale: l’interazione con gli altri caratterizza non solo i suoi desideri e le sue necessità ma, scopriamo ora, anche la sua salute.
Cameron e la felicità inattesa
David Cameron, leader conservatore inglese, ha perso nei giorni scorsi il figlio Ivan, sei anni, affetto da paralisi cerebrale ed epilessia.
Nel ringraziare coloro che gli sono stati vicino, ha scritto tra l’altro: «Abbiamo sempre saputo che Ivan non sarebbe vissuto per sempre, ma non ci aspettavamo di perderlo così giovane e così all’improvviso… Quando ci fu detto per la prima volta quanto fosse grave la disabilità di Ivan, pensai che avremmo sofferto dovendoci prendere cura di lui ma almeno lui avrebbe tratto beneficio dalle nostre cure. Ora che mi guardo indietro vedo che è stato tutto il contrario. È stato sempre solo lui a soffrire davvero e siamo stati noi — Sam, io, Nancy ed Elwen — a ricevere più di quanto io abbia mai creduto fosse possibile ricevere dall’amore per un ragazzo così meravigliosamente speciale e bellissimo».
Di fronte a una confidenza così sentita, suona ancora più blasfema la notizia che arriva dagli USA, secondo la quale «Una clinica della fertilità di Los Angeles, scrive il sito web della Bbc, ha iniziato a offrire la possibilità di creare bambini su misura: i genitori potranno scegliere sesso, colore degli occhi e dei capelli degli eredi. Il primo neonato su ordinazione sarà “pronto” il prossimo anno».
Sicuramente addomesticare la genetica adattandola ai nostri desideri di oggi può sembrare comodo, e forse perfino geniale. In fondo l’uomo del XXI secolo, nella sua infantilità, ha dimostrato di non saper resistere al richiamo del “tutto e subito”: si tratti di vita, morte, salute, ambiente, rapporti sociali o altro, abbraccia le scorciatoie con una superficialità sorprendente e senza curarsi per nulla delle possibili conseguenze. Salvo poi, naturalmente, recriminare contro la natura, contro Dio, contro il governo o contro qualunque cosa gli capiti a tiro.
Costruire un figlio su misura, come si fa da tempo per i cani da concorso, sarà forse anche un progresso e una soddisfazione per qualcuno. Ed è certamente vero che, per quanto la sofferenza sia parte della nostra vita, non siamo nati per soffrire.
Eppure, ripensando al dramma di David Cameron, non possiamo non concludere che la vera felicità, per un cristiano, non stia tanto nel poter decidere, quanto nel saper accettare.
Desideri senza limiti
Chissà perché, nella nostra società, esistono personaggi che non sono disposti a fermarsi nemmeno di fronte ai drammi umani.
Del caso di Eluana Englaro si è voluto fare un simbolo, un paradigma, travalicando l’interesse della paziente e il suo diritto a un dignitoso silenzio. Non sono mancati, attorno al padre, personaggi più o meno attendibili, pronti ad affannarsi con dichiarazioni avventate – o quantomeno dubbie – in cerca di una visibilità pelosa che odora di sciacallaggio.
Ora emerge il caso di una donna che vuole un figlio dal marito in coma, malato di tumore al cervello. Poteva essere l’occasione per dimostrare che dal caso Englaro si era imparato qualcosa, e invece no.
La Repubblica scrive che «Antinori è arrivato come un ciclone al Policlinico San Matteo di Pavia, dopo che l’ospedale aveva dato l’ok al prelievo di liquido seminale».
Si tratta, spiega il quotidiano, del «professor Severino Antinori, il ginecologo-star, esperto di fecondazione assistita».
Se sia lecito, legale, etico non conta molto per il luminare, che – stando a Repubblica – ha espresso un bellicoso: «E adesso si va avanti. Voglio vedere come ci possono fermare».
Se sono davvero parole sue, il quadro è preoccupante. Una vicenda simile richiederebbe delicatezza e tatto.
Forse sarebbe stato il caso di chiedersi se la visibilità, i riflettori, il rumore dei media facciano l’interesse del paziente o del medico.
Forse bisognerebbe chiedersi se, magari inconsciamente, dietro a una dichiarazione come «procederemo alla fecondazione, secondo una nuova tecnica che ho sviluppato io stesso» non ci sia brama di apparire, più che interesse scientifico.
Per il momento nessuno si chiede nulla. Tutti a rivendicare i propri diritti e a perseguire i propri desideri, a costo di forzare i limiti, pur di raggiungere l’obiettivo. Come in un dibattito, il risultato finisce per non contare più: l’importante è ribadire le proprie ragioni a prescindere da una serena riflessione sulle motivazioni che spingono in una direzione, e le conseguenze che le scelte potranno avere a breve, medio, lungo termine.
Vale la logica del talk show, dove chi parla più forte ha ragione, e chi tace ha torto. E ad avere torto è il nascituro, che per ora esiste solo nei pensieri dei contendenti e che pare al centro dell’attenzione, ma sul cui triste futuro da orfano annunciato nessuno si interroga.